Aris Accornero
Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c2
Questa strada convince poco, come tutte quelle che
{p. 74}si propongono di risolvere in fabbrica i problemi del lavoro e nello Stato i problemi della politica: sono luoghi deputati, ma guai a fermarsi lì. Questo sembra pertanto un cammino eroico ma è un arroccamento disperato.
Noi non dobbiamo risposte alle generazioni future. Se le risposte tardano, o tardano i loro effetti, il rapporto lavoro-identità resta in balia di tendenze che sembrano effimere ma poi si rivelano irresistibili, come i jeans e la Coca-Cola nei paesi del socialismo, non importa se Urss o Cina. (La Cina, dov’è stata abbandonata quella pedagogia del callo, in base alla quale professori e studenti venivano mandati a lavorare nei campi a titolo formativo).
Ora, la lotta per cambiare l’organizzazione del lavoro incontra vincoli tecnici e storici che è difficile forzare ed arduo scavalcare, perché registrano rapporti di forza e di dominio lungamente sedimentati. D’altra parte l’organizzazione stessa del lavoro è una risultante, non già la fonte del potere capitalistico [65]
. Anche per ciò, le conquiste in materia dicono che i lavoratori si sono rafforzati, ma non rivelano se il lavoro si è valorizzato; può tra l’altro essere aumentato il loro potere ma non il loro status. Né un controllo sul lavoro — investimenti e ritmi — aggiunge di per sé qualità al lavoro, pur esprimendo il maggior potere dei lavoratori. (E per favore non si faccia troppo conto su una pur desiderabile progettazione operaia o sindacale delle mansioni e dei macchinari).
Ma poi, da questa lotta ci si può prefiggere una umanizzazione del lavoro, non una rigenerazione dell’identità. Sarebbe come ridurre gli orari di lavoro, non tanto per migliorare la condizione di chi lavora, ma principalmente per dare lavoro a chi non ce l’ha: procedimento nobile ma contorto.
Cambiare l’organizzazione del lavoro non è la stessa cosa che cambiarne la valutazione sociale [66]
. Luoghi, condizioni e contenuti del lavoro possono e debbono migliorare, ma ciò non basta per portare le tute blu al livello di prestigio che la società capitalistica accorda ai {p. 75}colletti bianchi, anche quando lavorano nello stesso posto e sono magari più tartassati. Soprattutto, scegliendo questa strada il metro di giudizio si orienta e si concentra sulla forza produttiva del lavoro, sul lavoro come forza produttiva. Ciò è logico. Tuttavia sta proprio qui oggi il punto debole di tale opzione.

5. Il valore economico prima dell’utilità sociale del lavoro

La storia italiana di questi anni mostra le possibilità di una politica del movimento operaio orientata alla valorizzazione sociale del lavoro operaio. Ne mostra anche i limiti, che riecheggiano quelli già incontrati negli anni Venti e Trenta in vari paesi, e soprattutto nella «grande Vienna rossa». Ci si accorse allora che all’insegna della forza produttiva del lavoro operaio — nobiltà di quello manuale, orgoglio per quello professionale — oltre certi risultati non si va; mentre la fierezza degli sfruttati per la propria condizione, a un certo punto si traduce in una imperiosa domanda di potere. Ci si accorse con l’esperienza consiliare che il messaggio e il movimento stesso rimangono entro ambiti angusti, se si vuol rifondare lo Stato ricalcando l’organizzazione politica sull’organizzazione del lavoro: se l’aspirazione all’egemonia viene appiattita come primato produttivo [67]
. (Non tutti tra l’altro sognano che l’intera società diventi una grande fabbrica, come sogna Proudhon e come Lenin promette per un momento in Stato e rivoluzione [68]
). E inoltre la coerenza del modello statuale ordinovista risultò perdente ovunque, tranne là dove una «rivoluzione contro il Capitale» come la giudicò Gramsci — seppe vedere nel Soviet una forma politica per prendere tutto il potere, e non semplicemente un organo operaio per gestire fabbriche e produzione, di contro all’incapacità dei capitalisti [69]
.
Al tempo di Gramsci si trattava di imporre per la prima volta il riconoscimento della presenza operaia nella società, legittimato da quella centralità produttiva e da quell’egemonia politica di cui doveva diventare e{p. 76}spressione il binomio: autogoverno dei produttori e Stato dei Consigli, di vaga ascendenza comunarda [70]
. Ma quella è una fase storica inesorabilmente datata, non meno nella composizione sociale che nell’identità politica della classe operaia italiana. È passato mezzo secolo e quel riconoscimento è stato conquistato, senza rivoluzione benché nel fuoco di un altro «biennio rosso», il 1968-69, quando sono sorti altri Consigli, portatori di una domanda politica antagonistica assai più che alternativa, e giudicati intrinseci al sindacato. L’auto-organizzazione conflittuale dell’operaio-massa ha aperto la fase più alta finora raggiunta nella valorizzazione sociale del lavoro. Lo stesso corto circuito fabbrica-società, provocato dall’operaismo sindacale, ha mostrato aperture che cinquanta anni fa erano assenti nel corto circuito fabbrica-Stato, dovuto all’ideologia ordinovista [71]
.
A maggior ragione, se è vero che oggi «si consuma la fine della lunga storia delle classi subalterne» [72]
, diventerebbe arduo esportare nel sociale un modello proletario, uno Stato operaio, costruiti privilegiando la dimensione produttiva del lavoro. Oggi, se si scarta la rivoluzione, un primato sociale del producteur potrebbe essere sostenuto soltanto a forza di ideologia. E di operaismo. Dietro al quale spunterebbe poi sempre il volto radioso del «tornitore-Universal» [73]
, piuttosto che il camice bianco dell’operaio-tecnico, come simbolo d’identità collettiva.
Forse in Italia si è realizzato il massimo che poteva trarsi, escludendo vie radicali e traumi politici, da una identificazione sociale piantata sul lavoro produttivo, sul ricco pathos della centralità d’una classe operaia combattiva ed organizzata sul posto di lavoro, e non rinserrata entro orgogliose prefigurazioni consiliari. Ma il modello delineato in questi anni non si diffonde e l’esperienza fatta si isola, se a questo punto il movimento operaio non ha il coraggio di muovere dal cuore della produzione di valore/plusvalore, allargando verso l’esterno le basi dell’identificazione. E del resto, neppure il lavoro produttivo conferisce ormai un’identità globale: rivalutarne i contenuti può renderlo appetibile, ma {p. 77}non per questo apprezzato. Il metro non basta più: è corto. A mantenere ferma quella nozione, questa misura, noi tagliamo fuori determinazioni e comparti crescenti del lavoro salariato [74]
. Si può anche mettere sotto controllo, in qualche misura, l’organizzazione del lavoro; ma se il lavoro produttivo si crogiola nella propria egemonia senza sapere né riconoscere né inglobare l’altro, perde il controllo della composizione di classe [75]
.
Se dunque le scelte relative all’identità sollevano la questione del modello, questo rinvia nuovamente al lavoro. Il problema, in sostanza, è ancora quello del rapporto fra valorizzazione e socializzazione. E una risposta che voglia essere realistica non può venire trovata nel contenuto produttivo del lavoro, ma nella valutazione sociale della sua utilità. E questa può soltanto basarsi sul riconoscimento della produttività generale del lavoro sociale. Solo così, e sempre partendo dalla fabbrica, ritengo si possa adeguare il metro del lavoro alle questioni dell’identità e del modello; e anche del blocco sociale.
Esiste a proposito del lavoro una nozione che i bolscevichi rilanciarono con enfasi rivoluzionaria ed aggressività giacobina, su una variante del precetto paolino che, volendo, potremmo far risalire a Rousseau, ma anche ad altri: quella di utilità sociale, tutt’altro che blanda tant’è che, accoppiata con il lavoro obbligatorio, venne brandita contro la borghesia e fissata poi nel primo Codice del lavoro [76]
. Una nozione quindi che non veniva usata come parametro economico parallelo, ma come criterio politico per la valutazione degli apporti individuali. Ed era in essa esplicita l’accoppiata utilità/dignità, così come la condanna del non-lavoro e della vecchia identità. Ciò detto, l’utilità sociale del lavoro non mi pare una nozione melensa o una trovata marginalista; e mi sentirei di sostenerla, conscio delle obiezioni e dei rischi, per allargare verso l’esterno le basi dell’identificazione, e non già per ritrovare dentro il lavoro motivazioni nuove, come pensava De Man [77]
.
Questo però implica varie conseguenze, parecchie delle quali ostiche ad un movimento operaio come quel{p. 78}lo italiano, non sbiadito dal pragmatismo, e che conserva un’immagine nobile perfino del Potere, tipica della cultura d’opposizione. Introdurre tale nozione significa infatti dare credito politico al lavoro utile, senza limitarsi a chiedere riconoscimento sociale per il lavoro produttivo. Significa accordare «statuto operaio» a lavoratori cui la divisione capitalistica del lavoro non ha dato l’onore/onere di produrre plusvalore. Significa ampliare le basi dell’identità fondabile sul lavoro, rispetto all’immagine stessa che del lavoro ha il movimento operaio.
Questa dilatazione dei confini non è certo nuova come proposta, e potrebbe non essere risolutiva come rimedio, soprattutto se ci si vedesse solamente un restauro dell’immagine di lavoro, un’incursione operaia nel sociale, o una omologazione forzosa del terziario: se venisse insomma giocata sotto il segno di una «proletarizzazione» qualsiasi [78]
. Non si tratta di questo, e neppure di una riforma morale della concezione del lavoro, o d’una rifondazione scientifica della sua misura. Il problema riguarda il criterio della valutazione sociale. E se per andare a ridefinire il lavoro salariato oltre la sfera produttiva occorre del coraggio [79]
, questo è ancora niente in confronto a quello che ci vuole per captare un’identità sociale al di là del ruolo lavorativo.
Si è disposti ad accettare in tutte, le sue implicazioni l’idea che il contesto sociale influenza più di un tempo l’identità, mentre il ruolo lavorativo la determina di meno? Che la società concorre a dare, giacché il lavoro non dà abbastanza? E si è disposti, per riequilibrare quella relazione così pericolante, ad ammettere, ed a prendere all’esterno del lavoro, nell’altro-dal-lavoro, materiali costitutivi diversi, e quali, e come? (Basta che non siano gli hobbies creativi, il tempo libero mistificato ... [80]
).
Sono scelte da non drammatizzare, da non vivere come iatture. (Onestamente: è poi così gran male, gran perdita, se l’autorealizzazione si esternalizza?). Ma comunque sono cose oltremodo impegnative, che si potrebbero considerare avventure solo se non si impones
{p. 79}sero, anche e proprio al movimento operaio, che del Lavoro è il depositario indiscusso perfino quando si presenta sotto conformazioni a noi inconsuete; ma che nei prossimi lustri potrebbe andare incontro ad una «rivoluzione passiva» nella propria composizione sociale e al progressivo decadimento di titolarità nella rappresentanza politica.
Note
[65] Cfr. due recenti lavori: D. Salerni, Tecnologia e forza di lavoro. Note in margine al determinismo tecnologico, in «Rassegna italiana di sociologia», n. 4, ottobre-dicembre 1977; G. Gasparini, La tecnologia produttiva, in Tecnologia, ambiente e struttura, Milano, Franco Angeli, 1976, in particolare le pp. 178-88.
[66] Ciò vale anche per quella «rivalutazione intellettuale del lavoro», consistente in un allargamento e arricchimento delle mansioni, che veniva caldeggiata per tempo da G. Friedmann, Il lavoro in frantumi, Milano, Comunità, 1960, pp. 191-6.
[67] «Mettendo al centro dell’organismo di diretta rappresentanza operaia la struttura della produzione, si fa del lavoro il metro di misura fondamentale di tutte le cose»: così A. Asor Rosa, in Intellettuali e classe operaia, cit. p. 585.
[68] V. I. Lenin, Opere, Roma, Editori Riuniti, 1967, vol. XXV, p. 445: «L’intera società sarà un grande ufficio e una grande fabbrica con uguaglianza di lavoro e uguaglianza di salario».
[69] In Leninismo e rivoluzione socialista, Bari, De Donato, 1970, pp. 150-51, una notazione condivisibile è la critica contro la «riduzione dell’esperienza sovietica a strategia del controllo operaio di fabbrica nei Consigli».
[70] Nell’importante articolo del 13 settembre 1919 (non firmato), «Lo sviluppo della rivoluzione», in A. Gramsci, L’Ordine nuovo 1919-1920, Torino, Einaudi, 1954, pp. 27-31, si parla della conquista e dell’esercizio di un «potere sociale» da basare sulla comunità di lavoro e sul sistema dei Consigli, giacché «la sovranità deve essere una funzione della produzione» (corsivo nostro). Secondo G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, cit., p. 105, «il Consiglio operaio è il superamento politico-economico della reificazione capitalistica».
[71] Cfr. la relazione dello scrivente sul tema «Operaismo e sindacato», in Operaismo e centralità operaia, cit., pp. 27 ss.
[72] M. Tronti, ibidem, p. 24.
[73] L’espressione ricorre nelle pagine satiriche di A. Zinoviev, Cime abissali, Milano, Adelphi, 1978, vol. II, a indicare lo stereotipo dell’operaio professionalmente e politicamente d’avanguardia.
[74] A modo suo, inoltrandosi per il terziario e scoprendo un «quaternario», queste cose ce le ha ripetutamente ricordate uno studioso al quale dobbiamo credere: R. Alquati, Sindacato e Partito, Torino, Stampatori, 1974, pp. 161-226; e anche L’incorporamento del sapere sociale nel lavoro vivo, in «Aut Aut», n. 154, luglio-agosto 1976, pp. 51 ss.
[75] E che fra l’organizzazione del lavoro e la composizione di classe manchi una corrispondenza meccanica, l’ha ricordato proprio Cacciari in Operaismo, cit., pp. 45-54.
[76] Nella società, «dove vive necessariamente a spese degli altri, [l’uomo] deve loro in lavoro il prezzo del suo mantenimento»: così J. J. Rousseau, Emilio, Bari, Laterza, 1953, p. 165. Col lavoro obbligatorio, «spariranno i parassiti e rimarranno soltanto quelli che col loro lavoro arrecheranno un utile alla società»: N. I. Bucharin, Il programma comunista, Milano, Tindalo, 1970, p. 137.
[77] «Se il lavoro di cui la tecnica è ormai l’anima deve avere ancora un senso — visto che il bisognò di dargli un senso è qualcosa di incomprimibile — dobbiamo rappresentarcelo come avente il suo fine non più nel prodotto singolo ma nell’utilità sociale»: H. De Man, op. cit., pp. 315-6. In precedenza aveva tuttavia ammonito: l’utilità sodale «è un fattore intellettualmente accessorio di gioia nel lavoro ma mai un movente essenziale di questa gioia», p. 218.
[78] Il che sarebbe «pessimistico-regressivo», come ha scritto M. Cacciari, Dopo l’autunno caldo: ristrutturazione e analisi di classe, Padova, Marsilio, 1973, p. 66.
[79] Oltre la sfera produttiva, vi è tuttora nelle statistiche sovietiche — rispettose delle definizioni marxiane più ortodosse — quella «improduttiva» dov’era collocato nel 1976 un quarto dell’occupazione totale: ZSY SSSR, Narodnoe Chozaistvo SSSR sa 60 let, Moskva, Statistika, 1977, p. 460. Vedi ora: R. di Leo, Occupazione e salari nell’URSS 1950-1977, Milano, Etas Libri, 1980, pp. 48-53.
[80] L’inventore del «fatelo da soli» — le do itself activities — è un noto profeta della libertà, e dell’essere contro l’avere: E. Fromm, Fuga dalla libertà, Milano, Comunità, 1963.