Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c2
Il fatto decisivo è che non si dispone di una teoria
operaia della promozione e della mobilità sociale. O, per meglio dire, essa non può che far
perno sul mecca
Riprendiamo per un istante alcune argomentazioni
svolte in precedenza. C’è un punto di partenza caratteristico: il salto che si ritiene
venga compiuto — e per più d’un motivo non posso che aderire pienamente a questa convinzione
— allorquando si entra nella condizione di operaio
[37]
. L’ingresso nella classe, attestato dal posto che si viene ad occupare nel
rapporto di produzione, corrisponde alla prima, decisiva promozione. E questa viene
acquisita mercé il lavoro, anche se un rapporto di classe preesisteva, a decidere di
quell’ingresso
[38]
.
Il lavoro dunque, così come conferisce la prima
promozione d’identità, assicura anche quelle successivamente conseguibili dentro la classe:
l’ascesa professionale, la missione politica
[39]
. Su questo cammino non vi sono cesure, visto che le ascendenze di classe
continuano a illuminare e ad ancorare con fierezza le possibili carriere verso la dirigenza
tecnica, la leadership politico-sindacale, l’incarico pubblico.
Mobilità ulteriore non si dà, o per lo meno non si prevede che a muovere e promuovere
possano essere vicende e meriti extra-lavorativi, eccezion fatta per l’istruzione
[40]
.
Non mi pare vi siano qui somiglianze sostanziali con
il paradigma dell’etica protestante, a cominciare dal fatto che ogni promozione viene intesa
dal movimento operaio come premio dentro la propria classe, e come successo della classe
stessa prima che della persona. L’individuo sale, ma è la classe che si invera. Fino a
«farsi Stato».
Fuori dal lavoro, soltanto la scuola è legittimata a
fornire una identità sociale riconosciuta e meritata, tanto più che fa poi rientrare i
beneficiati nel mondo del lavoro, per i nobili canali della tecnica, della scienza e anche
dell’arte. C’è per l’istruzione, nel movimento operaio, una predilezione vera e propria,
pienamente comprensibile. Le barriere all’accesso e l’aspra selezione ne facevano una
tipica istituzione negata, allo stesso modo del suffragio universale. Questo assimilava
ancor più ¶{p. 65}l’istruzione a una specie di emancipazione parallela, e la
rendeva anch’essa, come il voto, un luogo tipico dello scontro sociale. Chi poteva andare a
scuola? Chi non era un lavoratore.
Per questi motivi, la scuola appariva come un fattore
se non un canale di mobilità, solamente quando «promuoveva» figli di lavoratori salariati:
se elevava altri, si confermava appunto come una scuola di classe. Questo però si è venuto
modificando un po’ dovunque durante gli anni ’60, ed oggi la scuola di massa promuove con
maggiore abbondanza. Ciò favorisce anche i figli dei lavoratori salariati, benché in misura
proporzionalmente ridotta
[41]
. Le aspettative sociali generate in questo periodo sono enormemente superiori a
quanto si poteva immaginare. E come potrebbe non essere? Un genitore operaio si
giustificherà per aver fatto fare l’operaio anche al figlio, ma mai per averlo fatto
studiare. E farlo studiare, abolita la segregazione dell’«avviamento professionale», è quasi
come evitargli di fare l’operaio. Cosa accadrebbe, d’altra parte, se tutti i figli delle
famiglie operaie volessero fare l’operaio
[42]
?
La scuola, «un passaggio serio e impegnato al quale
legare le prospettive dei figli»
[43]
, è rapidamente diventata un elemento di crisi nella riproduzione dei ruoli
sociali, oltreché lavorativi. Questo scuote fin dalle fondamenta i
sistemi di istruzione giacché capovolge una funzione invero classica. Ma ciò, non perché la
scuola promuova adesso i figli degli operai, bensì perché continua a promuovere a
non-operai. (E questo avviene ovunque, non esclusivamente in Italia). Il lavoro infatti non
è un punto di riferimento dell’istruzione, la quale d’altro canto dà più di quanto molti
lavori oggi richiedano
[44]
.
Attese secolari (non sembri questo esagerato) vengono
in tal modo deluse, quando certi genitori operai scoprono che la scuola sforna più
facilmente «dottori» che tecnici. Che assicura una mobilità di ceto più che di classe. Che
trasforma l’identità invece di maturarla. E non tutti desiderano questa mobilità
trasversale,¶{p. 66} perché non tutti cercano un’evasione del ruolo, e dalla
classe, attraverso i figli.
Dunque l’istruzione è promozione, sì, ma in un
crescente distacco dal lavoro, che non è il cuore del sistema scolastico e sempre meno ne è
lo sbocco. Questo turba profondamente. L’impressione è tale da smentire le virtù stesse
che alla scuola di massa si annettevano per l’omologazione sociale dei figli delle classi
subalterne.
Cosicché l’orizzonte tradizionale rischia di
restringersi anche da questa parte. La visione sana e corretta di una mobilità sociale
tutta interna al lavoro corrobora senz’altro il bagaglio delle classi subalterne, e mantiene
in sé una considerevole nervatura ideale. Ma la sua presa pratica si riduce poiché l’ascesa
pare svolgersi in un limbo dove il lavoro non si staglia più con orgoglio e gratificazione
di classe. Troppe volte il veicolo è diverso. Ciò rende quasi devianti tutti quegli
individui di estrazione popolare, la cui identità si è formata passando per altri canali in
forza di circostanze casuali: e anzi fa sì che certe promozioni siano sentite come devianze
dai beneficiari medesimi. La situazione potrebbe farsi insostenibile.
Considerando anche l’esperienza del socialismo
realizzato — l’unico ahinoi che esista finora in natura — e quella dei paesi a modello di
sviluppo socialista
[45]
, parrebbe che nel suo insieme quel che chiamiamo movimento operaio conosca
soltanto l’alternativa fra stabilità sociale e rivoluzione sociale: e questa per realizzare
quella. Prima pareva che eliminando la classe dei possessori privati dei mezzi di
produzione, liberandosene, la struttura sociale ne uscisse depurata a sufficienza,
qualitativamente. È quel che si pensa nei paesi del socialismo realizzato, dove i ruoli
lavorativi delle ex classi subalterne non sono cambiati mentre cambia radicalmente la loro
identità sociale; dove la centralità del lavoro produttivo viene esaltata sul posto,
esprimendo una egemonia la cui titolarità è incontestata e la cui rappresentanza,
incontrovertibile. Società nelle quali, pur rimanendo dov’erano, tutti gli ex sfruttati sono
¶{p. 67}stati promossi ed hanno compiuto un salto, perché è saltato il
coperchio ed una leadership da loro espressa ha preso il posto di
quella cacciata. (Non sottovaluterei il fatto che, di quelle esperienze, la formazione
sociale è forse il contributo più cospicuo: certo più di quello dato con la forma-Stato o
con l’economia pianificata).
Problemi possono venire dal gonfiarsi di un ceto
politico-amministrativo, che pure si presenta come braccio operativo della gestione
operaia; e sorprese, dal crescere di un ceto tecnico intellettuale il cui ruolo travalica
oggi lo status e che vuole una legittimazione per equipararli. Ma
d’altra parte sono proprio questi i canali di mobilità interna che
assicurano ulteriori promozioni a quella classe operaia, che già si fa Stato lavorando in
fabbrica, in virtù della preminente corrispondenza socio-politica tra il suo ruolo
produttivo e la sua identità statuale
[46]
.
E questo è l’unico esempio che si conosca (salvo il
«mettersi in proprio») di lavoro liberato. Qui da noi c’è ancora il coperchio, e se non lo
si vuol far saltare, a maggior ragione occorre porsi il problema della non immobilità
sociale nelle società capitalistiche. Anche su questo dovrebbe misurarsi chi s’interroga
sulla «transizione»: quale promozione vi è nel lavoro, da qui a una società «più giusta»?
[47]
Non c’è soltanto la strada maestra; e di scorciatoie quali l’altro lavoro e il
non-lavoro, s’è già detto.
C’è una via antitetica a quella del movimento
operaio, una via che cospira contro l’immagine di una promozione sociale sul posto, usuale
nel vecchio continente. È l’ideologia della promozione attraverso i lavori,
l’escalation delle professioni anziché della professione. È
l’americanismo come mobilità, che rompe l’etica del lavoro intesa quale mezzo statico per
la promozione sociale, per la conquista dell’identità
[48]
. È l’esaltazione del geniaccio poliedrico, è la retorica del «farsi da sé»,
certo. Tuttavia, nel Nuovo Mondo, la pluralità e la rotazione delle opportunità di lavoro ha
potuto premiare più dell’ascesa metodica dentro il medesimo mestiere. E la disponibilità
al cambiamento è risultata quindi più profi¶{p. 68}cua, se non più
appagante, della fedeltà alla professione. Ne è derivato un atteggiamento utilitaristico
verso il Beruf di ognuno. Questo atteggiamento, che si rendeva
necessario per riciclare milioni di immigrati, ma anche perché essi scorgessero un futuro
nel proprio sradicamento, è stata la molla di una divaricazione fra ascesa nel mestiere e
promozione nella mobilità.
Varie conseguenze ne sono venute. Visto che la
società premiava e comunque ideologizzava il processo di adattamento ai lavori, il
baricentro dell’identificazione sociale si è venuto spostando. Generazioni di proletari
hanno rincorso la frontiera mobile del cambiamento di lavoro/ceto, portandosi appresso il
bagaglio leggero di una identità sociale sempre provvisoria, di un’autodefinizione di sé, e
del proprio status, sempre mutevole e ogni volta non meno vera. Ma
siccome una promozione per tutti non c’era; siccome per tanti contadini polacchi non c’era
che il primo gradino — l’ingresso nella condizione operaia — l’effetto dell’ideologia era
uno scollamento nel nesso lavoro-identità: cosicché il senso di appartenere a una classe si
presentava come un residuo sia quando si indeboliva sia quando si radicalizzava.
Questo americanismo si è poi affacciato anche in
contesti capitalistici a mobilità più convenzionale e contenuta, e ad ideologie più
classiche; e ovunque adesso i due grandi percorsi obbligati della mobilità (per lo meno
quella interna alle varie generazioni) sono appunto: una ascesa nel
lavoro e una arrampicata coi lavori. Effettivamente, cercare di
migliorare il proprio lavoro, e cercarsi lavori che siano migliori, dà luogo a forme opposte
di mobilità, l’una ascensionale l’altra laterale. La prima strada è quella della carriera, e
l’altra dell’affermazione. Sono strade che coesistono e che si intersecano, ormai, e solo
all’apparenza la seconda è più individualistica della prima: dipende comunque dai processi
di legittimazione sociale.
¶{p. 69}
Note
[36] L’autore più attento, scrivendo nel 1921 un vero «Manuale popolare di sociologia marxista», non vi fece il minimo cenno: cfr. N.I. Bucharin, Teoria del materialismo storico, Firenze, La Nuova Italia, 1977. Né aveva adombrato la questione in quella opera di ingegneria sociale che è l’Economia del periodo di trasformazione (in realtà: di transizione), Milano, Jaca Book, 1971, dove pure c’è un’acuta tipologia sulla composizione della classe operaia: p. 156.
[37] Avrei scritto «proletario salariato» in omaggio ai classici, ma tengo presenti le osservazioni di S. Ossowski, Struttura di classe e coscienza sociale, Torino, Einaudi, 1966, p. 160.
[38] Si veda il paragrafo «Ruoli sociali e loro detentori» di R. Darhendorf, Classi e conflitto di classe nella società industriale, Bari, Laterza, 19702, pp. 235 ss. e in particolare la p. 243: «L’interrogativo: “In che modo l’individuo diventa un membro della classe operaia?” può essere semplificato nella domanda: “In che modo l’individuo diventa un operaio?”».
[39] «Il modo più naturale per sfuggire l’esistenza proletaria è di entrare al servizio del movimento operaio come funzionario»: così H. De Man, La gioia nel lavoro, Bari, Laterza, 1931, p. 396. Ovvio il rinvio a R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, Bologna, Il Mulino, 1966, che ha dedicato un capitolo alla leadership di origine proletaria, p. 401 ss. Utile anche la descrizione di G. Roth, I socialdemocratici nella Germania imperiale, Bologna, Il Mulino, 1971, capp. X e XI.
[40] Sono caratteristiche di questa fissità proletaria le considerazioni svolte da G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, Milano, Sugar, 1967, nell’esporre «il punto di vista del proletariato» sul processo di reificazione: cfr. pp. 226-7. K. Kautsky, Il programma di Erfurt, Roma, Samonà e Savelli, 1971, p. 166, parlava dell’elevazione operaia tramite la scuola popolare come di un «un mezzo importante il cui significato non deve essere sottovalutato».
[41] C. De Francesco e P. Trivellato, La laurea e il posto, Bologna, Il Mulino, 1978, in particolare il capitolo «La selezione nell’università di massa», pp. 95 ss.
[42] Sul tema Il rapporto dei giovani con la società: il lavoro lo scrivente ha svolto una comunicazione al convegno dell’istituto Gramsci del 7-8 ottobre 1977, «La crisi della società italiana e gli orientamenti delle nuove generazioni»: vedi I giovani e il lavoro, in «Il Mulino», n. 253, settembre-ottobre 1977, p. 647 (oltreché il volume degli Atti, Roma, Editori Riuniti, 1978).
[43] S. Garavini, op. cit., pp. 20-21.
[44] «Il lavoro in sé, il lavoro tout-court, sia intellettuale che manuale, è sparito come punto di riferimento dell’elaborazione culturale, morale ed ideale trasmessa all’interno della scuola»: così F. De Anna in Sindacato e questione giovanile, cit., p. 117. Vedi anche quanto afferma S. Garavini, ibidem, p. 21 sulla scuola che «nella sua attuale dimensione di massa dà ai giovani una visione negativa del lavoro, semina odio per il lavoro».
[45] Il riferimento è alla nota tesi di A. Gerschenkron sul rapporto fra arretratezza economica e ideologie per il decollo: cfr. Il problema storico dell’arretratezza economica, Torino, Einaudi, 1965.
[46] D. Lane, The Socialist Industriai State. Towards a Politicai Sociology of State Socialism, London, Alien & Unwin, 1976; W. D. Connor, Socialism, Politics, and Equality, New York, Columbia University Press, 1979; e anche M. Yanowitch, W. Fisher, Social Stratification and Mobility in thè USSR, New York, International Arts and Sciences Press, 1973. Ma potrebbe bastare, come epigrafe, la seguente esclamazione di A. Zinoviev, Cime abissali, vol. I, Milano, Adelphi, 1977, p. 398: «Che colpa ha nostro figlio se tu non sei un operaio o un contadino?».
[47] In ogni caso apprezzabili sono pertanto le suggestioni su un «terzo sistema» venute dalla Commissione CEE presieduta da G. Ruffolo, «Un projet pour l’Europe». Nouvelles caractéristiques du developpement socio-économique, Bruxelles 1978.
[48] Non è dunque l’emulazione del vicino di casa, che giustamente R. Dahrendorf ricorda non essere «peculiare della società americana» — cfr. Homo sociologicus, Roma, A. Armando, 1966, p. 61 — bensì la caratteristica che notava W. Sombart già all’inizio del secolo, la «fuga dell’operaio dallo stretto circolo del lavoro salariato»: cfr. Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo?, Milano, Etas Libri, 1975, p. 117. Ma ancor prima Marx aveva segnalato «questa indifferenza completa per il contenuto particolare del lavoro, questo passaggio da un ramo d’industria a un altro»: Il Capitale: Libro I capitolo VI inedito, Firenze, La Nuova Italia, 1969, p. 68. Lo stesso concetto veniva espresso nella «Introduzione» del 1857 a Per la critica dell’economia politica, Roma, Editori Riuniti, 1957, p. 191. Cfr. le osservazioni di M. Paci nell’introduzione a S. M. Lipset, R. Bendix, La mobilità sociale nelle società industriali, Milano, Etas Libri, 1975, pp. 5-6.