Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c2
Questa sfacciatissima sovranità della determinazione
economica del lavoro, della classe e dell’identità, francamente, ha già fatto fin troppi
danni. Forze produttive, valore-lavoro: tutto viene e tutto si evince da qui. Sono potenze
genetiche, sono universi esplicativi. Ma questo, non è per caso il mero ribaltamento del
feticismo, non è forse il modo di intendere e di volere del capitalismo, rovesciato più che
disvelato? Non è forse applicando questo procedimento che svanì la consistenza politica
della vittoriosa classe operaia russa, dopo aver dato una formidabile ma fugacissima prova
[96]
? Non dice nulla l’aberrante benché ordinovistica
definizione di Bucharin, secondo cui lo Stato proletario è un «soggetto economico
collettivo»
[97]
? Questo non è l’inizio, questa è la fine della conclamata «classe per sé»: una
volta fatta la
¶{p. 84}rivoluzione, la levatrice torna ai fornelli, a fare
la cuoca.
Si raccomanda con sempre più doverosa convinzione:
non ricalchiamo il socialismo realizzato; e ciò, per via del partito-Stato, del dissenso
intellettuale, delle invasioni sovietiche, vietnamite, cinesi, e per altre cento buone
ragioni. Ebbene, non ricalchiamo allora questa reductio ad oeconomicus
della classe, del lavoro e dell’identità.
A rimanere così orribilmente pressati tra la
dimensione materiale delle forze produttive e il metro economico del valore-lavoro,
rischiamo di uscirne con un criterio, ed una visione, spiattelliti: cosa diavolo rimane
all’identità, alla classe, al lavoro, se non un residuo? Questa dittatura economicista
andrebbe fatta saltare in un punto, criticando non già Marx, ma i marxisti. Ora, a me non
preoccupa tanto che vi sia ancora chi, al seguito delle forze produttive e previo intervento
razionale di levatrice patentata, si aspetta che avvenga la rivoluzione nei rapporti di
produzione — di produzione, non di proprietà! — nonostante il cumulo di smentite sia ormai
più pesante d’una montagna di obiezioni. Preoccupa invece che vi sia tuttora chi se la sente
di dire che non solo la produttività ma l’identità del lavoratore è interamente deducibile
dalla legge del valore-lavoro così come la sua alienazione lo era dal rapporto di
proprietà. Preoccupa questa cosa, assai più della trasformazione dei valori in prezzi,
giacché se è presa alla lettera come nel socialismo sovietico lascia in subordine una
porzione crescente di forza lavoro; e se è presa con le pinze come nell’eurocomunismo
italiano, lascia indeterminate le conseguenze sociologiche che pure si dovrebbero trarre
al constatare che anche il lavoro «inutile» conferisce identità, così come quello
«improduttivo», può pur esso avere una utilità.
Valore economico e utilità sociale, nel lavoro, non
coincidono
[98]
. Non accontentiamoci però di contrastarlo e non caviamocela storicizzando.
Cerchiamo di farli coincidere, se è possibile, il più possibile. Ma intanto, senza aspettare
la fine dell’era capitalistica, anzi per ¶{p. 85}ravvicinare la società di
domani, vediamo di trasformare questa traversia in opportunità criticando l’un criterio con
l’altro, la misura che ci dà l’economia con la valutazione che vogliamo dia la società
[99]
.
Per carità, non si tratta di salvare capra e cavoli,
scienza e coscienza, associando, integrando la misura oggettiva dei valori di scambio e la
valutazione soggettiva dei valori d’uso, così come si formano col lavoro. Connubio che
oltrettutto darebbe luogo a un pastrocchio fra teorie del valore-lavoro e del valore
utilità. Né si tratta di emendare l’irrazionalità del metro invalso nel capitalismo, quanto
piuttosto di superare i limiti del giudizio che dà il movimento operaio. Se vogliamo che la
relazione fra lavoro e identità ricomprenda il sociale, non possiamo
più lasciarci chiudere in quell’universo a una sola dimensione che è il modello proletario.
Si tratta dunque di impiegare, per l’analisi sociale e per l’iniziativa politica, uno
schema di riferimento basato su quel parametro misto, sebbene esso risulti sicuramente un
ibrido per la scienza economica. (Se poi le risorse della matematica consentano con esso di
descrivere una funzione d’equilibrio, non è cosa che qui interessi).
Certo quel parametro è oltremodo eterodosso, e sembra
anche conturbante. Ma secondo me è sempre meglio che inseguire l’identità perduta
du travail d’antan.
Note
[96] Cfr. R. di Leo, Introduzione a L. Szamuely, Primi modelli di un’economia socialista, Napoli, Liguori, 1979, pp. 34-7.
[97] Bucharin, L’economia del periodo della trasformazione, cit., pp. 142-3.
[98] In una lettera a Engels, Marx considera l’utilità soggettiva del lavoro congiuntamente utilizzazione obiettiva del prodotto comprendendole ambedue entro il valore d’uso, come semplice «premessa materiale» del valore tout-court, ancora completamente estranea alla sua determinazione economica: K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Roma, Editori Riuniti, 1957, p. 212. A. Bebel descrive invece il socialismo come un sistema che soppianta il valore economico con l’utilità sociale: cfr. La donna e il socialismo, Milano, Max Kantorowicz ed., 1892, p. 360.
[99] Può darsi che questo richieda un «punto di vista posto intellettualmente fuori dell’ordinamento sociale esistente», come scrisse Baran, Il «surplus» economico, cit. p. 38. E sia.