Note
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Ampi ragguagli sul punto in Trent’anni dì lotte e di conquiste, cit., pp. 14 seg.
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V. ancora Trent’anni di lotte, cit.
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Per una descrizione del contenuto e dei limiti dell’accordo, v. L. Ventura, Luci ed ombre dell’accordo interconfederale 16 luglio 1960 sulla parità di retribuzione, in «Rivista giuridica del lavoro», 1961, I, pp. 50 seg.
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V. la dichiarazione di A. Novella, riportata in Trent’anni di lotte, cit., p. 21.
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In questo senso v. il già cit. commento di L. Ventura. Nel giudizio di altri, l’accordo aveva accolto il principio della parità, ma ne rimandava la realizzazione, seguendo un razionale criterio di applicazione graduale: così G. Pera, Le condizioni della donna lavoratrice, in «Foro italiano», 1967, V, c. 66; aggiunge l’a. che la parità è stata poi attuata nella contrattazione molto approssimativamente, col risultato di un meccanico incasellamento delle ex categorie femminili ad un livello assai basso delle nuove ripartizioni delle categorie e qualifiche. Qualche osservazione sul tema dell’inquadramento anche in M. V. Balestrero, Sulla parità di retribuzione fra lavoratori di sesso diverso, in «Foro italiano», 1969, I, c. 1745.
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S. Garavini, Donna, economia, società: cambiamento delle strutture ed evoluzione del costume, in «Quaderni di rassegna sindacale», 1975, n. 54/55, Donna, società, sindacato, pp. 108 seg.
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P. Togliatti, L’emancipazione femminile, cit., p. 41. Sul pensiero di Togliatti, v. A. Tiso, I comunisti e la questione femminile, cit.
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Sui limiti dell’azione dell’UDI nel periodo e sulle ragioni della sua crisi, v. ancora A. Tiso, op. cit.; più ampiamente G. Ascoli, L’UDI tra emancipazione e liberazione (1943-1964), cit., pp. 128 seg., che ricostruisce il difficile decollo di una politica autonoma dell’organizzazione delle donne nel quadro delle condizioni di grave discriminazione cui erano ancora soggette le lavoratrici, nonché della scarsa (e arretrata) elaborazione della questione femminile nei partiti della sinistra.
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R. Razzano, I modelli di sviluppo della CGIL e della CISL, in Problemi del movimento sindacale 1943/73, cit., pp. 540 seg.
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Secondo F. Forte, La parità salariale e le sue ripercussioni nel settore economico, in Parità di retribuzione nel Mercato comune europeo, cit., pp. 65 seg., questa visione del problema della parità salariale si connette alla concezione (sviluppata dal fascismo) del salario come mezzo di sostentamento della famiglia.
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J. Bagnoli, Intervento, in Parità di retribuzione, cit., pp. 181 seg., che sottolinea l’espansione dell’occupazione femminile nell’industria metalmeccanica.
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S. Garavini, loc. ult. cit.
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G. Mottura ed E. Pugliese, Agricoltura, mezzogiorno e mercato del lavoro, Bologna, 1975, pp. 241 seg., qui p. 314; Furnari, Mottura, e Pugliese, Occupazione femminile e mercato del lavoro, in «Inchiesta», aprile-giugno 1975, pp. 3 seg.
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Più male che bene, nel giudizio di Guerzoni (della CGIL), I problemi aperti dall’applicazione degli accordi di parità, in Parità di retribuzione,cit., pp. 261 seg. Gli atti di questo convegno promosso dalla Società umanitaria registrano numerose denunce di violazione dell’accordo del 1960.
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Specialmente nei settori tessili: cfr. E. Giambarba, L. Menghelli, L’evoluzione contrattuale delle classificazioni 1945-1970, in «Quaderni di rassegna sindacale», 1971, n. 30, Le qualifiche, pp. 25 seg.; P. Fortunato, A. Molinari, Esperienze e risultati di categoria: i tessili, ivi, pp. 146 seg.
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La strategia sindacale delle qualifiche è stata oggetto di discussione e studio. Per un bilancio dei risultati e delle prospettive della contrattazione collettiva delle qualifiche, si può rinviare al vol. di Aa. Vv„ Ascesa e crisi del riformismo in fabbrica, Bari, 1976.
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Gli studi sulle cause strutturali della debolezza della forza lavoro femminile sono ormai numerosi. Si possono segnalare: M. Paci, Mercato del lavoro e classi sociali in Italia, Bologna, 1973, pp. 122 seg.; G. Mottura, E. Pugliese, Agricoltura, mezzogiorno e mercato del lavoro, cit., pp. 314 seg.; L. Frey, Riesame dei problemi deli occupazione femminile, in Sviluppo economico italiano e forza lavoro, a cura di P. Leon e M. Marocchi, Padova, 1973, pp. 163 seg.; M. P. May, Mercato del lavoro femminile: espulsione o occupazione nascosta?, in «Inchiesta», 1973, n. 9, pp. 27 seg.; L. Balbo, Le condizioni strutturali della vita familiare, ivi, pp. 10 seg.; M. P. May, Il mercato del lavoro femminile in Italia, in «Inchiesta», 1977, n. 25, pp. 56 seg.; F. Padoa Schioppa, La forza lavoro femminile, Bologna, 1977; L. Frey, R. Livraghi, G. Mottura, M. Salvati, Occupazione e sottoccupazione femminile in Italia, Milano, 1976; L. Frey, R. Livraghi, F. Olivares, Nuovi sviluppi delle ricerche sul lavoro femminile, Milano, 1978.
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S. Garavini, I mutamenti nei ruoli professionali e nei rapporti di lavoro, in Ascesa e crisi, cit., pp. 15 seg.
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L’orientamento era diffuso soprattutto nella giurisprudenza del consiglio di stato: v. ad es. Cons. stato, sez. V, 16 maggio 1952, n. 801, in «Foro amministrativo», 1952, 1, 2, 205; Cons. stato, sez. VI, 3 febbraio 1954, n. 59, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1954, 464; Cons. stato, sez. VI, 7 aprile 1954, n. 255, in «Foro italiano», 1954, III, 231, secondo cui l’art. 37 non avrebbe garantito un’assoluta e meccanica parità, dovendo essere il principio di parità adeguato alle «naturali differenze fra i due sessi» (cioè alla minore capacità lavorativa e resistenza delle donne). Qualche decisione in tal senso si ritrova anche nella giurisprudenza di merito (ordinaria): App. Ancona, 20 giugno 1958, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1958, 500; App. Napoli, 21 gennaio 1959, ivi, 1959, 76. La prima decisione in senso contrario è del Trib. Milano, 30 giugno 1955, favorevolmente commentata da U. Natoli, Sulla precettività dell’art. 37 della costituzione, in «Rivista giuridica del lavoro», 1955, II, pp. 371 seg. L’a. svolge in questa nota anche qualche ragionevole osservazione sul rapporto tra diritto al lavoro ed essenziale funzione familiare della donna.
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Così T. Treu, I governi centristi e la regolamentazione dell’attività sindacale, in Problemi del movimento sindacale, cit., p. 568.
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La precettività dell’art. 37 cost., già affermata dalla giurisprudenza di merito, venne ribadita dalla cassazione, sent. 26 giugno 1958, n. 2283, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1958, 372.
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Cons. stato, sez. V, 3 giugno 1961, in «Consiglio di stato», 1961, 1139; Trib. Udine, 23 giugno 1962, in «Giustizia civile», 1963, 1, 674; Trib. Firenze, 6 aprile 1963, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1963, 437; App. Firenze, 10giugno 1964, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1964, 205; App. Firenze, 13 maggio 1964, ivi, 1965, 140, con nota favorevole di G. Bellagamba, Parità di retribuzione e parità di rendimento, Pret. Roma, 23 luglio 1966, in «Foro italiano», 1966, I, c. 2142; App. Firenze, 4 marzo 1966, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1966, 149. In dottrina: D. De Luca Tamajo, La donna nell’ordinamento giuridico del lavoro, in «Rivista giuridica del lavoro», 1956, 1, pp. 19 seg.; Esposito, La giusta retribuzione femminile, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1958, pp. 258 seg. La dottrina prevalente era tuttavia orientata in senso contrario: v. L. Riva Sanseverino, Sulla traduzione positiva del principio di «parità di retribuzione per parità di lavoro», in «Justi- tia», 1959, pp. 277 seg.; E. Di Berardino, Parità di retribuzione e parità di lavoro, in «Rivista giuridica del lavoro», 1962, II, pp. 47 seg.; F. Guidotti, La parità di retribuzione per il personale femminile, in «Rivista di diritto del lavoro», 1957,1, pp. 344 seg.; G. Giugni, Mansioni e qualifiche nel rapporto di lavoro, Napoli, 1963, p. 127.
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Cass., 17 marzo 1970, n. 707, in «Foro italiano», 1970, I, c. 1669; Cass., 15 luglio 1968, n. 2538, ivi, 1969, I, c. 471; Cass., 18 aprile 1969, n. 1231, ivi, 1969,1, c. 1745, con nota di M. V. Ballestrero, Sulla parità di retribuzione, cit., e ivi i riferimenti alla precedente giurisprudenza della S. C.
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Trent’anni di lotte, cit., pp. 23 seg. Ma l’argomento, prima usato per negare la parità salariale e poi, più in generale, come giustificazione ideologica della riduzione dei livelli di occupazione femminile, sembra oggi passato a svolgere una duplice funzione di copertura: da un lato consente infatti di sottostimare la reale disoccupazione femminile; dall’altro lato contribuisce a presentare come «naturale» la situazione dell’occupazione femminile, ritardando la presa di coscienza del fatto che questa si presenta ormai come un momento fisiologico del capitalismo italiano. Così Furnari, Mottura, Pugliese, Occupazione femminile e mercato del lavoro, cit., p. 27.
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Sul punto, cfr., le riflessioni di T. Treu, Lavoro femminile e uguaglianza, cit., pp. 69 seg.
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Così G. Giugni, Intervento, in La disciplina giuridica del lavoro femminile, cit., pp. 115 seg. Il giudizio mi pare condiviso, ma con qualche cautela, da T. Treu, Intervento, ivi, pp. 104 seg.
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Sul significato di questa parte dell’art. 37,1 comma, cost., v. specialmente T. Treu, Lavoro femminile e uguaglianza, cit., pp. 52 seg.; G. Ghezzi, Ordinamento della famiglia, cit., p. 1372; G. Cottrau, La tutela della donna lavoratrice e la legge 20 dicembre 1971, n. 1204, in «Il diritto del lavoro», 1972, I, pp. 366 seg.
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U. Natoli, Sulla precettività dell’art. 37 della costituzione, cit., pp. 371 seg.
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È noto che la classica definizione del valore sociale della maternità, legata ad una concezione del lavoro extradomestico come fattore essenziale dell’emancipazione delle donne (su cui v. A. Seroni, La questione femminile in Italia 1970-1977, Roma, 1977; e per i giuristi R. Pessi, Orientamenti legislativi per la tutela del lavoro femminile, in «Giurisprudenza italiana», 1973, IV, c. 199 seg.), è oggi sottoposta, specie da parte femminista, a dura critica. Non è questa la sede per affrontare una così discussa questione; pertanto può essere sufficiente rinviare a: L. Balbo, Stato di famiglia, Milano, 1976; C. Saraceno, Anatomia della famiglia, Bari, 1976; Ead., Funzione della famiglia contemporanea e ruolo della madre, in Dentro lo specchio,cit., pp. 75 seg.; v. anche i saggi di L. Balbo, M. Bianchi, L. Zanuso, E. Wilson, su doppia presenza e mercato del lavoro femminile, in «Inchiesta», n. 32, marzo-aprile 1978, pp. 3 seg. Per il punto di vista della autonome, v. E. Forti, Riproduzione: nuova sfera del comando capitalistico, in Oltre il lavoro domestico, cit., pp. 95 seg. Come suggerisce G. Cesareo, La contraddizione femminile, Roma, 1977, pp. 284 seg., è errato considerare la privatizzazione della maternità come antitetica alla sua socializzazione; il capitalismo ha maturato infatti la coscienza della rilevanza sociale della maternità, e per questo comanda con tanta forza le donne al proprio compito di «funzionarie», espropriate di qualsiasi possibilità di determinare le condizioni di allevamento dei figli.
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Secondo L. Balbo, La doppia presenza, cit., p. 6, molti studi indicano che stanno ormai cambiando i ruoli familiari tradizionali, e che la struttura della famiglia tende a divenire simmetrica, cioè il marito tende ad assumere in misura crescente funzioni domestiche. Ma, aggiunge la Balbo, le donne che fanno lavoro domestico più lavoro professionale risultano avere meno riposo, meno tempo libero, meno occasioni di informazione, meno partecipazione ad attività culturali e politiche. Se questo modello di vita si estende per le donne, e diviene possibile anche per una buona parte di uomini, andiamo verso un tipo di organizzazione sociale pienamente razionalizzata, privatizzata, controllata, come la doppia presenza pretende? La domanda è imbarazzante, ma, allo stato delle cose, sembra ancora un obiettivo da realizzare la liberazione delle donne dalla rigidità di un ruolo che impone loro sempre il lavoro nella e per la famiglia; lavoro, cui eventualmente si aggiunge, ma il più delle volte in funzione complementare, il lavoro professionale (o, secondo la terminologia tradizionale, extradomestico).
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V. ad es. M. Persiani, La disciplina del lavoro femminile, cit., c. 103 seg.; così anche (mi è parso) C. Assanti, I principi costituzionali per la tutela del lavoro femminile, in «Rassegna del lavoro», 1968, p. 372. Ma v. della stessa a. il più recente saggio, La disciplina del lavoro femminile, cit., e le chiarificazioni ivi portate in ordine alla preminenza dei principi di uguaglianza e parità nell’art. 37 cost.
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Nel 1943 il regime fascista aveva modificato la legge del 1934, riconoscendo alle lavoratrici madri occupate in alcuni settori di produzione il diritto ad una indennità, durante il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, pari al 60% della retribuzione.
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Con l’accordo concluso nel luglio 1946, venne assicurato un nuovo trattamento alle operaie gestanti e puerpere: l’accordo prevedeva un periodo di congedo obbligatorio di tre mesi prima del parto e sei settimane dopo il parto, e un trattamento economico pari ai 2/3 della retribuzione.
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Nel contratto dei tessili, il trattamento economico per maternità era fissato al 70% della retribuzione.
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Sulle vicende che portarono all’approvazione della legge n. 860/1950, v. Trentanni di lotte, cit., pp. 7 seg.
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Sulla legge n. 860/1950 in generale, v. F. Guidotti, Il lavoro delle donne e dei fanciulli e la tutela delle lavoratrici madri, in Trattato di diritto del lavoro, diretto da U. Borsi e F. Pergolesi, voi. III, Padova, 1959, pp. 271 seg. La tutela legale prescinde dallo stato di coniugata della lavoratrice madre; «ogni fine di moralizzazione dei rapporti sessuali resta al di fuori degli obiettivi propri della disciplina»: così M. Maffei e A. Vessia, La tutela del lavoro delle donne, cit., p. 173.
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Ai sensi dell’art. 6, l’ispettorato del lavoro poteva disporre (sulla base di accertamento medico) il prolungamento del periodo di astensione obbligatoria, quando le condizioni di lavoro o ambientali potessero essere pregiudizievoli alla salute della donna o del bambino. L’art. 4 della legge n. 860 prevedeva, inoltre, il divieto di adibire le lavoratrici al trasporto e sollevamento di pesi, a lavori pericolosi, faticosi e insalubri durante la gestazione (a partire dalla presentazione del certificato medico).
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Era ricompreso nella tutela legale anche il caso dell’aborto (spontaneo o terapeutico, non procurato), considerato «malattia prodotta dallo stato di gravidanza o di puerperio» (art. 21).
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V. infatti l’ampia rassegna curata da M. Maffei e A. Vessia, La tutela del lavoro delle donne, cit., pp. 161 seg., e ivi anche complete indicazioni bibliografiche.
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Oltre alle questioni poste dall’art. 3 L. n. 860, su cui infra, testo e note, poneva qualche problema anche l’interpretazione dell’art. 15 della legge; era controverso se alla lavoratrice dimissionaria, durante il periodo di divieto di licenziamento, spettasse l’indennità di mancato preavviso. Ampi ragguagli sulla questione in A. Liserre, Dimissioni della lavoratrice madre e indennità sostitutiva del preavviso: un problema di esegesi?, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1972, pp. 886 seg. Stante l’ambigua lettera della legge, l’a. ritiene «opportuno», ma insostenibile dal punto di vista esegetico, il consolidato orientamento giurisprudenziale favorevole alla soluzione positiva. La nuova legge n. 1204/1971 (art. 12) ha ripetuto la stessa formula, «le indennità», senza ulteriori specificazioni. Più chiara la soluzione dell’art. 2 L. 9 gennaio 1963, n. 7, che assegna alla lavoratrice recedente il trattamento delle dimissioni per giusta causa.
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Infra, par. 4.
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I casi nei, quali non si applicava il divieto di licenziamento erano i seguenti: (a) colpa da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro; (b) cessazione dell’attività dell’azienda (su cui v. le innovazioni introdotte dalla L. n. 1204/1971, art. 2, IV comma, per le lavoratrici stagionali); (c) ultimazione della prestazione per cui la lavoratrice è stata assunta, o risoluzione del rapporto per scadenza del termine per il quale è stato stipulato. Questo ultimo caso era regolato dall’art. 2 del regolamento (D.P.R. 21 maggio 1953, n. 568), che richiedeva l’atto scritto e la dipendenza del termine dalle esigenze tecnico-produttive. Tale disciplina è stata superata dalla ben più rigorosa regolamentazione del contratto a termine contenuta nella L. 18 aprile 1962, n. 230. Stante la tassatività dei casi previsti quali eccezioni al divieto di licenziamento, il datore di lavoro non può recedere neppure in presenza di un giustificato motivo ai sensi dell’art. 3 L. 15 luglio 1966, n. 604.
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Sull’interpretazione della norma penale, A. Sermonti, Tutela della maternità e reato di licenziamento, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1964, pp. 439 seg.; v. anche M. Maffei e A. Vessia, La tutela del lavoro delle donne, cit., pp. 178 e 184; per l’applicazione della sanzione penale la giurisprudenza riteneva necessario che lo stato di gravidanza o puerperio fosse stato portato a conoscenza del datore di lavoro mediante regolare certificato medico: concorda con questo orientamento interpretativo F. Carinci, In tema di «divieto di licenziamento» della lavoratrice gestante, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1967, p. 1204.
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Così A. Sermonti, op. cit., p. 440; A. Torcila, In tema di reato di licenziamento delle lavoratrici gestanti e puerpere, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1965, pp. 352 seg. Così anche Cass., 22giugno 1964, n. 1618, in «Foro italiano», 1964, I, c. 1972. Nel senso invece della nullità del licenziamento, v. F. Mancini, Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro, I. Individuazione della fattispecie. Il recesso ordinario, Milano, 1962, pp. 285 seg.
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D. Marchetti, Sul divieto di licenziamento delle lavoratrici madri, in «Rivista giuridica del lavoro», 1951, 1, pp. 189 seg.; G. Trioni, Gravidanza e malattia da gravidanza nel divieto di licenziamento ex art. 3 L. 26 agosto 1950, n. 860, in «Monitore dei tribunali», 1961, pp. 992 seg. I dubbi erano generati anche dalla menzione, nell’art. 3,III comma, di un periodo di gravidanza non protetto dal divieto, frutto del mancato coordinamento del nuovo testo della legge con l’originario disegno di legge, che prevedeva la decorrenza del divieto dal quinto mese. I dubbi erano stati dissipati dalla Cass., 1° marzo 1955, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1955, p. 185.
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V. la rassegna di F. Saffirio, La tutela delle lavoratrici madri, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1961, pp. 297 seg. Sulla diversa efficacia del certificato, a seconda che sia rituale (ai sensi degli artt. 4 e 5 del regolamento del 1953) o irrituale, v. M. Maffei e A. Vessia, La tutela del lavoro delle donne, cit., pp. 180 seg.
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Secondo l’art. 13, ult. comma, del regolamento, la lavoratrice non aveva diritto alla retribuzione per il periodo in cui non aveva effettivamente prestato la propria opera: da questa disposizione M. Persiani, La tutela dell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto, in Nuovo trattato di diritto del lavoro, diretto da G. Mazzoni e L. Riva Sanseverino, vol. II, Padova, 1971, p. 651, nota 46, ha tratto argomenti per affermare l’inefficacia (e non la nullità) del licenziamento della lavoratrice gestante. Per F. Carinci, In tema di «divieto di licenziamento» della lavoratrice gestante, cit., p. 1626, l’art. 13, ult. comma, rispetta la direttiva dettata dall’art. 3 L. n. 860, per cui prima della presentazione del certificato di gravidanza il dovere di cooperazione del datore di lavoro non opera. Sorprendentemente (dopo i chiarimenti portati in materia di reintegrazione nel posto di lavoro dall’art. 18 L. 20 maggio 1970, n. 300), l’art. 4, ult. comma, D.P.R. 25 novembre 1976, n. 1026, regolamento di esecuzione della L. n. 1204/1971, ripete che la lavoratrice non ha diritto alla retribuzione per il periodo intercorrente tra la data di cessazione del rapporto e la presentazione del certificato medico.
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Contra: M. Persiani, op. cit., pp. 650 seg.; F. Carinci, op. cit., pp. 1612 seg.; App. Roma, 22 marzo 1958, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1958, p. 485.
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Nel senso dell’illegittimità del regolamento per eccesso dai limiti del potere regolamentare: App. Torino, 3 dicembre 1954, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1955, p. 72; App. Roma, 29 luglio 1955, ivi, 1955, p. 241; Pret. Bologna, 22 dicembre 1956, ivi, 1957, p. 130; Trib. Venezia, 26 luglio 1957, ivi, 1957, p. 177; App. Venezia, 1° agosto 1958, in «Foro italiano», 1959, I, c. 287; Cass., 12 novembre 1958, n. 3699, ivi, 1959, I, c. 1871; la stessa Cass. ha poi fornito un’articolata argomentazione nella sent. 28 gennaio 1959, n. 254, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1959, p. 206, dove ha precisato perché l’art. 13 del regolamento dovesse ritenersi «fuori dalla legge», e pertanto inapplicabile.
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F. Carinci, loc. ult. cit.; M. Persiani, loc. ult. cit. La continuità fra la legge del 1934 e la legge del 1950 è rilevata da Carinci, ma a fini diversi: per dimostrare cioè il progressivo emergere nella legislazione di tutela di un diritto alla conservazione del posto, legato allo stato oggettivo di gravidanza e non alla sua certificazione.
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Al contrario, capita di leggere che la scarsa efficienza protettiva della legge sulle lavoratrici madri sarebbe stata una delle cause dell’espulsione delle donne dal lavoro; così non solo S. Verzelli, in prefazione all’opuscolo sindacale Diritti delle lavoratrici madri, Roma, s.d., ma anche R. Pessi, Orientamenti legislativi, cit., cc. 199 seg.
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Le camere di allattamento e gli asili nido aziendali, per inadempienza dei datori di lavoro, erano rimasti sulla carta; i pochi funzionanti, inoltre, non davano garanzie sufficienti sotto il profilo igienico e dell’assistenza e, per la loro collocazione aziendale, risultavano di scarsa utilità per tutte quelle lavoratrici, la maggioranza, che abitassero lontano dal luogo di lavoro.
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Riferimenti alla legge e una rassegna della giurisprudenza sui licenziamenti per causa di matrimonio e sulle clausole di nubilato sono in M. Maffei e A. Vessia, op. cit., pp. 347 seg. Un ampio panorama del dibattito (anche giuridico), che ha preceduto l’emanazione della legge n. 7/1963, in Società umanitaria, I licenziamenti a causa di matrimonio, Firenze, 1962; Libro bianco sui licenziamenti per causa di matrimonio in Italia, a cura dell’UDI, Roma, 1961.
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G. Re, Cause economiche e sociali del fenomeno, in I licenziamenti a causa di matrimonio, cit., p. 72.
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La nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato è stata introdotta con la legge 18 aprile 1962, n. 230. Si tratta di una disciplina fortemente restrittiva, oggetto di una recente reinterpretazione critica, di cui offre un ampio saggio il vol. Il lavoro a termine, Atti delle giornate di studio di Sorrento, 14-15 aprile 1978, Milano, 1979; v. anche A. Converso, L. Panzani, P. Pini, N. Raffone, Il rapporto di lavoro a tempo determinato. Disciplina privata e pubblica, Milano, 1979.
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Cons. stato, sez. V, 16 maggio 1952, n. 801, in «Foro amministrativo», 1952,1, 2, c. 205. In materia di regolamenti ospedalieri l’orientamento interpretativo venne successivamente modificato: v. le decisioni delle G.P.A. e dello stesso Cons. stato, riportate da M. G. Manfredini, Il problema giuridico del matrimonio quale causa di licenziamento delle lavoratrici, in I licenziamenti a causa di matrimonio, cit., p. 58.
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V. ancora Manfredini, op. cit., pp. 61 seg.
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Sulla circolare ministeriale, v. Maffei e Vessia, op. cit., p. 349. L’argomento della frode alla legge sulle lavoratrici madri venne largamente ripreso dalla dottrina: L. Riva Sanseverino, Casi «clinici» in materia di lavoro femminile, cit.; U. Prosperetti, Aspetti giuridici del lavoro della donna,in « Rivista di diritto del lavoro», 1958,1, pp. 323 seg.; G. Trioni, Matrimonio e licenziamento, in «Rivista di diritto matrimoniale e dello stato delle persone», 1958,1, pp. 757 seg.; N. Cicchetti, Procreate ma non sposatevi, in «Rivista giuridica del lavoro», 1960, I, pp. 42 seg.
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A favore della tesi della piena legittimità delle clausole di nubilato e dei licenziamenti a causa di matrimonio si pronunciarono: C. Giannattasio, Clausole di nubilato in contratto di lavoro, in «Diritto dell’economia», 1956, pp. 1046 seg.; D. R. Peretti Griva, Sulla legittimità della clausola di nubilato, ivi, 1959, pp. 359 seg. Secondo L. A. Miglioranzi, Clausole di nubilato nel contratto di lavoro, in «Il diritto del lavoro», 1957,1, pp. 69 seg., la clausola di nubilato non doveva essere considerata in sé contraria all’ordine pubblico, ma in talune ipotesi apposta in frode alla legge sulle lavoratrici madri.
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G. Re, Cause economiche e sociali del fenomeno, cit., pp. 72 seg.
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Il giudizio sulla coincidenza necessaria fra matrimonio e maternità doveva essere, oltre che diffuso, convalidato dai fatti. Nel 1962, Giuseppe Pera, già allora sicuro interprete della comune opinione, scriveva: «nell’anno dalla celebrazione del matrimonio, di norma si verifica il presupposto di fatto per poter invocare la legge protettiva delle lavoratrici madri» (Divieto di licenziamento delle lavoratrici a causa di matrimonio, in «Il diritto del lavoro», 1962, I, p. 358). Segno della scarsa diffusione dei contraccettivi?
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V. in questo senso le affermazioni di G. Re, op. cit., pp. 77 seg. Tutto il dibattito riportato nel cit. vol., I licenziamenti a causa di matrimonio,muove dal presupposto della non più arrestabile espansione dell’occupazione femminile.
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Cfr. infra, cap. V, par. 3, l’analisi delle ragioni della caduta dell’occupazione e dei tassi di attività femminile.
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G. Della Rocca, L’offensiva politica degli imprenditori nelle fabbriche, in Problemi del movimento sindacale in Italia, cit., p. 615.
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Così Giannattasio e Peretti Griva nelle opp. citt.; nello stesso senso: Trib. Roma, 10 aprile 1958, in «Rivista giuridica del lavoro», 1958, II, p. 286 (che tuttavia ammetteva l’illiceità del recesso per illiceità della causa); Trib. Bergamo, 17 marzo 1960, in «Corti Brescia, Venezia, Trieste», 1960, p. 521.
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Rinvio, sul punto, a quanto ho scritto in I licenziamenti, Milano, 1975, pp. 7 seg., 27 seg., e ivi riferimenti alla dottrina e alla giurisprudenza. La tesi dell’insindacabilità dei motivi di licenziamento fu sostenuta dalla cassazione anche nell’ipotesi del licenziamento politico motivato come tale: Cass., 19 luglio 1951, n. 2024, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1951, p. 174; Cass., 24 luglio 1951, n. 2113, ivi, 1951, p. 179; Cass., 16 giugno 1953, n. 1761, ivi, 1953, p. 264; Cass., 28 ottobre 1959, n. 3158, in «Rivista di diritto del lavoro», 1960, II, p. 266.
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Si riferivano agli artt. 3,4, e 41, comma II, cost., Manfredini, op. cit.,pp. 38 seg.; C. Smuraglia, Licenziamento di lavoratrici che contraggono matrimonio e clausole di nubilato nei contratti di lavoro, in I licenziamenti a causa di matrimonio, cit., pp. 201 seg.
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Sull’onda delle polemiche per il licenziamento del dirigente comunista Giovanni Battista Santhià (lo licenziò la FIAT, con espressa motivazione politica) i giuristi rinnovarono i propri sforzi per dare interpretazioni limitative dell’art. 2118 c.c.: v. Atti del convegno sulla tutela delle libertà nei rapporti di lavoro, Torino 20-21 novembre 1954, Milano, 1955; U. Natoli, Limiti costituzionali dell’autonomia privata nel rapporto di lavoro, Milano, 1955, pp. 53 seg.
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V. infatti quanto affermava C. Smuraglia, op. cit., p. 219: «spesso la fondatezza giuridica degli argomenti non costituisce un valido ed efficace baluardo contro i soprusi dei datori di lavoro e contro le resistenze da parte di chi preferisce stare arroccato sulle posizioni più tradizionali»; il riferimento alla magistratura era ovvio.
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Lo ricorda G. Pera, Divieto di licenziamento delle lavoratrici a causa di matrimonio, cit., p. 351, il quale menziona, oltre alle relazioni e agli interventi riportati nel cit. vol., I licenziamenti a causa di matrimonio (e ivi, ad esempio le affermazioni di G. Re, dirigente dell’U.D.I.), un intervento in tal senso dell’«Osservatore romano».
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Altri argomenti a sostegno dell’illegittimità delle clausole di nubilato e dei licenziamenti per causa di matrimonio erano: la frode alla legge n. 860/1950 (su cui v. retro, nota 48); l’estensione analogica dell’art. 636 c.c. (illiceità della condizione impeditiva delle nozze dell’erede). Sulla fondatezza di questi argomenti, ma anche sulla loro portata minore rispetto all’argomento della precettività delle norme costituzionali, v. C. Smuraglia, op. cit.,pp. 212 seg.
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C. Smuraglia, op. cit., pp. 215-216.
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V., ad esempio, quanto scriveva P. Cirrottola, A proposito di matrimonio e contratto di lavoro, in «Justitia», 1960, pp. 127 seg.
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Sulla nullità delle clausole di nubilato v. le argomentazioni di M. G. Manfredini, Il problema giuridico del matrimonio, cit., pp. 51 seg.; N. Cicchetti, La clausola di nubilato nel contratto di lavoro, in «Rivista giuridica del lavoro», 1960, II, pp. 614 seg.; A. C. Jemolo, Sulla clausola di nubilato nel contratto di lavoro, in «Giurisprudenza italiana», 1961, I, 2, c. 404.
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V. le cit. sentenze Trib. Roma, 10 aprile 1958; Trib. Bergamo, 17 marzo 1960; e inoltre: Pret. Genova, 21 giugno 1960, in «Rivista giuridica del lavoro», 1960, II, p. 608, che riteneva valida la clausola di nubilato contenuta nel regolamento di impresa; Trib. Pistoia, 15 gennaio 1965, ivi, 1965, II, p. 588, che riteneva non illecito, ai sensi dell’art. 2118 c.c., il licenziamento della lavoratrice determinato dal suo matrimonio. In senso contrario: Coll. conc. arb. Milano, 5 luglio 1960, ivi, 1960, II, p. 608, che riteneva illecita la clausola di nubilato e pertanto ingiustificato il licenziamento intimato in applicazione della stessa. Ritenevano illecita la clausola di nubilato e prive di efficacia le «dimissioni» della lavoratrice; Trib. Milano, 11 gennaio 1961, in «Rivista di diritto matrimoniale e dello stato delle persone», 1961, p. 149; Trib. Milano, 6 aprile 1961, in «Giurisprudenza italiana», 1961,1,2, c. 404; Trib. Milano, 14 aprile 1960, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1960, p. 590; App. Genova, 13 gennaio 1962, ivi, 1962, p. 172.
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Ma, secondo l’opinione prevalente, il licenziamento intimato durante il periodo di divieto di licenziamento era solo temporaneamente inefficace (e non nullo o inefficace senz’altro): retro, nota 44.
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Sul punto rinvio al mio I licenziamenti, cit., pp. 47 seg. e ivi riferimenti bibliografici.
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Ampi riferimenti giurisprudenziali nel mio saggio II concetto di giusta causa nell’evoluzione della giurisprudenza, in Giusta causa e giustificati motivi nei licenziamenti individuali, Milano, 1967, p. 71.
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Sul parere del C.N.E.L. v. il commento critico di G. Pera, Divieto di licenziamento delle lavoratrici, cit., pp. 352 seg.
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Così P. G. Corrias, La presunzione di nullità del licenziamento intimato a causa di matrimonio, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1968, p. 514.
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In questo senso G. Pera, op. cit., p. 356, che critica la modifica, proposta dal C.N.E.L. e poi introdotta nel testo della legge, all’art. 1 del disegno di legge governativo, il quale prevedeva la possibilità, per il datore di lavoro, di provare che il licenziamento della lavoratrice era stato determinato da un giusto motivo. Critico sugli eccessi demagogici del legislatore anche A. Zanini, Valore dei limiti temporali nella presunzione del licenziamento «per causa di matrimonio», in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1968, p. 520. Il carattere assoluto della presunzione di cui all’art. 1 della legge n. 7/1963 è stato affermato anche dalla Corte cost., 5 marzo 1969, n. 27, ivi, 1969, p. 25, che ha ritenuto legittima la limitazione posta dalla legge al potere di licenziamento. Definisce invece Juris tantum la presunzione P. G. Corrias, loc. ult. cit.
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I motivi previsti dalla legge n. 860/1950 come eccezioni al divieto di licenziamento sono rimasti immutati (salvo l’aggiunta dell’aggettivo «grave» alla colpa della lavoratrice) nella legge n. 1204/1971 sulle lavoratrici madri.
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La nullità del licenziamento si traduce «in una sostanziale garanzia della dignità della persona umana e costituisce allo stesso tempo una positiva applicazione del principio del favor familiae»: così F. Traversa, Matrimonio e rapporto di lavoro, in «Diritto dell’economia», 1963, p. 463, cit. anche da M. Persiani, La tutela deli interesse del lavoratore alla conservazione del posto, cit., p. 652. Malgrado la chiara lettera della legge, la nullità del licenziamento per causa di matrimonio è stata intesa come «temporanea inefficacia del licenziamento » (o divieto temporaneo: al pari del divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti e puerpere): così, implicitamente, Corte cost., 5 marzo 1969, n. 27 cit. Accanto alla nullità del licenziamento, la legge n. 7/1963 ha sancito, per la prima volta, il principio della reintegrazione nel posto di lavoro della lavoratrice illegittimamente licenziata; inoltre ha predisposto un sistema sanzionatorio chiaro (più chiaro di quello contenuto nell’art. 18 dello statuto dei lavoratori). Tante innovazioni hanno tuttavia suscitato ben poche reazioni. V., per una rigorosa applicazione della legge, Trib. Milano, 26 maggio 1966, in «Monitore dei tribunali», 1966, p. 1156, favorevolmente commentata da A. Alibrandi, Nullità del licenziamento a causa di matrimonio e diritto della lavoratrice alla retribuzione,ivi. Secondo l’orientamento prevalente al tempo in cui la legge è stata emanata, la «retribuzione» di cui all’art. 2 della legge n. 7/1963 era intesa come risarcimento dei danni (equivalenti al lucro cessante integrale) causati dalla mora del creditore; per l’analisi critica di tale orientamento rinvio a quanto ho scritto in I licenziamenti, cit., pp. 104 seg., cui adde, da ultimo, D’Antona, La reintegrazione nel posto di lavoro. Art. 18 dello statuto dei lavoratori, Padova, 1979, pp. 34 seg.
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La legge n. 7/1963 (artt. 3, 4, 5) ha introdotto nuove disposizioni sul trattamento economico delle lavoratrici madri; anche queste disposizioni sono state sostituite dalla legge 30 dicembre 1971, n. 1204.
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Come è noto, l’occupazione femminile esplicita si è ridotta, tra il 1961 e il 1966, di oltre un milione di unità. L’occupazione esplicita si è presentata in relativa stasi fino al 1971, è diminuita drasticamente nel 1972 (in relazione alle vicende dell’occupazione esplicita industriale, specie nei settori ad elevato grado di «femminilizzazione», come il tessile e l’abbigliamento), ha ripreso a crescere solo dal 1973 in poi, a causa di un limitato recupero dell’occupazione femminile industriale (+98.000 unità dal 72 al 76) e dell’espansione notevole dell’occupazione esplicita nel terziario (+500.000 unità in quattro anni, comprese soprattutto nelle fasce di età fra i 30 e i 34 anni e tra i 45 e i 50 anni). Il tasso di attività femminile è così risalito oltre il 20%, recuperando qualche punto rispetto al passato, ma si è accentuata la modificazione della struttura dell’occupazione femminile esplicita: l’occupazione terziaria rappresenta nel 1976 il 51,4% dell’occupazione femminile complessiva. Nello stesso periodo 1966-76 è tuttavia cresciuta la disoccupazione femminile esplicita, che coinvolge soprattutto le giovanissime, e non ha subito riduzioni la sottoccupazione implicita (stimata, per il 1975, in 2.600.000 unità, contro 1.772.000 unità nel 1971). Inoltre la stessa espansione dell’occupazione esplicita può nascondere aspetti di sottoccupazione esplicita, nel senso di lavoro comunque a condizioni precarie, discontinue, ecc., anche se incluso nelle forze di lavoro ufficiali. I dati e le stime sin qui riportati sono di L. Frey, Il lavoro femminile verso gli anni ‘80, Appendice I. Le donne e l’occupazione terziaria in Italia, in Frey, Livraghi, Olivares, Nuovi sviluppi delle ricerche sul lavoro femminile, cit., pp. 27 seg.
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Mi pare che l’unica osservazione di rilievo fosse la segnalazione dell’incoercibilità dell’obbligo di reintegrare la lavoratrice illegittimamente licenziata. Stante la incoercibilità, e vista la durata media dei processi, ad avviso di G. Pera, Divieto di licenziamento delle lavoratrici, cit., p. 359, la drastica soluzione adottata dal legislatore (pagamento della retribuzione fino alla data della effettiva reintegrazione) era destinata a risolversi in un blocco dei licenziamenti delle lavoratrici coniugate, almeno per tutto il periodo coperto dalla presunzione della causa di matrimonio. Ma, specie negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore della legge, le donne non hanno goduto della prevista «stabilità di fatto».
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Retro, nota 81.
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App. Ancona, 22 ottobre 1966, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1967, p. 74; App. Milano, 30 giugno 1967, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1968, p. 510, favorevolmente commentata da A. Zanini, Valore dei limiti temporali nella presunzione del licenziamento «per causa di matrimonio», ivi, pp. 520 seg.
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Così M. Persiani, op. cit., p. 654; P. G. Corrias, op. cit., pp. 516 seg.; Trib. Milano, 23 gennaio 1967, in «Il diritto del lavoro», 1967, II, p. 315; di contrario avviso F. Traversa, Matrimonio e rapporto di lavoro, cit., p. 474.
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Dopo la L. n. 604/1966, è il datore di lavoro a dover fornire la motivazione del licenziamento e la prova della fondatezza del motivo addotto; l’onere probatorio della lavoratrice risulta inoltre quantitativamente ridotto dopo l’introduzione del nuovo rito del lavoro, per l’ampiezza dei poteri istruttori affidati al giudice.
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Trib. Milano, 23 giugno 1966, in «Monitore dei tribunali», 1966, p. 729; Trib. Milano, 18 luglio 1966, in « Rivista giuridica del lavoro», 1967, II, p. 90. Cfr. P. G. Corrias, op. cit., p. 515.
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V. per tutti F. Mancini, Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro,cit., pp. 282 seg.
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M. Persiani, op. cit., p. 655.
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Il rilievo è di M. Persiani, op. cit., p. 656.
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V. le ordinanze Trib. Como, 9 gennaio 1967, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1967. p. 137: Trib. Genova, 14 maggio 1968, ivi, 1968, p. 399.
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Corte cost., 5 marzo 1969, n. 27, cit., commentata criticamente da A. Zanini, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1969, pp. 25 seg.; G. Pera, Legittimità della tutela della lavoratrice contro il licenziamento disposto «a causa di matrimonio», in «Giurisprudenza costituzionale», 1968, pp. 374 seg.
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Mi riferisco alla dottrina che, recentemente, è tornata ad occuparsi della legislazione sul lavoro femminile: v. ad es. C. Assanti, La disciplina del lavoro femminile, cit., p. 29. Sulla eccessività della tutela predisposta nella L. n. 7/1963, torna invece con qualche insistenza G. Pera, Lezioni di diritto del lavoro, III ed., Roma, 1977, pp. 599-600.
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Zanini, Valore e limiti temporali, cit., p. 523.
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L. n. 903/1977 su cui infra, cap. VI.