Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c4
Capitolo quartoAttuazione e inattuazione costituzionale. Parità salariale, maternità, licenziamenti
1. Il problema della parità salariale nella contrattazione collettiva e l’accordo del 1960.
Conclusa, con l’approvazione della legge n. 860
del 1950, la vertenza sulla riforma della legislazione a favore delle lavoratrici madri
(infra par. 3), la parità salariale ha rappresentato, per tutti
gli anni ‘50, pressoché l’unico obiettivo dell’iniziativa sindacale nei confronti del
lavoro femminile.
Per quanto riguarda la C.G.I.L. (ma sul tema si
impegnarono, insieme le A.C.L.I., la C.I.S.L. e la U.I.L.), solo intorno alla metà degli
anni ‘50 la rivendicazione della parità retributiva fra uomo e donna entrò a far parte
degli obiettivi di lotta. Sulla questione della parità salariale, le prime occasioni di
mobilitazione e di elaborazione di un’organica strategia sindacale sono considerate
[1]
la preparazione della conferenza nazionale delle lavoratrici (1954) e la
battaglia parlamentare per la ratifica della convenzione n. 100 dell’O.I.L. (legge n.
741 del 1956)
[2]
. Frutto della mobilitazione fu la nascita di un movimento per la parità che
coinvolse le organizzazioni femminili dei partiti di sinistra e le associazioni
femminili cattoliche; il movimento assunse dimensioni tali da costringere il padronato
(spinto anche dal ministro del lavoro) alla trattativa.
Cadute nel vuoto le proposte di una soluzione
legislativa della questione, l’accordo sulla parità salariale nell’industria venne
raggiunto nel luglio del 1960, al termine di trattative cominciate nel 1957, e fu
sottoscritto unitariamente dalle tre confederazioni sindacali; in agricoltura, la parità
salariale venne sancita più tardi con legge (15 settembre 1964, n. 556).
L’accordo, molto tardivo, non realizzava la parità
assoluta (se non per le lavoratrici addette a lavori
tradizional¶{p. 130}mente maschili e per le impiegate di I categoria
[3]
), tanto che fu giudicato, in sede sindacale, solo il primo passo verso una
soluzione della questione corrispondente al principio costituzionale di eguaglianza
[4]
.
Le ragioni del ritardo (e della stessa
insufficienza dell’accordo
[5]
) sono state trovate, prevalentemente, nella carenza dell’elaborazione
sindacale in ordine ai problemi dell’occupazione femminile, da cui è derivata la
concentrazione dell’azione rivendicativa su obiettivi parziali.
Come è noto, dei temi enunciati negli atti dei
primi congressi della C.G.I.L. (diritto al lavoro, parità di diritti, giusta
retribuzione, tutela della salute e della maternità delle lavoratrici) il sindacato
doveva privilegiare, negli anni della sua azione unitaria, solo gli ultimi due. Secondo
un’interpretazione di parte sindacale
[6]
, lo scarso impegno sui temi del diritto al lavoro e della parità di
trattamento delle lavoratrici era determinato dalla convinzione, allora diffusa nel
sindacato, che la situazione di inferiorità della donna non avesse caratteri di
specificità rispetto alla situazione dei lavoratori in generale, se non limitatamente ad
alcuni aspetti concreti del diritto al lavoro, dei servizi sociali, delle condizioni di
lavoro. Dalla carente analisi dei problemi (specifici, invece) dell’occupazione
femminile, nasceva anche la convinzione che la questione femminile si sarebbe risolta
con la realizzazione ‒ partecipata dalle masse lavoratrici ‒ di un nuovo tipo di
sviluppo economico e sociale.
La scelta, nei primi anni della ricostruzione
economica del paese, a favore della lotta (sul piano contrattuale e legislativo) per la
riforma della legge fascista sulle lavoratrici madri era, del resto, più la conseguenza
di un’insufficiente analisi politica, che frutto di un’autonoma delimitazione del campo
di azione. La scelta ribadiva insieme il disconoscimento della particolarità della
condizione femminile (come inferiorità da recuperare con una politica di sostanziale
perequazione delle condizioni di lavoro, e di sviluppo dell’occupazione non precaria
delle donne), e il riconoscimento di elementi specifici (da salvaguardare) nella
condizione della donna lavoratrice e madre.
Nell’azione del sindacato (ancora durante la
breve sta¶{p. 131}gione dell’unità, e più accentuatamente negli anni più
duri della scissione) si perdeva la traccia di quel disegno di emancipazione
compiutamente enunciato da Togliatti nel 1945, e solo in parte riproposto ‒ per le
ragioni dette sopra ‒ dall’art. 37 cost. Nella concezione del segretario del P.C.I. ‒ di
cui ho riportato sopra il giudizio sull’allargamento del suffragio ‒ l’emancipazione
delle donne doveva fondarsi sulla conquista del diritto al lavoro, prima condizione per
la piena e cosciente partecipazione delle masse femminili alla lotta per la liberazione
dei lavoratori dallo sfruttamento. Le ragioni della specificità della lotta per
l’emancipazione femminile, pure nel quadro della lotta dei lavoratori per la democrazia
e il socialismo, erano individuate da Togliatti «nell’arretratezza dei rapporti
economici e quindi nell’arretratezza dei rapporti civili, che regnano nel nostro paese»,
«entrano nella famiglia e vi creano un’atmosfera di disuguaglianza e di oppressione».
Per condurre a termine in Italia una rivoluzione democratica, ‒ aveva aggiunto Togliatti
‒ le donne devono partecipare alla attività produttrice e costruttiva; deve essere
ricostruita e difesa l’unità della famiglia, ma di una famiglia rinnovata e liberata
dall’impronta feudale che la caratterizza. La lotta per l’emancipazione avrebbe
richiesto un’iniziativa propria delle donne, un movimento unitario e autonomo, perché
«l’emancipazione delle donne non è e non può essere problema di un solo partito e
nemmeno di una sola classe»; per realizzarla, si sarebbe dovuta costruire «l’unità di
tutte le donne italiane, considerate nel loro complesso come una massa che ha interessi
comuni, perché è tutta interessala alla propria emancipazione, alla trasformazione delle
proprie condizioni di esistenza e quindi a quel rinnovamento di tutto il paese senza cui
questa trasformazione non è possibile»
[7]
.
Ma né l’U.D.I.
[8]
né la C.G.I.L. dei primi anni ‘50 erano in grado di portare avanti un tale
disegno di emancipazione delle donne, in cui avrebbe dovuto trovare posto preminente la
lotta per la parità e per il diritto al lavoro.
Venute meno le premesse, che avevano consentito
l’unità dei partiti antifascisti nel governo e l’unità sindacale, l’U.D.l. doveva
ridurre la propria azione, in tempi brevissimi, al¶{p. 132} mero
sostegno delle iniziative dei partiti di sinistra, mentre la C.G.I.L. avrebbe scontato
il passaggio della propria strategia dalla linea della collaborazione delle masse
lavoratrici alla ricostruzione del paese ad una linea di difesa dei lavoratori contro
l’offensiva padronale. E l’arretramento su posizioni difensive (per un sindacato che
manteneva ferme le opzioni strategiche di fondo e i programmi di rinnovamento
democratico elaborati ancora durante la liberazione) lasciava poco spazio alla lotta per
i diritti delle donne. La ristrutturazione capitalistica dei primi anni ‘50 poteva così
porre le premesse della marginalizzazione del lavoro femminile; il clima politico
dell’epoca e le scelte strategiche dei partiti di sinistra e del sindacato maggioritario
favorirono l’accettazione della condizione subalterna delle donne, valorizzata da un
modello culturale che allontanava ogni prospettiva di emancipazione fondata sul
lavoro.
I problemi della condizione femminile tornarono
ad occupare l’attenzione del sindacato solo dopo la metà degli anni ‘50. Ciò fu reso
possibile dalla revisione critica, cui fu costretta la C.G.I.L., che modificò la propria
linea politica e la propria strategia, avviando il processo di superamento della
distinzione tra lotta rivendicativa e lotta generale per lo sviluppo economico e per le
riforme. Tutte le battaglie per un diverso indirizzo economico si dovevano ora basare
sulla battaglia fondamentale contro lo sfruttamento, per migliori condizioni salariali e
di lavoro. «Si operava con ciò il ribaltamento della posizione precedente, ponendo al
centro di ogni strategia di rinnovamento la fabbrica e la lotta dei lavoratori occupati,
l’unica in grado di incidere realmente nei meccanismi decisivi del sistema e quindi di
determinare e orientare una politica di industrializzazione e di sviluppo»
[9]
.
L’analisi delle condizioni di lavoro in fabbrica
faceva emergere l’esistenza delle discriminazioni retributive a carico delle donne. La
discriminazione fu affrontata, però, non come problema specificamente femminile, ma come
problema complessivo dei lavoratori
[10]
: si trattava cioè non solo, o non tanto, di cancellare una incivile
situazione di inferiorità delle lavoratrici, ma di sottrarre al padronato uno strumento
per realizzare (illecito) profitto, considerato preoccupante in
una¶{p. 133} fase di aumento dell’occupazione femminile anche nel
settore industriale e di progressiva trasformazione di mansioni tradizionalmente
maschili in mansioni femminili
[11]
.
Può sorprendere che di tutta la complessa
tematica della condizione e del lavoro femminile il sindacato si limitasse ad
individuare un aspetto materiale ‒ per quanto importante ‒ della condizione di
inferiorità delle lavoratrici, ed a concentrare su di esso la propria azione
rivendicativa. Occorre, però, ricordare, oltre alla rilevanza, nel periodo, dei bisogni
immediati dei lavoratori, che le lotte operaie non avevano quella capacità liberatoria
che avrebbe dovuto scuotere, non molti anni più tardi, anche l’assetto delle famiglie,
facendo prendere coscienza alle donne della propria condizione di inferiorità sociale e
civile
[12]
. Ma soprattutto doveva pesare sulle scelte rivendicative del sindacato la
situazione del mercato del lavoro, dominata, negli anni ‘50, dall’esistenza di una forte
quota di sovrappopolazione latente sotto forma, prevalentemente, di occupazione agricola
indipendente. Esisteva una corrente di fuoriuscita di forza lavoro da tale settore
(ancora modesta se rapportata ai livelli del decennio successivo), ma aveva la funzione
di ricordare alla classe operaia che, all’elevarsi della domanda, milioni di lavoratori
sarebbero stati pronti a premere ai cancelli delle fabbriche. Data questa situazione ‒
si è detto
[13]
‒, la distinzione tra forza lavoro maschile e femminile (nel senso che
assumerà negli anni successivi) appariva ancora relativamente importante; se
discriminazione vi era, essa non alterava però l’andamento tradizionale del saggio di
attività femminile nell’ultimo mezzo secolo. Per il capitalismo italiano non si era
ancora presentata la necessità di gonfiare ulteriormente il già rilevante esercito di
riserva rappresentato dall’agricoltura.
La situazione complessiva dell’occupazione non
consentiva di isolare il problema femminile, cioè di individuare nell’emarginazione
delle donne la messa in moto di un processo costante di riduzione dell’occupazione, che,
privilegiando la forza lavoro maschile, avrebbe reso meno rischioso l’attacco ai livelli
occupazionali, e scaricato sul nucleo familiare (e quindi sulle donne) anche i costi
della mancata attuazione delle riforme.
¶{p. 134}
Note
[1] Ampi ragguagli sul punto in Trent’anni dì lotte e di conquiste, cit., pp. 14 seg.
[2] V. ancora Trent’anni di lotte, cit.
[3] Per una descrizione del contenuto e dei limiti dell’accordo, v. L. Ventura, Luci ed ombre dell’accordo interconfederale 16 luglio 1960 sulla parità di retribuzione, in «Rivista giuridica del lavoro», 1961, I, pp. 50 seg.
[4] V. la dichiarazione di A. Novella, riportata in Trent’anni di lotte, cit., p. 21.
[5] In questo senso v. il già cit. commento di L. Ventura. Nel giudizio di altri, l’accordo aveva accolto il principio della parità, ma ne rimandava la realizzazione, seguendo un razionale criterio di applicazione graduale: così G. Pera, Le condizioni della donna lavoratrice, in «Foro italiano», 1967, V, c. 66; aggiunge l’a. che la parità è stata poi attuata nella contrattazione molto approssimativamente, col risultato di un meccanico incasellamento delle ex categorie femminili ad un livello assai basso delle nuove ripartizioni delle categorie e qualifiche. Qualche osservazione sul tema dell’inquadramento anche in M. V. Balestrero, Sulla parità di retribuzione fra lavoratori di sesso diverso, in «Foro italiano», 1969, I, c. 1745.
[6] S. Garavini, Donna, economia, società: cambiamento delle strutture ed evoluzione del costume, in «Quaderni di rassegna sindacale», 1975, n. 54/55, Donna, società, sindacato, pp. 108 seg.
[7] P. Togliatti, L’emancipazione femminile, cit., p. 41. Sul pensiero di Togliatti, v. A. Tiso, I comunisti e la questione femminile, cit.
[8] Sui limiti dell’azione dell’UDI nel periodo e sulle ragioni della sua crisi, v. ancora A. Tiso, op. cit.; più ampiamente G. Ascoli, L’UDI tra emancipazione e liberazione (1943-1964), cit., pp. 128 seg., che ricostruisce il difficile decollo di una politica autonoma dell’organizzazione delle donne nel quadro delle condizioni di grave discriminazione cui erano ancora soggette le lavoratrici, nonché della scarsa (e arretrata) elaborazione della questione femminile nei partiti della sinistra.
[9] R. Razzano, I modelli di sviluppo della CGIL e della CISL, in Problemi del movimento sindacale 1943/73, cit., pp. 540 seg.
[10] Secondo F. Forte, La parità salariale e le sue ripercussioni nel settore economico, in Parità di retribuzione nel Mercato comune europeo, cit., pp. 65 seg., questa visione del problema della parità salariale si connette alla concezione (sviluppata dal fascismo) del salario come mezzo di sostentamento della famiglia.
[11] J. Bagnoli, Intervento, in Parità di retribuzione, cit., pp. 181 seg., che sottolinea l’espansione dell’occupazione femminile nell’industria metalmeccanica.
[12] S. Garavini, loc. ult. cit.
[13] G. Mottura ed E. Pugliese, Agricoltura, mezzogiorno e mercato del lavoro, Bologna, 1975, pp. 241 seg., qui p. 314; Furnari, Mottura, e Pugliese, Occupazione femminile e mercato del lavoro, in «Inchiesta», aprile-giugno 1975, pp. 3 seg.