Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c4
Essendosi privati da sé i giudici della possibilità di correggere le deviazioni della contrattazione collettiva dal principio costituzionale di parità, e dimostrandosi (fino a ieri) i giuristi poco interessati al tema della discriminazione, la questione della parità salariale rimaneva tutta affidata alle cosiddette parti sociali; tanto che se ne può seguire lo svolgimento nella contrattazione collettiva (nazionale e aziendale). Uno svolgimento alterno e travagliato, come alterna e travagliata è stata la scelta sindacale in ordine al sistema di classificazione dei lavoratori, nel quale, a partire dall’accordo del 1960, si è risolta, pressoché integralmente, anche la questione della parità salariale.
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3. La tutela delle lavoratrici madri nella legge n. 860 del 1950: continuità e novità rispetto alla politica del diritto fascista.

Nel ricostruire le vicende dell’attuazione costituzionale, ho sin qui trascurato di dare conto della legge 26 agosto 1950, n. 860. Devo ora occuparmene ‒ sia pure brevemente ‒ perché il bilancio, che sto tracciando, dell’intervento legislativo sul lavoro femminile pretende una valutazione del significato (e delle pratiche conseguenze) della riforma della legge fascista sulle lavoratrici madri, attuata pochi anni dopo la liberazione. Ragioni di ordine nella trattazione della materia impongono dunque di formulare un giudizio sulla legge del 1950: almeno per dire se il primo intervento legislativo sul lavoro femminile del dopoguerra avesse o meno quei contenuti qualitativamente nuovi, dei quali i costituenti, nel formulare l’art. 37, avevano sentito la necessità e l’urgenza. Ma la formulazione di un giudizio è stimolata anche dalle critiche di arretratezza che alcuni oggi muovono a quella legge, accusandola di essere all’origine ‒ per eccesso di tutela ‒ delle «discriminazioni» a carico del lavoro femminile [26]
.
Che la legge del 1950 sulle lavoratrici madri possa essere studiata oggi nella prospettiva dell’attuazione costituzionale sembra ovvio: la tutela della maternità delle lavoratrici è infatti uno dei principi sanciti nella seconda parte dell’art. 37,1 comma, cost., dove è prescritta la «speciale, adeguata protezione» della lavoratrice madre e della sua prole. Ovvio non significa però semplice: rende infatti complessa la giustapposizione della legge n. 860/1950 all’art. 37 in primo luogo la necessità di definire il senso della prescrizione costituzionale, onde chiarire preliminarmente con quale metro di giudizio si procede nel valutare i contenuti della legge. Ma non è facile neppure tracciare il bilancio, sia pure sintetico, di una legge che per venti anni ha regolato diritti e obblighi delle lavoratrici madri. Per essere rigorosi, bisognerebbe non fermarsi alla lettera della legge, ma analizzare in dettaglio la dottrina e specialmente la copiosa giurisprudenza, che, in quei venti anni, hanno interpretato, e talvolta reinventato, le prescrizioni del legislatore. L’economia di questo lavoro non me lo{p. 140} consente: pertanto, tenendo anche conto che la legge è ormai abrogata, farò riferimento a quelle interpretazioni diffuse e consolidate, che più hanno inciso sulla pratica efficienza della legge n. 860.
E veniamo all’art. 37 cost. La prescrizione ivi contenuta («speciale, adeguata protezione» della madre e del bambino) può apparire di significato più semplice, o meno ambiguo, della prescrizione relativa all’adempimento dell’essenziale funzione familiare [27]
. Difficoltà interpretative, tuttavia, se ne pongono: basta pensare che la garanzia costituzionale del diritto della lavoratrice alla maternità impone al legislatore ordinario, ma anche al datore di lavoro, di provvedere perché le condizioni di lavoro non contrastino né con le esigenze psichiche, economiche, e morali, di cui la donna è portatrice per sé e per la prole, in occasione e per il fatto della maternità, né con il diritto fondamentale di ogni donna ad essere ‒ nello stesso tempo ‒ lavoratrice e madre [28]
. Nella prescrizione costituzionale si ravvisa, generalmente, la sanzione del valore «sociale» della maternità: ed è sufficiente menzionare questa formula, di cui esiste più di una lettura, per capire di quale tipo siano le difficoltà interpretative [29]
. Anche a voler intendere il valore sociale della maternità come mera «deprivatizzazione» dei costi della maternità, e ridurre così al minimo il significato della prevista «speciale, adeguata» tutela, è evidente che qualche opzione interpretativa si rende necessaria: per superare, anche rispetto alla tutela della maternità, ogni possibile equivoco (ingenerato dalla formulazione compromissoria dell’art. 37), e tener ferma un’interpretazione coerente, ancorché infedele dell’enunciato costituzionale (retro, cap. III, par. 2).
Orbene, a proposito della «essenziale» funzione familiare, ho sostenuto che, per eliminare le contraddizioni dell’art. 37, i principi sanciti nella seconda parte del primo comma debbono essere sottoordinati ai principi di uguaglianza e parità (stabiliti nella prima parte dello stesso comma): ovvero che la considerazione della donna come lavoratrice a pari titolo (e con pari diritti) dell’uomo supera, nella costituzione, la considerazione della diversità della donna lavoratrice, pure implicita nella menzione delle specifiche funzioni femmi{p. 141}nili. Ho concluso quindi affermando la necessità di porre il lavoro extradomestico al centro dell’art. 37, per rispettare la volontà (male espressa) dei costituenti di emancipare le donne dal loro ruolo rigido e tradizionalmente subalterno. Nella costruzione di tale (possibile) soluzione interpretativa non ho fatto specifico riferimento alla maternità, o funzione materna. Poiché non vi è coincidenza tra maternità e funzione familiare, e poiché la maternità ‒ a differenza della funzione familiare ‒ è questione specificamente femminile, l’affermazione della priorità dei principi di uguaglianza e parità nel lavoro richiede di essere ora completata. Prescrivendo una tutela «speciale» e «adeguata» della maternità delle lavoratrici, l’art. 37 pone il problema del conflitto (eventuale, ma probabile) tra lavoro e maternità e, per coerenza, lo risolve a favore del primo, e non della seconda. Intendo con ciò dire che, nella costituzione, la tutela della maternità è strettamente collegata alla prescrizione della uguaglianza della donna nel lavoro; eguaglianza, alla quale si può ritenere che il costituente abbia attribuito il valore di indispensabile premessa per una parità effettiva della donna anche nei rapporti familiari [30]
. Peraltro, se pure la tutela della maternità deve essere collocata all’interno del disegno costituzionale di emancipazione delle donne, l’eguaglianza costituisce il presupposto necessario della tutela: perché la mancata realizzazione della parità nel lavoro comporta la perpetuazione della responsabilità individuale della madre, a sua volta concausa del permanere della donna in una condizione di inferiorità sociale e di subalternità familiare.
Se il costituente ha tenuto conto (e non può non averlo fatto) che la maternità è sì un diritto fondamentale della donna, ma anche un onere che grava su di lei, e che la maternità impone alla donna qualche sacrificio ‒ almeno temporaneo ‒ della propria vita professionale, il significato della prescrizione di una tutela, speciale ed adeguata, della maternità può essere così ricostruito. Tutela «speciale» della maternità significa attribuire alle lavoratrici, e necessariamente solo ad esse, il diritto a quei trattamenti privilegiati che siano immediatamente funzionali al riequilibrio della situazione di diseguaglianza sostanziale, in cui la pone il fatto oggettivo{p. 142} della maternità. Tutela «adeguata» significa realizzare quell’insieme di strutture e di servizi che consentano di limitare al minimo, per le donne, il sacrificio della propria attività extradomestica, cioè di tornare ad essere lavoratrici «eguali», appena assolti i compiti fisiologici della maternità.
L’affermazione della priorità del lavoro, anche rispetto alla maternità, sembrerà certo eccessivamente drastica sia a chi condivide l’ancora imperante retorica sulla vocazione materna delle donne, sia a quanti si sono sforzati di ricomporre, interpretando l’art. 37 cost., lavoro famiglia e maternità, eliminando, con l’equiparazione dei valori, lo spazio della contraddizione [31]
.
Non è il caso di spiegare perché scegliere l’uguaglianza significhi assumere posizioni drastiche, specie nelle questioni ‒ come la maternità ‒ su cui esercita maggior peso un’ideologia repressiva. Neppure è il caso di aggiungere nuove argomentazioni a quelle già portate (retro, cap. III, par. 2) per avvalorare una lettura della norma costituzionale che superi le ambiguità della sua formulazione. Ma esplicitare le opzioni interpretative è indispensabile per verificare se e come il legislatore ordinario abbia adempiuto alle prescrizioni costituzionali; o meglio per verificare se le scelte del legislatore siano state conformi a quanto il costituente, secondo l’interpretazione proposta dell’art. 37, ha prescritto.
Per analizzare, anche sommariamente, la legge 26 agosto 1950, n. 860 (tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri), non si può omettere di considerare con quali esperienze legislative e con quali condizionamenti politici e culturali il legislatore repubblicano affrontava, negli anni difficili della ricostruzione economica, il problema di dare alle lavoratrici madri quella «speciale, adeguata» tutela richiesta dalla costituzione.
È forse il caso di ricordare che, fino ad epoca relativamente recente, centro della tutela legale era stata l’astensione obbligatoria dal lavoro. La protezione della maternità, intesa come mera salvaguardia della donna (e del feto) dai danni fisici prodotti dal lavoro, si proponeva così di ricomporre, attraverso l’istituto del congedo, il rapporto lavoro-famiglia; un rapporto, sul quale il legislatore non aveva mai avu{p. 143}to intenzione di intervenire per modificare la subordinazione del lavoro della donna alle esigenze familiari.
Gli istituti, di cui si era progressivamente arricchita la tutela delle lavoratrici madri, specie quelli introdotti dalla legislazione fascista, non avevano apportato mutamenti qualitativi alla tutela della maternità; risultava se mai accentuato il carattere restrittivo-coercitivo della «protezione» delle lavoratrici. Valore sociale era infatti attribuito alla limitazione del lavoro femminile, nel senso che la salvaguardia dell’integrità fisica (a fini di procreazione) delle donne era tutta affidata all’allontanamento dai luoghi di lavoro extradomestico, ed al rientro nella famiglia, unica responsabile, malgrado la propaganda demografica di regime, della maternità e della sua gestione. La legislazione restrittiva, cioè la somma degli obblighi, dei limiti, e dei divieti contenuti nelle leggi di tutela, circondava così la condizione delle lavoratrici madri di una serie di garanzie specifiche, anomale in un sistema che offriva ai lavoratori ben poche tutele. I datori di lavoro che occupavano manodopera femminile, e lavoratrici madri in specie, risultavano di conseguenza gravati di oneri economici (i contributi) e non economici (come il divieto di licenziamento delle gestanti), di significato sicuramente disincentivante.
Nella situazione del mercato del lavoro e della legislazione del lavoro, di cui ho riferito sopra (retro, cap. II), doveva essere questo aspetto (l’aggravio degli oneri) della legislazione sulle lavoratrici madri ‒ ma anche della legislazione sul lavoro delle donne ‒ a svelare la funzione affidata alla legge di tutela: incentivare l’espulsione delle donne dai luoghi di lavoro, nei quali si sarebbe dovuta applicare la protezione legale.
Dopo la guerra, la liberazione, l’entrata in vigore della costituzione, il legislatore si trovava a dover impostare su basi nuove, e con diversi intenti, il problema di dare tutela alle lavoratrici madri. Sull’apertura di questa nuova fase pesavano specifici condizionamenti politici. Intanto, il terreno su cui ci si muoveva non era vergine: per la modifica della legge del 1934, già introdotta negli ultimi anni del fascismo [32]
, e specialmente per le innovazioni apportate nel 1946
{p. 144} dall’accordo interconfederale per le operaie gestanti [33]
e dai primi contratti di categoria stipulati dal sindacato unitario [34]
. Ma soprattutto doveva pesare sulla formazione della nuova legge di tutela delle lavoratrici madri il clima dell’epoca, caratterizzato insieme dall’egemonia democristiana, dalla stagnazione imposta all’economia italiana, e dal lento ma inesorabile calo della partecipazione politica e sindacale dei lavoratori.
Note
[26] Così G. Giugni, Intervento, in La disciplina giuridica del lavoro femminile, cit., pp. 115 seg. Il giudizio mi pare condiviso, ma con qualche cautela, da T. Treu, Intervento, ivi, pp. 104 seg.
[27] Sul significato di questa parte dell’art. 37,1 comma, cost., v. specialmente T. Treu, Lavoro femminile e uguaglianza, cit., pp. 52 seg.; G. Ghezzi, Ordinamento della famiglia, cit., p. 1372; G. Cottrau, La tutela della donna lavoratrice e la legge 20 dicembre 1971, n. 1204, in «Il diritto del lavoro», 1972, I, pp. 366 seg.
[28] U. Natoli, Sulla precettività dell’art. 37 della costituzione, cit., pp. 371 seg.
[29] È noto che la classica definizione del valore sociale della maternità, legata ad una concezione del lavoro extradomestico come fattore essenziale dell’emancipazione delle donne (su cui v. A. Seroni, La questione femminile in Italia 1970-1977, Roma, 1977; e per i giuristi R. Pessi, Orientamenti legislativi per la tutela del lavoro femminile, in «Giurisprudenza italiana», 1973, IV, c. 199 seg.), è oggi sottoposta, specie da parte femminista, a dura critica. Non è questa la sede per affrontare una così discussa questione; pertanto può essere sufficiente rinviare a: L. Balbo, Stato di famiglia, Milano, 1976; C. Saraceno, Anatomia della famiglia, Bari, 1976; Ead., Funzione della famiglia contemporanea e ruolo della madre, in Dentro lo specchio, cit., pp. 75 seg.; v. anche i saggi di L. Balbo, M. Bianchi, L. Zanuso, E. Wilson, su doppia presenza e mercato del lavoro femminile, in «Inchiesta», n. 32, marzo-aprile 1978, pp. 3 seg. Per il punto di vista della autonome, v. E. Forti, Riproduzione: nuova sfera del comando capitalistico, in Oltre il lavoro domestico, cit., pp. 95 seg. Come suggerisce G. Cesareo, La contraddizione femminile, Roma, 1977, pp. 284 seg., è errato considerare la privatizzazione della maternità come antitetica alla sua socializzazione; il capitalismo ha maturato infatti la coscienza della rilevanza sociale della maternità, e per questo comanda con tanta forza le donne al proprio compito di «funzionarie», espropriate di qualsiasi possibilità di determinare le condizioni di allevamento dei figli.
[30] Secondo L. Balbo, La doppia presenza, cit., p. 6, molti studi indicano che stanno ormai cambiando i ruoli familiari tradizionali, e che la struttura della famiglia tende a divenire simmetrica, cioè il marito tende ad assumere in misura crescente funzioni domestiche. Ma, aggiunge la Balbo, le donne che fanno lavoro domestico più lavoro professionale risultano avere meno riposo, meno tempo libero, meno occasioni di informazione, meno partecipazione ad attività culturali e politiche. Se questo modello di vita si estende per le donne, e diviene possibile anche per una buona parte di uomini, andiamo verso un tipo di organizzazione sociale pienamente razionalizzata, privatizzata, controllata, come la doppia presenza pretende? La domanda è imbarazzante, ma, allo stato delle cose, sembra ancora un obiettivo da realizzare la liberazione delle donne dalla rigidità di un ruolo che impone loro sempre il lavoro nella e per la famiglia; lavoro, cui eventualmente si aggiunge, ma il più delle volte in funzione complementare, il lavoro professionale (o, secondo la terminologia tradizionale, extradomestico).
[31] V. ad es. M. Persiani, La disciplina del lavoro femminile, cit., c. 103 seg.; così anche (mi è parso) C. Assanti, I principi costituzionali per la tutela del lavoro femminile, in «Rassegna del lavoro», 1968, p. 372. Ma v. della stessa a. il più recente saggio, La disciplina del lavoro femminile, cit., e le chiarificazioni ivi portate in ordine alla preminenza dei principi di uguaglianza e parità nell’art. 37 cost.
[32] Nel 1943 il regime fascista aveva modificato la legge del 1934, riconoscendo alle lavoratrici madri occupate in alcuni settori di produzione il diritto ad una indennità, durante il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, pari al 60% della retribuzione.
[33] Con l’accordo concluso nel luglio 1946, venne assicurato un nuovo trattamento alle operaie gestanti e puerpere: l’accordo prevedeva un periodo di congedo obbligatorio di tre mesi prima del parto e sei settimane dopo il parto, e un trattamento economico pari ai 2/3 della retribuzione.
[34] Nel contratto dei tessili, il trattamento economico per maternità era fissato al 70% della retribuzione.