Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c4
Dopo la guerra, la liberazione, l’entrata in
vigore della costituzione, il legislatore si trovava a dover impostare su basi nuove, e
con diversi intenti, il problema di dare tutela alle lavoratrici madri. Sull’apertura di
questa nuova fase pesavano specifici condizionamenti politici. Intanto, il terreno su
cui ci si muoveva non era vergine: per la modifica della legge del 1934, già introdotta
negli ultimi anni del fascismo
[32]
, e specialmente per le innovazioni apportate nel
1946
¶{p. 144} dall’accordo interconfederale per le operaie gestanti
[33]
e dai primi contratti di categoria stipulati dal sindacato
unitario
[34]
. Ma soprattutto doveva pesare sulla formazione della nuova legge di tutela
delle lavoratrici madri il clima dell’epoca, caratterizzato insieme dall’egemonia
democristiana, dalla stagnazione imposta all’economia italiana, e dal lento ma
inesorabile calo della partecipazione politica e sindacale dei lavoratori.
L’iniziativa legislativa, promossa dalla
C.G.I.L., era stata fatta propria nel 1948 dalle deputate del fronte democratico
popolare. I contenuti del progetto erano, per i tempi, molto avanzati, segno di una
sensibilizzazione delle forze di sinistra sul tema della maternità, più profonda di
quanto non lo fosse sul tema della parità salariale e di trattamento
(retro, par. 1). Si chiedeva l’estensione della tutela a tutte
le donne (comprese le casalinghe); l’eguaglianza di trattamento (di fronte alla
maternità) delle lavoratrici di tutti i settori; la corresponsione di un’indennità, per
il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro pari al 100% della retribuzione
[35]
. Il progetto governativo (presentato dal ministro del lavoro Fanfani), assai
più arretrato, venne approvato con molti emendamenti, dopo due anni nei quali pure la
mobilitazione e le lotte delle lavoratrici erano state intense: divenne legge nel luglio
1950.
Le novità essenziali, che la legge 26 agosto
1950, n. 860, apportava alla tutela delle lavoratrici madri
[36]
, sono le seguenti: estensione del periodo di interdizione
dal lavoro, fino ad un massimo (per le lavoratrici dell’industria) di tre mesi prima del
parto e otto settimane dopo il parto
[37]
; riposi giornalieri per allattamento fino al compimento di un anno di età
del bambino; diritto all’indennità giornaliera dell’80% della retribuzione per tutto il
periodo di assenza obbligatoria dal lavoro
[38]
; divieto di licenziamento durante il periodo di gestazione, «accertato da
regolare certificato medico », e fino al compimento di un anno di età del
bambino.
Era mutato anche il campo di applicazione della
tutela della maternità, estesa alle lavoratrici dell’agricoltura nonché alle dipendenti
da enti pubblici e società cooperative per le quali non vigesse una diversa (ma non
deteriore) disci¶{p. 145}plina.
La legge, che pure aveva sollevato, durante il
suo iter parlamentare, perplessità e critiche, era alla fine
giudicata come il provvedimento più avanzato nel campo della protezione della maternità,
fra quelli vigenti nei paesi capitalistici. A chi legge oggi il testo legislativo (e
conosce le controversie cui ha dato luogo la sua applicazione e le soluzioni fornite
dalla giurisprudenza)
[39]
, tanto entusiasmo sembra poco giustificato. In realtà, accanto agli indubbi
miglioramenti della legislazione precedente, tra cui deve essere annoverato il
riconoscimento del diritto all’indennità giornaliera, la legge del 1950 presentava più
di un punto oscuro, destinato ad aprire la strada ad interpretazioni fortemente
restrittive, consolidatesi poi nei venti anni nei quali la legge è stata in vigore
[40]
.
Due erano le questioni maggiormente dibattute, e
non a caso oggetto di dibattito era in ambedue i casi la misura più importante, di cui
consisteva la tutela, vale a dire il divieto di licenziamento ed il conseguente diritto
alla conservazione del posto della lavoratrice madre. L’importanza del divieto di
licenziamento era determinata dalla restrizione in sé, in un periodo nel quale nessuna
disposizione di legge limitava ancora il potere di recesso del datore di lavoro
[41]
, nonché dalla lunghezza del periodo protetto. Incrementavano l’insofferenza
dei datori di lavoro (e la comprensione dei giuristi) sia il fatto che il divieto aveva
(ed ha tuttora, dopo la legge n. 1204/1971) carattere assoluto, poiché le eccezioni
previste erano e sono tassative
[42]
, sia il fatto che la violazione del divieto era ed è
sanzionata penalmente.
L’attenzione degli interpreti si fermò anzitutto
sulla definizione del divieto di licenziamento. Malgrado la chiara lettera della legge
(«le lavoratrici... non possono essere licenziate»), dalla quale doveva risultare
evidente l’intenzione del legislatore di garantire la stabilità (che oggi diremmo
«reale») alla lavoratrice madre; malgrado il divieto di licenziamento fosse sostenuto
anche dalla anomala previsione del c.d. reato di licenziamento
[43]
; prevalse l’opinione che il divieto sancisse non la nullità o l’inefficacia
del licenziamento intimato durante il periodo coperto dal divieto, ma solo la
temporanea¶{p. 146} inefficacia del licenziamento medesimo
[44]
. Le conseguenze pratiche erano rilevanti: infatti il licenziamento intimato
durante la vigenza del divieto era sì provvisoriamente privo di effetti, ma, alla
scadenza del termine di un anno dalla nascita del bambino, riprendeva effetto, e la
lavoratrice poteva essere allontanata dal lavoro, senz’altro obbligo che il
preavviso.
Più discusso ancora, perché praticamente più
importante, era il problema della individuazione del momento dal quale doveva decorrere
il diritto della lavoratrice alla conservazione del posto. Come ho riferito sopra,
l’art. 3 della legge n. 860 stabiliva che il divieto di licenziamento operasse durante
il periodo di gestazione, accertato da regolare certificato medico. Eccetto pochi ed
isolati sostenitori della operatività del divieto per il solo fatto della gravidanza
[45]
, la prevalente dottrina e giurisprudenza ritenne l’operatività del divieto
subordinata alla presentazione del certificato medico
[46]
. Di conseguenza, i licenziamenti intimati durante la gravidanza,
oggettivamente esistente ma non ancora portata a conoscenza del datore di lavoro
mediante certificato medico, e ove il certificato non fosse stato presentato durante il
periodo di preavviso, erano ritenuti validi ed efficaci. Visto l’orientamento
restrittivo prevalente, l’art. 13 del D.P.R. 21 maggio 1953, n. 568, regolamento di
attuazione della legge n. 860, aveva tentato di modificare la situazione a vantaggio
delle lavoratrici, prevedendo il ripristino del rapporto di lavoro qualora la gravidanza
o il puerperio fossero portati a conoscenza del datore di lavoro (entro 90 giorni nel
primo caso, entro 15 nel secondo, dalla data della notifica del licenziamento)
[47]
. Dottrina e giurisprudenza, pressoché unanimi
[48]
, ritennero illegittima la norma regolamentare, o per eccesso dai limiti
imposti dalla costituzione al potere regolamentare, o addirittura per contrasto con la
legge n. 860 che ‒ si affermava ‒ non prevedeva il ripristino del rapporto, e
subordinava l’operatività del divieto all’onere della presentazione di un regolare
certificato medico da parte della lavoratrice: adempimento non più possibile, né utile,
dopo l’estinzione del rapporto di lavoro
[49]
.
Qualche tardo tentativo di salvare la legittimità
dell’art. 13 del regolamento, riportando il divieto di cui all’art. 3 L.
n.¶{p. 147} 860 nell’alveo della tutela costituzionale della maternità
(art. 37), e connettendo quindi l’operatività del limite (reale) del potere di
licenziamento allo stato di gravidanza e non alla sua certificazione
[50]
, non ha modificato la consolidata tendenza, specie giurisprudenziale, a
rendere meno strette possibile le maglie di una legge giudicata eccessivamente
protettiva delle lavoratrici, o eccessivamente punitiva dei datori di lavoro che
avessero delle donne alle proprie dipendenze.
In conclusione, si può dire che la legge n.
860/1950, alla quale andava certo il merito di aver garantito una migliore tutela delle
esigenze fisiche ed economiche delle lavoratrici madri, non aveva saputo però rinnovare,
dal punto di vista qualitativo, la politica legislativa verso il lavoro femminile.
Qualche colpa del mancato rinnovamento deve essere attribuita agli interpreti,
responsabili di avere sminuito il valore delle norme più significative. Ma il maggiore
demerito va assegnato, come è ovvio, al legislatore del tempo, incapace di interrompere
la continuità colle passate esperienze di legislazione protettiva.
La continuità è rilevabile in due punti
fondamentali della legge n. 860. Il primo è la mancata applicazione della tutela (con
l’eccezione del titolo III: assegno di maternità) alle lavoratrici a domicilio e
familiari. Il significato della sottrazione alla legge di queste rilevanti aree del
lavoro femminile, e specialmente del lavoro a domicilio, è quello illustrato a proposito
della legislazione precedente (specie fascista). Anche nella mutata situazione economica
e sociale, in cui doveva operare la legge del 1950, i limiti da tale legge imposti
spingevano gli imprenditori a cercare l’utilizzazione di lavoro «non protetto»,
favorendo così l’occupazione delle donne nel lavoro decentrato a domicilio e precario,
nel quale potevano essere scaricati direttamente e interamente sulle lavoratrici gli
oneri connessi alla maternità.
Rilevare la continuità di una scelta in ordine al
campo di applicazione non deve portare a concludere, sbrigativamente, per la continuità
di disegno politico (di politica legislativa verso le donne) tra regime fascista e
governi centristi dell’epoca. È vero, infatti, che almeno fino all’entrata in vigore
della legge 9 gennaio 1963, n. 7, e come dimostra la vicenda¶{p. 148}
delle clausole di nubilato, le donne erano di frequente licenziate «a causa di
matrimonio», nel timore che la (probabile) maternità rendesse applicabile la legge di
tutela (infra, par. 4). Ma è anche vero che la legge sulle
lavoratrici madri era più una risposta moderata alle pressioni sindacali e
all’iniziativa politica dell’opposizione che non un’autonoma iniziativa del governo. Ed
è anche vero che i governi dell’epoca avevano affidato al non intervento, piuttosto che
all’intervento legislativo, la politica dell’occupazione e l’andamento del mercato del
lavoro. Il fenomeno della massiccia emarginazione delle donne dalla vita attiva,
verificatosi a più di dieci anni dall’entrata in vigore della legge, ha avuto dimensioni
e motivazioni tali che la funzione disincentivante della legge risulterebbe
sproporzionata per difetto
[51]
. Del resto, non è possibile dimostrare che la legge avrebbe effettivamente
disincentivato l’occupazione femminile. Gli andamenti dell’occupazione femminile (nei
settori «protetti»), durante il primo ed il secondo decennio di vigenza della legge,
sono tanto contrastanti da non consentire l’ipotizzazione di alcun nesso causa-effetto.
Le spiegazioni di questi andamenti stanno altrove, e altrove vanno cercate. È invece
possibile dimostrare quanto fosse diffusa (e si diffondesse anche mediante
l’interpretazione) l’opinione che la legge n. 860 avesse reso troppo onerosa
l’occupazione stabile di donne, avendo incrementato il loro «naturale» assenteismo,
favorito la loro «naturale» scarsa produttività, ridotto ancora la loro flessibilità.
Ma, appunto, non si deve confondere l’ideologia con le condizioni strutturali che
determinano la discriminazione dell’offerta di lavoro femminile: queste sono le cause
del fenomeno, quella è solo la sua giustificazione culturale.
Il secondo aspetto di continuità col passato è
ravvisabile nella qualità della tutela, che la legge n. 860 assicurava alle lavoratrici
madri. La legge limitava essenzialmente il proprio intervento all’ultimo periodo della
gestazione e alle prime settimane del puerperio, affidando la protezione della maternità
al rapporto privatistico tra datore di lavoro e lavoratrice: come stanno a dimostrare
anche le disposizioni sulle camere di allattamento e sugli asili nido
[52]
.
¶{p. 149}
Note
[32] Nel 1943 il regime fascista aveva modificato la legge del 1934, riconoscendo alle lavoratrici madri occupate in alcuni settori di produzione il diritto ad una indennità, durante il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, pari al 60% della retribuzione.
[33] Con l’accordo concluso nel luglio 1946, venne assicurato un nuovo trattamento alle operaie gestanti e puerpere: l’accordo prevedeva un periodo di congedo obbligatorio di tre mesi prima del parto e sei settimane dopo il parto, e un trattamento economico pari ai 2/3 della retribuzione.
[34] Nel contratto dei tessili, il trattamento economico per maternità era fissato al 70% della retribuzione.
[35] Sulle vicende che portarono all’approvazione della legge n. 860/1950, v. Trentanni di lotte, cit., pp. 7 seg.
[36] Sulla legge n. 860/1950 in generale, v. F. Guidotti, Il lavoro delle donne e dei fanciulli e la tutela delle lavoratrici madri, in Trattato di diritto del lavoro, diretto da U. Borsi e F. Pergolesi, voi. III, Padova, 1959, pp. 271 seg. La tutela legale prescinde dallo stato di coniugata della lavoratrice madre; «ogni fine di moralizzazione dei rapporti sessuali resta al di fuori degli obiettivi propri della disciplina»: così M. Maffei e A. Vessia, La tutela del lavoro delle donne, cit., p. 173.
[37] Ai sensi dell’art. 6, l’ispettorato del lavoro poteva disporre (sulla base di accertamento medico) il prolungamento del periodo di astensione obbligatoria, quando le condizioni di lavoro o ambientali potessero essere pregiudizievoli alla salute della donna o del bambino. L’art. 4 della legge n. 860 prevedeva, inoltre, il divieto di adibire le lavoratrici al trasporto e sollevamento di pesi, a lavori pericolosi, faticosi e insalubri durante la gestazione (a partire dalla presentazione del certificato medico).
[38] Era ricompreso nella tutela legale anche il caso dell’aborto (spontaneo o terapeutico, non procurato), considerato «malattia prodotta dallo stato di gravidanza o di puerperio» (art. 21).
[39] V. infatti l’ampia rassegna curata da M. Maffei e A. Vessia, La tutela del lavoro delle donne, cit., pp. 161 seg., e ivi anche complete indicazioni bibliografiche.
[40] Oltre alle questioni poste dall’art. 3 L. n. 860, su cui infra, testo e note, poneva qualche problema anche l’interpretazione dell’art. 15 della legge; era controverso se alla lavoratrice dimissionaria, durante il periodo di divieto di licenziamento, spettasse l’indennità di mancato preavviso. Ampi ragguagli sulla questione in A. Liserre, Dimissioni della lavoratrice madre e indennità sostitutiva del preavviso: un problema di esegesi?, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1972, pp. 886 seg. Stante l’ambigua lettera della legge, l’a. ritiene «opportuno», ma insostenibile dal punto di vista esegetico, il consolidato orientamento giurisprudenziale favorevole alla soluzione positiva. La nuova legge n. 1204/1971 (art. 12) ha ripetuto la stessa formula, «le indennità», senza ulteriori specificazioni. Più chiara la soluzione dell’art. 2 L. 9 gennaio 1963, n. 7, che assegna alla lavoratrice recedente il trattamento delle dimissioni per giusta causa.
[41] Infra, par. 4.
[42] I casi nei, quali non si applicava il divieto di licenziamento erano i seguenti: (a) colpa da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro; (b) cessazione dell’attività dell’azienda (su cui v. le innovazioni introdotte dalla L. n. 1204/1971, art. 2, IV comma, per le lavoratrici stagionali); (c) ultimazione della prestazione per cui la lavoratrice è stata assunta, o risoluzione del rapporto per scadenza del termine per il quale è stato stipulato. Questo ultimo caso era regolato dall’art. 2 del regolamento (D.P.R. 21 maggio 1953, n. 568), che richiedeva l’atto scritto e la dipendenza del termine dalle esigenze tecnico-produttive. Tale disciplina è stata superata dalla ben più rigorosa regolamentazione del contratto a termine contenuta nella L. 18 aprile 1962, n. 230. Stante la tassatività dei casi previsti quali eccezioni al divieto di licenziamento, il datore di lavoro non può recedere neppure in presenza di un giustificato motivo ai sensi dell’art. 3 L. 15 luglio 1966, n. 604.
[43] Sull’interpretazione della norma penale, A. Sermonti, Tutela della maternità e reato di licenziamento, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1964, pp. 439 seg.; v. anche M. Maffei e A. Vessia, La tutela del lavoro delle donne, cit., pp. 178 e 184; per l’applicazione della sanzione penale la giurisprudenza riteneva necessario che lo stato di gravidanza o puerperio fosse stato portato a conoscenza del datore di lavoro mediante regolare certificato medico: concorda con questo orientamento interpretativo F. Carinci, In tema di «divieto di licenziamento» della lavoratrice gestante, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1967, p. 1204.
[44] Così A. Sermonti, op. cit., p. 440; A. Torcila, In tema di reato di licenziamento delle lavoratrici gestanti e puerpere, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1965, pp. 352 seg. Così anche Cass., 22giugno 1964, n. 1618, in «Foro italiano», 1964, I, c. 1972. Nel senso invece della nullità del licenziamento, v. F. Mancini, Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro, I. Individuazione della fattispecie. Il recesso ordinario, Milano, 1962, pp. 285 seg.
[45] D. Marchetti, Sul divieto di licenziamento delle lavoratrici madri, in «Rivista giuridica del lavoro», 1951, 1, pp. 189 seg.; G. Trioni, Gravidanza e malattia da gravidanza nel divieto di licenziamento ex art. 3 L. 26 agosto 1950, n. 860, in «Monitore dei tribunali», 1961, pp. 992 seg. I dubbi erano generati anche dalla menzione, nell’art. 3,III comma, di un periodo di gravidanza non protetto dal divieto, frutto del mancato coordinamento del nuovo testo della legge con l’originario disegno di legge, che prevedeva la decorrenza del divieto dal quinto mese. I dubbi erano stati dissipati dalla Cass., 1° marzo 1955, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1955, p. 185.
[46] V. la rassegna di F. Saffirio, La tutela delle lavoratrici madri, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1961, pp. 297 seg. Sulla diversa efficacia del certificato, a seconda che sia rituale (ai sensi degli artt. 4 e 5 del regolamento del 1953) o irrituale, v. M. Maffei e A. Vessia, La tutela del lavoro delle donne, cit., pp. 180 seg.
[47] Secondo l’art. 13, ult. comma, del regolamento, la lavoratrice non aveva diritto alla retribuzione per il periodo in cui non aveva effettivamente prestato la propria opera: da questa disposizione M. Persiani, La tutela dell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto, in Nuovo trattato di diritto del lavoro, diretto da G. Mazzoni e L. Riva Sanseverino, vol. II, Padova, 1971, p. 651, nota 46, ha tratto argomenti per affermare l’inefficacia (e non la nullità) del licenziamento della lavoratrice gestante. Per F. Carinci, In tema di «divieto di licenziamento» della lavoratrice gestante, cit., p. 1626, l’art. 13, ult. comma, rispetta la direttiva dettata dall’art. 3 L. n. 860, per cui prima della presentazione del certificato di gravidanza il dovere di cooperazione del datore di lavoro non opera. Sorprendentemente (dopo i chiarimenti portati in materia di reintegrazione nel posto di lavoro dall’art. 18 L. 20 maggio 1970, n. 300), l’art. 4, ult. comma, D.P.R. 25 novembre 1976, n. 1026, regolamento di esecuzione della L. n. 1204/1971, ripete che la lavoratrice non ha diritto alla retribuzione per il periodo intercorrente tra la data di cessazione del rapporto e la presentazione del certificato medico.
[48] Contra: M. Persiani, op. cit., pp. 650 seg.; F. Carinci, op. cit., pp. 1612 seg.; App. Roma, 22 marzo 1958, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1958, p. 485.
[49] Nel senso dell’illegittimità del regolamento per eccesso dai limiti del potere regolamentare: App. Torino, 3 dicembre 1954, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1955, p. 72; App. Roma, 29 luglio 1955, ivi, 1955, p. 241; Pret. Bologna, 22 dicembre 1956, ivi, 1957, p. 130; Trib. Venezia, 26 luglio 1957, ivi, 1957, p. 177; App. Venezia, 1° agosto 1958, in «Foro italiano», 1959, I, c. 287; Cass., 12 novembre 1958, n. 3699, ivi, 1959, I, c. 1871; la stessa Cass. ha poi fornito un’articolata argomentazione nella sent. 28 gennaio 1959, n. 254, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1959, p. 206, dove ha precisato perché l’art. 13 del regolamento dovesse ritenersi «fuori dalla legge», e pertanto inapplicabile.
[50] F. Carinci, loc. ult. cit.; M. Persiani, loc. ult. cit. La continuità fra la legge del 1934 e la legge del 1950 è rilevata da Carinci, ma a fini diversi: per dimostrare cioè il progressivo emergere nella legislazione di tutela di un diritto alla conservazione del posto, legato allo stato oggettivo di gravidanza e non alla sua certificazione.
[51] Al contrario, capita di leggere che la scarsa efficienza protettiva della legge sulle lavoratrici madri sarebbe stata una delle cause dell’espulsione delle donne dal lavoro; così non solo S. Verzelli, in prefazione all’opuscolo sindacale Diritti delle lavoratrici madri, Roma, s.d., ma anche R. Pessi, Orientamenti legislativi, cit., cc. 199 seg.
[52] Le camere di allattamento e gli asili nido aziendali, per inadempienza dei datori di lavoro, erano rimasti sulla carta; i pochi funzionanti, inoltre, non davano garanzie sufficienti sotto il profilo igienico e dell’assistenza e, per la loro collocazione aziendale, risultavano di scarsa utilità per tutte quelle lavoratrici, la maggioranza, che abitassero lontano dal luogo di lavoro.