Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c4
La situazione complessiva dell’occupazione non
consentiva di isolare il problema femminile, cioè di individuare nell’emarginazione
delle donne la messa in moto di un processo costante di riduzione dell’occupazione, che,
privilegiando la forza lavoro maschile, avrebbe reso meno rischioso l’attacco ai livelli
occupazionali, e scaricato sul nucleo familiare (e quindi sulle donne) anche i costi
della mancata attuazione delle riforme.
¶{p. 134}
Se dunque i problemi del lavoro femminile
restavano ancora assorbiti in quelli generali dei lavoratori, occorre dire che l’accordo
del 1960 sulla parità salariale, frutto di lunghe trattative (e sostenuto dalle lotte
delle lavoratrici) risolveva la questione della discriminazione retributiva in un modo
coerente alle premesse, da cui il sindacato era partito, e agli obiettivi, che si
proponeva di raggiungere. L’accordo introduceva infatti un inquadramento professionale
non più riferito al sesso, ma basato su categorie differenziate dai diversi parametri
retributivi; le lavoratrici delle ex-categorie donne erano collocate nelle categorie
inferiori del nuovo inquadramento. La manodopera femminile risultava tutta ingabbiata
nelle quattro categorie più basse. Erano eliminati, di conseguenza, gli aspetti
macroscopici della disparità salariale (come la contingenza ed i superminimi erogati in
base al sesso e all’età), ma restava aperta la discriminazione maggiore, fondata
sull’attribuzione alla forza lavoro femminile di un valore inferiore a quello della
forza lavoro maschile.
2. La parità salariale secondo il padronato, la giurisprudenza, e la dottrina: lavoro e rendimento.
L’insufficienza dell’accordo sulla parità
salariale doveva apparire presto evidente: oltre alle frequenti violazioni, i sindacati
denunciavano il tentativo padronale di introdurre nei contratti nuove distinzioni fra
lavori maschili, femminili, e promiscui; di creare cioè dei sottolivelli
(sottoremunerati) in cui inquadrare le donne; cosicché queste si sarebbero trovate
collocate ‒ per il minor valore professionale attribuito alle nuove mansioni femminili ‒
ai livelli più bassi delle categorie spettanti in base all’accordo.
L’iniziativa padronale mirava a vanificare la
parità salariale, negando, mediante la predefinizione delle mansioni femminili, la
parità di inquadramento bene o male affermata dall’accordo
[14]
. E tale iniziativa ebbe successo nella contrattazione collettiva dei settori
di tradizionale occupazione femminile
[15]
, agevolata dal consenso sindacale alla separazione fra donne e uomini, cioè
all’attribuzione di un sesso alle¶{p. 135} mansioni; agevolata, più in
generale, dal consenso dei sindacati
[16]
allo «sventagliamento» delle qualifiche (e conseguente polverizzazione
salariale), considerato ancora valido strumento di difesa della professionalità dei
lavoratori e di restringimento dei margini della manovra paternalistica dei
padroni.
Per giustificare la discriminazione
nell’inquadramento delle lavoratrici venivano portati due argomenti: la scarsa
qualificazione professionale; il minor rendimento (dovuto soprattutto alla minore
disponibilità sul luogo di lavoro e all’assenteismo, causati dal doppio carico di
lavoro). A questi argomenti, fondati su diffusi pregiudizi, indotti dalla reale
debolezza della forza lavoro femminile
[17]
, non si trovava molto da opporre. Certo, le organizzazioni sindacali
sottolineavano la preoccupante condizione del lavoro femminile, e si opponevano (quando
si opponevano) al tentativo di inquadrare le donne a livelli ancora inferiori rispetto
alle categorie ‒ già basse ‒ loro spettanti in base all’accordo del 1960. Ma si restava
ancora lontani dall’affrontare l’effettiva parità di inquadramento, perché non si
individuavano strade di intervento a favore delle lavoratrici che non fossero esterne
alla fabbrica, cioè a monte di quella organizzazione del lavoro, nella quale appariva
«inevitabile» che le donne (meno qualificate e meno produttive) fossero utilizzate nelle
mansioni di minor valore, e di conseguenza «inevitabile» anche che esse fossero
collocate nei livelli più bassi (e meno remunerati) della scala professionale.
Lo spazio per la parità di inquadramento non si
poteva aprire, prima che si fosse prospettata la necessità di rifondare il rapporto tra
qualifica ed organizzazione del lavoro, mettendo in discussione la legittimità di uno
schema di classificazione subordinato alla divisione del lavoro esistente. Fino a che,
nei sindacati, il discorso sulle qualifiche è rimasto ancorato alla valutazione delle
«capacità» professionali o alla «valutazione obiettiva» delle mansioni, si è accettata
una classificazione dei lavoratori basata sulla gerarchia dei valori professionali
voluta dai padroni
[18]
. E, fino a che si è accettata quella gerarchia, le mansioni attribuite e la
qualificazione professionale hanno decretato l’inferiorità delle
donne.¶{p. 136}
Gli argomenti utilizzati dal padronato, per
ottenere (nella contrattazione successiva) una limitata attuazione della parità sancita
dall’accordo del 1960, trovavano una precisa ‒ ma non singolare ‒ coincidenza negli
argomenti che già da tempo un consistente settore degli operatori del diritto utilizzava
per interpretare (riduttivamente) l’art. 37 cost.
Si può ricordare, riassumendo, che la
giurisprudenza si era orientata, in un primo momento, per la programmaticità dell’art.
37
[19]
: anche per il lavoro femminile, la magistratura non faceva eccezione alla
regola di tradurre in proposizione giuridica l’indirizzo politico dei governi dell’epoca
[20]
. L’orientamento giurisprudenziale si era progressivamente modificato
[21]
, fino all’affermarsi di un generale consenso alla precettività dell’art. 37;
ma la precettività della norma non era sempre considerata sufficiente per garantire alle
lavoratrici la parità salariale. Posti di fronte al problema della legittimità delle
clausole contrattuali (individuali e collettive) che tale parità negavano, alcuni
giudici sostennero (trovando appoggio nella dottrina) che la parità di lavoro, di cui
all’art. 37 cost., dovesse essere intesa come parità di rendimento
[22]
. La norma costituzionale (precettiva) non avrebbe cioè implicato una rigida
equiparazione retributiva fra donne e uomini, ma avrebbe sancito soltanto il diritto
delle donne ad essere retribuite in modo proporzionale alla quantità e qualità del
lavoro svolto. L’art. 37 doveva essere interpretato, in altri termini, come corollario
dell’art. 36 cost., e non come autonoma affermazione di un diritto delle donne alla
parità salariale. La parità si sarebbe di conseguenza resa necessaria (ai sensi degli
artt. 36 e 37 cost.) solo quando, svolgendo mansioni eguali a quelle dell’uomo, la donna
avesse prodotto anche un identico risultato: ma, essendo la differenza di rendimento
delle donne statisticamente accertata e confermata dalla comune esperienza
(sic), le clausole contrattuali contenenti per eguali mansioni
un trattamento economico diversificato per sesso non avrebbero dovuto considerarsi
illegittime, perché fondate appunto sulla giusta presunzione della minore capacità e del
minore rendimento delle lavoratrici.
Se si pensa che queste tesi sono state formulate
negli anni¶{p. 137} ‘60, non c’è che da rallegrarsi della benefica
influenza che gli avvenimenti successivi hanno esercitato anche sul pudore dei giuristi.
Occorre tuttavia precisare che le predette tesi non erano frutto di generico
antifemminismo. In sostanza, quegli autori (magistrati e dottrina) deducevano dalla
reale condizione di inferiorità sociale delle lavoratrici l’inferiorità naturale delle
donne, limitandosi a sottolineare quanto irragionevole fosse la pretesa di esse
(categoria inferiore) ad essere pagate quanto gli uomini (categoria superiore): con ciò
legittimando l’esistente divisione del lavoro, senza urtare la sensibilità dell’insieme
dei giuristi, per buona parte convinti, allora, della fondatezza della deduzione (anche
se dissenzienti sul punto specifico dell’interpretazione del principio costituzionale di
parità).
Dimostrando nella circostanza maggiore
lungimiranza di altri, la cassazione aveva provveduto a censurare l’orientamento
giurisprudenziale che ho succintamente riportato. Fin dalle prime cause, in cui era
stata chiamata a giudicare, e con maggiore chiarezza nelle sentenze più recenti
[23]
, la S.C. ha affermato che la parità di lavoro, di cui
all’art. 37 cost., deve essere intesa, sulla scorta di quanto disposto dall’art. 36
cost., come parità di qualifica e mansioni, e non come parità di rendimento. L’art. 37 ‒
ha osservato la cassazione ‒ sancisce il principio, assoluto e inderogabile, della
parità giuridica tra lavoratore e lavoratrice, trasferendo nel settore del lavoro il
generale principio di eguaglianza di cui all’art. 3 cost.; del resto, la costituzione
non avrebbe potuto accogliere alcuna presunzione di minore capacità o rendimento della
donna, senza negare, con ciò stesso, il diritto della donna all’eguaglianza giuridica e
alla parità di trattamento. Per determinare in concreto quando la lavoratrice abbia
diritto alla parità salariale, occorre guardare, ad avviso della S.C., alla qualità e
quantità del lavoro prestato, cioè al «valore tipico» della prestazione, come
predeterminato dalla qualifica (in relazione alle mansioni); di conseguenza, ogni
discriminazione nel trattamento economico, a parità di qualifica e mansioni, deve
considerarsi illegittima. Con questi argomenti la cassazione dichiarava la nullità delle
clausole contrattuali (collettive) che prevedevano differenze retributive
fon¶{p. 138}date esclusivamente sulla diversità di sesso.
L’autorevole intervento della cassazione
sottraeva al dibattito giuridico sulla parità salariale un argomento suggestivo,
utilizzato ampiamente anche dal padronato
[24]
; l’eliminazione del criterio del rendimento rendeva credibile
un’interpretazione dell’art. 37 che lasciava pressoché impregiudicata la questione della
parità salariale. Infatti, col riferimento alla parità di qualifica e mansioni, si
trasformava la norma costituzionale da norma informatrice della disciplina contrattuale
in norma di ratifica della disciplina contrattuale: essendo che, dopo l’accordo del
1960, il problema apertosi nella contrattazione collettiva non era più quello della
discriminazione retributiva fondata sul sesso, ma, come ho detto poco sopra, quello
della disparità retributiva derivante dalla discriminazione nell’inquadramento. E su
questo problema (non meno grave del precedente) la definizione del diritto alla parità
salariale data dalla cassazione (e riproposta senza modifiche in dottrina) non lasciava
alla norma costituzionale alcuno spazio di intervento, sottraendo al giudizio di
legittimità ogni discriminazione salariale che fosse fondata, anziché espressamente sul
sesso: a) sulla sottovalutazione delle mansioni «tipicamente»
femminili; b) sulla sistematica adibizione delle lavoratrici a
mansioni inferiori
[25]
.
Essendosi privati da sé i giudici della
possibilità di correggere le deviazioni della contrattazione collettiva dal principio
costituzionale di parità, e dimostrandosi (fino a ieri) i giuristi poco interessati al
tema della discriminazione, la questione della parità salariale rimaneva tutta affidata
alle cosiddette parti sociali; tanto che se ne può seguire lo svolgimento nella
contrattazione collettiva (nazionale e aziendale). Uno svolgimento alterno e
travagliato, come alterna e travagliata è stata la scelta sindacale in ordine al sistema
di classificazione dei lavoratori, nel quale, a partire dall’accordo del 1960, si è
risolta, pressoché integralmente, anche la questione della parità
salariale.
¶{p. 139}
Note
[14] Più male che bene, nel giudizio di Guerzoni (della CGIL), I problemi aperti dall’applicazione degli accordi di parità, in Parità di retribuzione, cit., pp. 261 seg. Gli atti di questo convegno promosso dalla Società umanitaria registrano numerose denunce di violazione dell’accordo del 1960.
[15] Specialmente nei settori tessili: cfr. E. Giambarba, L. Menghelli, L’evoluzione contrattuale delle classificazioni 1945-1970, in «Quaderni di rassegna sindacale», 1971, n. 30, Le qualifiche, pp. 25 seg.; P. Fortunato, A. Molinari, Esperienze e risultati di categoria: i tessili, ivi, pp. 146 seg.
[16] La strategia sindacale delle qualifiche è stata oggetto di discussione e studio. Per un bilancio dei risultati e delle prospettive della contrattazione collettiva delle qualifiche, si può rinviare al vol. di Aa. Vv„ Ascesa e crisi del riformismo in fabbrica, Bari, 1976.
[17] Gli studi sulle cause strutturali della debolezza della forza lavoro femminile sono ormai numerosi. Si possono segnalare: M. Paci, Mercato del lavoro e classi sociali in Italia, Bologna, 1973, pp. 122 seg.; G. Mottura, E. Pugliese, Agricoltura, mezzogiorno e mercato del lavoro, cit., pp. 314 seg.; L. Frey, Riesame dei problemi deli occupazione femminile, in Sviluppo economico italiano e forza lavoro, a cura di P. Leon e M. Marocchi, Padova, 1973, pp. 163 seg.; M. P. May, Mercato del lavoro femminile: espulsione o occupazione nascosta?, in «Inchiesta», 1973, n. 9, pp. 27 seg.; L. Balbo, Le condizioni strutturali della vita familiare, ivi, pp. 10 seg.; M. P. May, Il mercato del lavoro femminile in Italia, in «Inchiesta», 1977, n. 25, pp. 56 seg.; F. Padoa Schioppa, La forza lavoro femminile, Bologna, 1977; L. Frey, R. Livraghi, G. Mottura, M. Salvati, Occupazione e sottoccupazione femminile in Italia, Milano, 1976; L. Frey, R. Livraghi, F. Olivares, Nuovi sviluppi delle ricerche sul lavoro femminile, Milano, 1978.
[18] S. Garavini, I mutamenti nei ruoli professionali e nei rapporti di lavoro, in Ascesa e crisi, cit., pp. 15 seg.
[19] L’orientamento era diffuso soprattutto nella giurisprudenza del consiglio di stato: v. ad es. Cons. stato, sez. V, 16 maggio 1952, n. 801, in «Foro amministrativo», 1952, 1, 2, 205; Cons. stato, sez. VI, 3 febbraio 1954, n. 59, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1954, 464; Cons. stato, sez. VI, 7 aprile 1954, n. 255, in «Foro italiano», 1954, III, 231, secondo cui l’art. 37 non avrebbe garantito un’assoluta e meccanica parità, dovendo essere il principio di parità adeguato alle «naturali differenze fra i due sessi» (cioè alla minore capacità lavorativa e resistenza delle donne). Qualche decisione in tal senso si ritrova anche nella giurisprudenza di merito (ordinaria): App. Ancona, 20 giugno 1958, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1958, 500; App. Napoli, 21 gennaio 1959, ivi, 1959, 76. La prima decisione in senso contrario è del Trib. Milano, 30 giugno 1955, favorevolmente commentata da U. Natoli, Sulla precettività dell’art. 37 della costituzione, in «Rivista giuridica del lavoro», 1955, II, pp. 371 seg. L’a. svolge in questa nota anche qualche ragionevole osservazione sul rapporto tra diritto al lavoro ed essenziale funzione familiare della donna.
[20] Così T. Treu, I governi centristi e la regolamentazione dell’attività sindacale, in Problemi del movimento sindacale, cit., p. 568.
[21] La precettività dell’art. 37 cost., già affermata dalla giurisprudenza di merito, venne ribadita dalla cassazione, sent. 26 giugno 1958, n. 2283, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1958, 372.
[22] Cons. stato, sez. V, 3 giugno 1961, in «Consiglio di stato», 1961, 1139; Trib. Udine, 23 giugno 1962, in «Giustizia civile», 1963, 1, 674; Trib. Firenze, 6 aprile 1963, in «Orientamenti della giurisprudenza del lavoro», 1963, 437; App. Firenze, 10giugno 1964, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1964, 205; App. Firenze, 13 maggio 1964, ivi, 1965, 140, con nota favorevole di G. Bellagamba, Parità di retribuzione e parità di rendimento, Pret. Roma, 23 luglio 1966, in «Foro italiano», 1966, I, c. 2142; App. Firenze, 4 marzo 1966, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1966, 149. In dottrina: D. De Luca Tamajo, La donna nell’ordinamento giuridico del lavoro, in «Rivista giuridica del lavoro», 1956, 1, pp. 19 seg.; Esposito, La giusta retribuzione femminile, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1958, pp. 258 seg. La dottrina prevalente era tuttavia orientata in senso contrario: v. L. Riva Sanseverino, Sulla traduzione positiva del principio di «parità di retribuzione per parità di lavoro», in «Justi- tia», 1959, pp. 277 seg.; E. Di Berardino, Parità di retribuzione e parità di lavoro, in «Rivista giuridica del lavoro», 1962, II, pp. 47 seg.; F. Guidotti, La parità di retribuzione per il personale femminile, in «Rivista di diritto del lavoro», 1957,1, pp. 344 seg.; G. Giugni, Mansioni e qualifiche nel rapporto di lavoro, Napoli, 1963, p. 127.
[23] Cass., 17 marzo 1970, n. 707, in «Foro italiano», 1970, I, c. 1669; Cass., 15 luglio 1968, n. 2538, ivi, 1969, I, c. 471; Cass., 18 aprile 1969, n. 1231, ivi, 1969,1, c. 1745, con nota di M. V. Ballestrero, Sulla parità di retribuzione, cit., e ivi i riferimenti alla precedente giurisprudenza della S. C.
[24] Trent’anni di lotte, cit., pp. 23 seg. Ma l’argomento, prima usato per negare la parità salariale e poi, più in generale, come giustificazione ideologica della riduzione dei livelli di occupazione femminile, sembra oggi passato a svolgere una duplice funzione di copertura: da un lato consente infatti di sottostimare la reale disoccupazione femminile; dall’altro lato contribuisce a presentare come «naturale» la situazione dell’occupazione femminile, ritardando la presa di coscienza del fatto che questa si presenta ormai come un momento fisiologico del capitalismo italiano. Così Furnari, Mottura, Pugliese, Occupazione femminile e mercato del lavoro, cit., p. 27.
[25] Sul punto, cfr., le riflessioni di T. Treu, Lavoro femminile e uguaglianza, cit., pp. 69 seg.