Viaggio nelle character skills
DOI: 10.1401/9788815366962/c7
Capitolo settimo
Competenze socioemotive e lavorodi Ludovico Albert
Notizie Autori
Ludovico Albert Dopo la laurea per quasi vent’anni ha insegnato Lettere nelle «150 ore» e
successivamente negli istituti tecnici, avviando sperimentazioni rivolte al
rientro degli adulti nella scuola. Ha poi lavorato presso la sezione educazione
permanente dell’IRRSAE Piemonte, coordinando ricerche e interventi mirati al
successo scolastico e formativo dei giovani in dispersione scolastica e alla
specializzazione postdiploma, anche con azioni integrate con il sistema della
formazione professionale. Ha successivamente diretto il Dipartimento Istruzione
Lavoro e Formazione Professionale della Regione in Piemonte e in Sicilia. In
queste regioni è stato autorità di gestione del Fondo Sociale Europeo. Oggi è
presidente della Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo. Ha
accompagnato il lavoro di insegnante e di amministratore con studi, ricerche e
pubblicazioni relativi dapprima alla didattica della storia e all’educazione
degli adulti e successivamente ai temi del lavoro e della formazione, con un
focus particolare sull’innovazione e sui percorsi finalizzati al successo
scolastico e all’inserimento lavorativo dei soggetti più in
difficoltà.
Abstract
Negli ultimi anni la composizione delle caratteristiche dei profili
professionali, anche di quelli meno qualificati, si sono modificate in profondità.
La loro ibridazione vede le skills digitali divenire sempre più
pervasive e, anche nelle professioni maggiormente tecniche, mette al centro il
possesso delle competenze socioemotive. La domanda di lavoro richiede livelli di
istruzione più alti, sia per il patrimonio di conoscenze certificate dal titolo di
studio, sia per le character skills che nel corso di studi si
acquisiscono e che garantiscono effetti positivi durevoli nei percorsi sempre più
discontinui delle carriere lavorative e nella possibilità di governare con percorsi
di lifelong learning le numerose transizioni della vita adulta.
Si impone quindi una concezione multidimensionale del processo educativo che riesca
ad attivare, anche favorendo un processo di empowerment, tutte
le potenzialità degli studenti. L’Italia ha il primato negativo di Neet e dispersi
espliciti e impliciti. La prospettiva del lifelong
learning e il consolidamento delle character
skills richiede un ecosistema educativo, una comunità educante.
Nessuna agenzia educativa da sola (la scuola, il volontariato sociale, la famiglia,
le imprese, la parrocchia, l’associazionismo...) è in grado di realizzare una simile
progettualità. La collaborazione con i territori e le aziende aiuta a creare le
condizioni adatte, di spazi e opportunità per i giovani, per realizzare percorsi più
solidi di sviluppo che non lascino indietro nessuno e permettano la presa in carico
delle potenzialità di tutti. Percorsi che affinino le competenze anche attraverso
l’esperienza, perché soprattutto quelle socioemotive richiedono di essere apprese e
consolidate anche attraverso la dimensione emotiva ed esperienziale.
Nel secolo scorso le grandi agenzie che
si occupano di intermediazione nel mercato del lavoro erano solite affermare che «si è
assunti per le competenze e i titoli posseduti e si è licenziati per le competenze
socioemotive (SES) che non si riesce a dimostrare di possedere». Oggi gli algoritmi
utilizzati dalle stesse agenzie per la selezione del personale da proporre alle aziende per
le assunzioni mettono il possesso delle SES al primo posto e in percentuali sempre più
rilevanti. Se escludiamo poche specializzazioni di altissimo livello, le competenze
hard sono secondarie. Il loro possesso è sempre più spesso una
precondizione, oggetto di un esame preliminare che, tra l’altro, fa ampio ricorso alle molte
tracce che ciascuno di noi lascia nell’infosfera digitale. E, una volta portata a termine la
difficile transizione al lavoro, col passare degli anni il possesso e/o l’implementazione di
determinate SES sono di nuovo il requisito indispensabile per
progredire nella carriera e, talvolta, arrivare al vertice.
Le ricerche sull’importanza delle SES nel
lavoro sono molte, è però un dibattito che ha investito molto il mondo dell’economia, meno
il mondo dell’educazione, molto poco le nostre scuole. Solo nel corso di questi ultimi anni
il dibattito sull’istruzione e la formazione ha spostato l’attenzione dal numero di anni di
scuola frequentati e dai titoli di studio conseguiti, all’effettivo possesso di competenze
misurabili e collocate in un contesto che valorizza le molte dimensioni che lo sviluppo
personale e sociale debbono tenere in conto, da quelle ambientali a quelle digitali, fino al
rispetto di valori improntati al riconoscimento e al rispetto degli altri.
I confronti internazionali e le
raccomandazioni per le ¶{p. 154}politiche educative, fino all’inizio di
questo secolo, si centravano esclusivamente sugli anni di scolarità e sui titoli di studio
conseguiti/da conseguire. La misurazione del funzionamento e il confronto dei sistemi
educativi, poco per volta, ha associato in modo sempre più rilevante l’analisi dei dati
qualitativi a quella degli indicatori quantitativi, il numero di anni di frequenza della
scuola e le percentuali di successo degli studenti nelle loro carriere. Non è più soltanto
rilevante «quanti anni» si studia, ma «come» e «quanto» si impara
[1]
.
Gli obiettivi europei (2020) e, più di
recente, nell’ambito degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’ONU, il goal 4
(fornire un’educazione di qualità, equa e inclusiva, e opportunità di
apprendimento per tutti), centrano l’attenzione sui livelli di apprendimento
effettivamente raggiunti, sugli standard di competenze e di capacità di cui i nostri
studenti debbono essere dotati e sulle caratteristiche dei servizi offerti.
Gli studi di Hanushek sul capitale umano
hanno dapprima analizzato la relazione tra i punteggi dei test PISA nelle prove degli
studenti di vari paesi del mondo e il loro tasso annuale di crescita del prodotto interno
lordo nel periodo 1960-1990 e hanno evidenziato come pochi punti di differenza equivalgano a
differenze piuttosto significative nei tassi di crescita. Gli stessi studiosi, a partire dai
risultati nelle prove PISA, hanno poi messo in relazione i tassi di crescita economica con
la resilienza degli studenti, con la loro capacità di rimanere lucidi anche nel procedere
delle prove e hanno quindi proposto che l’attenzione dei paesi OECD si centrasse anche sul
tema delle socioemotional skills. Non a caso, a partire dal 2012, le
indagini PISA hanno introdotto le valutazioni delle abilità di problem
solving creativo e certamente, anche per riuscire nelle sue prove
disciplinari, non è sufficiente l’apprendimento mnemonico
[2]
soprattutto quando i problemi diventano più difficili.¶{p. 155}
La valorizzazione della rilevanza delle
SES è quindi esogena al mondo dell’istruzione, nasce soprattutto dalle preoccupazioni di chi
ha la responsabilità dello sviluppo dei paesi, si pensi da noi ai continui richiami al tema
da parte del presidente della Banca d’Italia, da chi si occupa di mercato del lavoro e,
salvo che nelle Linee guida nazionali per l’orientamento permanente
[3]
, non ha oggi uno spazio formale né nel sistema di istruzione, né nei meccanismi
che presiedono alla formazione e alla selezione degli insegnanti.
1. La domanda di competenze del sistema delle imprese
La transizione dalla scuola al lavoro
è un passaggio molto poco presidiato. Nonostante le numerose raccomandazioni dell’UE
[4]
e dell’OECD, l’orientamento verso i segmenti di scuola successivi e/o verso
il lavoro, così come l’educazione all’imprenditorialità (i percorsi finalizzati a
sviluppare la capacità di trasformare le idee in azioni attraverso la creatività,
l’innovazione, la valutazione e l’assunzione del rischio, la capacità di pianificare e
gestire progetti) in ciascun segmento scolastico restano affidati nel migliore dei casi
a qualche insegnante particolarmente sensibile e volenteroso e, soltanto in situazioni
eccezionali, sono assunti come temi con diritto di cittadinanza nella programmazione
curriculare. Di più, esso di norma viene considerato come un insieme
¶{p. 156}di servizi, spesso esterni alle istituzioni scolastiche, volti
a facilitare la scelta professionale, in ogni caso ritenuta un tema di competenza
esclusiva del segmento scolastico conclusivo. È ancora lontana nella nostra scuola una
concezione dell’orientamento come un processo educativo continuo, che riguarda tutte le
fasi del percorso formativo a partire dalla scuola dell’infanzia, nel corso del quale il
soggetto si possa via via strutturare come attivo protagonista, un processo finalizzato
a far acquisire e a far utilizzare allo studente le conoscenze, le abilità, le
competenze, gli atteggiamenti, ma anche i valori necessari per effettuare le scelte che
continuamente è chiamato a compiere, anche ma non solo, in relazione all’attività
professionale. Un processo di empowerment che accresca in ciascuno
«le possibilità di controllare attivamente la propria vita»
[5]
. Una concezione multidimensionale del processo educativo per l’attivazione
di tutte le potenzialità degli studenti, non solo della memoria, precisione e
ripetizione proprie dei sistemi educativi tayloristici, posta sempre di più al centro
dell’attenzione dall’incertezza, dal sempre più rapido affermarsi delle rivoluzioni
tecnologiche che caratterizzano i nostri tempi, dalla problematicità che si incontra a
disegnare precise linee di sviluppo di specifici ambiti di lavoro. Non stupisce quindi
che la transizione dalla scuola al lavoro dei giovani sia marcata da un doppio
paradosso.
I giovani in Italia sono una risorsa
sempre più rara, i 15-24enni da noi sono il 9,8% della popolazione, uno dei valori più
bassi nella UE (10,9%), e le differenze tra le grandi città sono ancora maggiori, a
Torino sono appena l’8,3%, un valore molto distante ad esempio da Lione (16,7%), la
città d’oltralpe con cui è solita confrontare le sue politiche. Nonostante siano sempre
meno, i giovani tuttavia incontrano sempre più difficoltà a entrare nel lavoro
[6]
. Una seconda merce rara sono i giovani laureati: in Italia la quota di
25-34enni in possesso di titolo terziario è il 27,8% a fronte
¶{p. 157}
¶{p. 158}del 40,7% della media UE
[7]
. Solo il 45% dei diplomati si iscrive all’università e solo 6 su 10 di
costoro si laureano entro i 10 anni. Nonostante anche in questo secondo caso i giovani
in possesso di diploma o di titolo di istruzione terziaria siano pochi, il nostro paese
è caratterizzato da un rilevante mismatch nel mercato del lavoro,
la quota di lavoratori troppo o troppo poco qualificati rispetto alle mansioni che svolgono
[8]
, ma soprattutto dal particolarmente radicato problema
dell’overqualification, il 18,2% vs. il
14,7% della UE, più grave soprattutto al Sud
[9]
. Mancano quindi i lavoratori qualificati, ma soprattutto quelli esistenti
non hanno skills coerenti con quanto richiesto dalle imprese e
spesso devono adattarsi a mansioni meno qualificate e, alla fine, secondo Excelsior, il
26,4% delle entrate programmate dalle imprese restano difficili da reperire.
Note
[1] E.A. Hanushek e Ludger Woessmann, Do Better Schools Lead to Causation, NBER Working Paper n. 14633, 2009.
[2] Cfr. A. Schleicher, Una scuola di prima classe. Come costruire un sistema scolastico per il XXI secolo, Bologna, Il Mulino, 2020, p. 299.
[3] Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, 2014.
[4] Già nel 2006 il Parlamento europeo ha emanato una prima Raccomandazione relativa alle «competenze chiave» (key-competences), ritenute necessarie per far fronte alle continue sfide di una società globalizzata e di un mondo in rapido mutamento e caratterizzato da forti interconnessioni. Una seconda Raccomandazione del Consiglio d’Europa (Raccomandazione del Consiglio relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente, 22 maggio 2018), ha aggiornato il testo. Le competenze chiave dell’UE sono le seguenti: alfabetica funzionale; multilinguistica; competenza matematica e la competenza in scienza, tecnologie e ingegneria; digitale; competenza personale, sociale e la capacità di «imparare ad imparare»; competenza in materia di cittadinanza, competenza «imprenditoriale», competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturale.
[5] M. Pellerey, Soft skill e orientamento professionale, in «Rassegna Cnos», 3, 2017, p. 5.
[6] I Neet sono il 22,2% dei 15-29enni vs. una media UE del 12,5%.
[7] Dati Eurostat 2020 riferiti al 2018.
[8] Secondo OECD da noi è il 38,2%, a fronte di una media UE del 33,5%.
[9] Sistema informativo Excelsior, La domanda di professioni e di formazione delle imprese italiane nel 2019. Monitoraggio dei flussi e delle competenze per favorire l’occupabilità, Roma, Unioncamere, 2020, p. 16.