Bruno Manghi
Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/c5

capitolo quinto L’autocrate libertario: la democrazia interna nel sindacato

1. Una tesi critica

Anche questo capitolo è animato da una tesi critica rispetto alle forme in cui si è andato sviluppando il sindacalismo italiano. Mentre infatti il sindacato ha svolto un ruolo di liberazione verso l’esterno, sembra aver perduto interesse ai modi del proprio autogoverno e all’intensità della partecipazione di base, sia in occasione delle decisioni di lotta e di accordo, sia quando si assegnano le responsabilità dirigenti. Di qui il dubbio polemico che una grande organizzazione dedita a pratiche autoritarie possa a lungo conservare fedeltà ai suoi impegni democratici e di uguaglianza. Fino a che punto il sindacato, organizzatore positivo di un dissenso sociale, può rifiutarsi di considerare il dissenso che al suo interno si manifesta un elemento di partecipazione? Oppure, la tensione a ottenere «comunque» il consenso interno si accompagna a un mutamento istituzionale del sindacato (facendone quel grande armonizzatore sociale che altrove si era tentato di costruire attraverso l’ideologia corporativa)?

2. Quando il sindacato è portatore di democrazia

Bastano pochi accenni per ricordare quanto il nostro sistema sociale debba al sindacato in termini di spazi democratici. Un’organizzazione come il sindacato esperimenta infatti come l’uguaglianza nelle {p. 88}condizioni di esistenza sia congiunta all’uguaglianza nel «contare». Per questo si è lottato a lungo anzitutto per introdurre elementari diritti civili nell’azienda e nei meccanismi economici, cercando di dare sostanza a libertà formali.
Si trattava di dare voce a masse ignorate come soggetti attivi del sistema statuale, di produrre e diffondere conoscenze nuove. Poiché anche i successi negoziali brillanti si traducevano in una qualità di esistenza migliore solo quando a vigilarne l’applicazione stava una capacità di controllo consapevole.
D’altra parte il sindacato stesso come organizzazione deve contare su spazi di libertà politica e sul rispetto di massima del Patto Costituzionale: esso sa che il primo passo di qualsiasi restringimento delle libertà riguarda necessariamente l’azione sindacale e la sua stessa sopravvivenza. Non è stata perciò semplice generosità ideale bensì lungimiranza, la scelta sindacale di impegnarsi a fondo dopo il ’69 per contrastare la strategia della tensione. Senza dubbio la ricchezza di partecipazione propria del movimento sindacale è servita a superare il vecchio timore della «politica» e ha portato come potenziali attori sulla scena politica decine di migliaia di attivisti, ha riportato nei partiti, malgrado le scarse modificazioni dei loro strumenti di partecipazione, una linfa nuova e inattesa.
Il coinvolgimento dei lavoratori nelle lotte e nella vita interna del sindacato ha un profondo connotato libertario, non solo per l’influenza che esercita sulla vita civile, ma anche perché modifica il modo di «viversi» di un numero rilevante di persone, sottraendole al dominio che una visione strettamente individualistica e rassegnata esercita sull’immagine di sé e del proprio destino.{p. 89}

3. I limiti della democrazia sindacale

Il sindacalismo degli anni ’50 non si poteva permettere grandi esperienze democratiche interne. Era infatti una organizzazione modesta, divisa da una violenta competizione, poco autonoma dai centri dirigenti di partito. Il padronato giocava la carta della sua totale emarginazione; una parte consistente dei lavoratori dipendenti non sapeva neppure che cosa fosse il sindacato. Successivamente, a partire dalla concezione teorica della cisl e dalla profonda revisione della cgil, gli anni ’60 hanno visto uno sforzo del sindacato di riorganizzare i canali di partecipazione, allargando e valorizzando la base militante (le sezioni aziendali sindacali). Su questa riforma si inserisce il grande movimento ’68-’73, con la problematica dell’unità e con l’esperienza dei consigli. Si affermano meccanismi nuovi di decisione: le assemblee, le consultazioni di massa, l’approvazione delle ipotesi di accordo, il diritto di parola e di intervento attribuiti a ciascun lavoratore. Ed è proprio nel modo di praticare queste forme di partecipazione che si osserva da tre anni a questa parte l’insorgere di fermenti autoritari e di prepotenza delle élites contro i principi stessi che di queste élites sindacali avevano costituito il carisma.
Un’analisi anche affrettata dei processi di consultazione che precedono lotte e rivendicazioni rivela ad esempio come nessuna iniziativa confederale sia stata di fatto preceduta da una consultazione dei lavoratori, ai quali si chiede di scioperare e infine di approvare gli accordi. Ma anche nelle categorie dell’industria la consultazione ha assunto una piega di costruzione e coazione del consenso. Se i quaranta-cinquanta dirigenti più influenti della categoria trovano una mediazione soddisfacente, le assemblee {p. 90}diventano operazioni di trasmissione del messaggio. Nei rari casi in cui resta un contenzioso i dirigenti sanno giocare bene la loro autorevolezza e la disciplina di corrente, sottraendo, attraverso l’uso dell’emotività e dell’aggressività, ogni spazio al ragionamento. Basti qui rammentare la pantomima d’alta classe che portò alla scelta dei metalmeccanici di lasciare il tema negoziale dell’anzianità a una vertenza confederale che si «giurava» vicinissima. Nei casi estremi, alcuni dirigenti usano legare l’approvazione di questo o quel punto particolarmente impopolare a un vero e proprio voto di fiducia del tipo: «...se no mi dimetto...» o «qui si vota per o contro la flm...», ecc.
D’altra parte i dirigenti hanno a disposizione la possibilità di manovrare i tempi delle operazioni di consultazione, accelerandone o diluendone le fasi a seconda del clima più o meno favorevole a conquistare il consenso. Inoltre, quando si impostano grandi vertenze aziendali (il caso Fiat è il più lineare), l’incertezza della dislocazione dei poteri tra consiglio, esecutivo, coordinamento, segreterie provinciali e nazionali, favorisce la privatizzazione dei processi decisionali. Sempre ci troviamo di fronte: 1. al fatto che la consultazione è preceduta dall’elaborazione della «linea»; 2. che i gruppi dirigenti sommano la responsabilità di proporre la «linea» al potere di regolare le assemblee che la debbono vagliare. L’assemblea nazionale dei quadri sindacali dell’eur del febbraio 1977 ha fornito numerosi esempi di questa singolare pratica della democrazia: anche perché i dirigenti, pur essendo garantiti del successo in partenza, sono apparsi oltre misura preoccupati e incerti. Uno stato d’animo che ha condotto a decisioni di particolare prepotenza, come l’impedire la lettura degli emendamenti critici (salvo far leggere {p. 91}per pura ricerca di popolarità a poco prezzo la solita innocua mozione femminile).
In occasioni di quel tipo il parlare diventa un atto del tutto avulso da effetti sul piano delle decisioni finali, salvo per alcuni autorevoli leader che parlano ai giornalisti e alla TV (timoroso omaggio al mostro sacro dell’opinione pubblica) fingendo di rivolgersi ai presenti, a loro volta distratti nella lettura dei quotidiani, o nello sbrigare varie faccende di «organigramma locale». Nella sostanza i sindacalisti tendono a togliere dai riti sessantotteschi quei margini di rischio per i quali erano stati inventati.
Se aggiungiamo il fenomeno, ormai apertamente dichiarato all’interno dell’organizzazione, che gli organi dirigenti non sono i luoghi di confronto e di elaborazione e che le loro riunioni, per lo più non decisionali, sono il momento finale di un processo informale che si svolge altrove, nei contatti privati e nel rapporto con la base mediato dai mezzi di comunicazione di massa, possiamo ipotizzare uno stretto rapporto tra sindacalismo dell’immagine e insorgenze autoritarie nel sindacato. Un sindacato che finisce non a caso per cercare la sua affermazione visibile nei servizi d’ordine, anche se le qualità morali in esso ancora diffuse, generalmente impediscono che si arrivi a servizi d’ordine fanatici o mercenari, dove l’ansia del successo a ogni costo vorrebbe portarci.
Anche nel sindacato non sono mancate critiche a questa incapacità di migliorare la democrazia interna. Agli stessi settori considerati moderati accade di cogliere difetti reali, come quando Sartori definisce «adunata» l’Assemblea dell’eur; solo che dietro la loro critica non si ritroveranno mai proposte innovative circa il rapporto apparato-lavoratori (e infatti la sostanza della democrazia sindacale si riduce
{p. 92}per essi al tener debito conto delle diverse componenti organizzate). I critici della sinistra sindacale si sono invece limitati a difendere l’esperienza dei Consigli e a rivendicare teoricamente per i delegati una sorta di potere decisionale di ultima istanza. Generalmente non si sono impegnati in un’analisi critica dei comportamenti burocratici. Infatti per la sinistra sindacale, o meglio per quella parte di essa che più nettamente si richiama alla tradizione marxista, il metro di misura unico per giudicare la democraticità di un’operazione è il suo esito; il successo nell’operazione dei propri obiettivi e dei propri contenuti esaurisce il discorso sulla democrazia. Il realismo politico classico, da questo punto di vista, affratella dirigenti sindacali delle più disparate tendenze.