Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/c5
Ancora una volta la partita è stata prevalentemente giocata sulla qualità della partecipazione, e
¶{p. 102}quindi sulle risorse a disposizione effettiva dei delegati e dei lavoratori: cessati i meccanismi automatici di crescita tipici del movimento collettivo, non si è sostituito ad essi un lavoro effettivo del sindacato per la crescita del potere di base e delle capacità della base di decidere con maggiore autonomia. Al contrario l’accentrarsi dei poteri decisionali punta a modificare profondamente il modo di essere e il ruolo dei consigli e dei delegati, trasformandoli, quando vi riesce, in una sorta di «famulato», di organismo di servizio che risponde più all’apparato che ai compagni di lavoro.
Le ragioni della democrazia ingenua hanno ancora un peso, restano per molti un punto di riferimento a un tempo empirico e ideale, ma i suoi spazi si fanno progressivamente controversi, dal momento che risulta praticamente impossibile vivere dentro la medesima organizzazione due forme di delega e di governo che implicitamente si negano. Non per questo i consigli scompaiono o diventano sempre più simili agli shop-stewards inglesi: semplicemente riducono il loro significato di proposizione e riproducono costumi tipici dell’organizzazione tradizionale. È quindi paradossale vedere quanto impegno sprechino talvolta le Federazioni sindacali più avanzate nel tentativo di ripristinare l’esperienza originaria dei consigli (a volte «sgridando» i delegati), quando invece i problemi principali della democrazia sindacale si risolvono alla vecchia maniera proprio nelle modalità di funzionamento dei gruppi dirigenti e degli apparati esterni delle federazioni stesse.
9. L’esempio dello Stato e dei partiti
Alla generosità ingenua della scommessa consiliare i gruppi dirigenti del sindacato, penetrati nell’a¶{p. 103}rea del potere politico, contrappongono praticamente un altro modello di organizzazione. Attraverso la grande influenza che il partito (e il mito del partito totalizzante) esercita sul sindacalista, si arriva a mutuare nelle forme di governo l’esempio istituzionale dello Stato. Beninteso non il modello costituzionale astratto, non il primato delle assemblee elettive di cui si continua a sognare, bensì la logica dell’esecutivo e il peso degli apparati statuali.
La distribuzione rigida delle competenze, il fatto che l’assemblea elettiva è generalmente non propositiva ma deve discutere sul terreno predisposto dall’esecutivo, il fatto che il gruppo dirigente esecutivo salta l’assemblea poiché ha legami esterni con i centri di potere, sono meccanismi facilmente ritrovabili nella pratica sindacale. L’esito è analogo: il vertice stringe un rapporto diretto e a senso unico con la base, avvantaggiato dai simboli e dai carismi di cui dispone, coadiuvato e condizionato dai mezzi di comunicazione di massa. E si rivolge alla base appunto come a una massa, saltando le espressioni delegate intermedie, lavorando sulle emozioni collettive o sulla immagine di debolezza che il singolo ha di sé. In questa condizione di grossolano dominio i dirigenti, anche loro malgrado, riducono lo spazio dovuto alla ragione, al confronto su ipotesi, poiché l’unica cosa da cui dipendono le loro fortune sono gli umori delle masse, mediati ancora una volta dai canali di informazione più rilevanti.
Se la democrazia ingenua poteva peccare di utopismo sognando uomini rinnovati, quest’altra forma di governo si fonda sul realismo pessimistico e considera il rinnovamento personale un’anomalia letteraria o un pericolo, quando si manifesta in un’area sociale consistente.¶{p. 104}
10. Alcune questioni specifiche di democratizzazione
Passando ad esemplificare cerchiamo di ricordare alcuni problemi specifici sui quali decisioni pratiche sono possibili. Anzitutto il problema base dell’affiliazione sindacale: da un lato il sindacato largheggia teoricamente nel dare la parola a tutti i lavoratori (anche perché poi a tutti si chiede di scioperare), dall’altro in occasioni concrete si procede a vagliare la coerenza tra tessera e comportamento, o addirittura tra tessera e ideologia. Da un lato cioè si pensa che il lavoratore dipendente in quanto tale è membro potenziale del sindacato e può contribuire alla sua linea d’azione, dall’altro ci si trova inevitabilmente a evocare un «patto fondamentale» a cui il lavoratore si deve adeguare. Gli statuti di organizzazione sono per certi versi generici, per altri molto costringenti, e quindi non applicati.
È in qualche modo difficile pensare di poter evitare la definizione di un patto fondamentale: il problema è come sottrarlo all’ideologia, inducendolo piuttosto dalla tradizione pratica. Ma poi, chi e come si può permettere di cacciare un lavoratore (magari perché considerato fascista)? E in che misura il delegato, che dovrebbe rispondere principalmente ai suoi compagni di lavoro, va sottratto a una selezione operata dall’apparato? Il sindacato nella quotidianità non è né associazione né movimento, e il richiamo alla classe ha troppe sfumature per poter significare qualcosa di univoco. D’altra parte se il sindacato non chiarisce a fondo i suoi rapporti con i lavoratori anche in linea di principio (e cioè quanto accetta il rischio reale di subordinarsi ad essi pur sapendone l’eterogeneità), finisce per definirsi come tutte le istituzioni solo per la funzione social¶{p. 105}mente riconosciuta, e subisce perciò una definizione dall’esterno piuttosto che dall’interno. Non è facile trovare risposte esaurienti: basta per ora notare come stranamente di queste cose non si discuta, anche se spesso ci si scontra su episodi pratici, o si finisce per affidare la giurisdizione di appartenenza ai servizi cosiddetti «d’ordine».
Un tema di più chiara lettura è quello concernente la straordinaria stabilità dei dirigenti sindacali (va detto, superiore a quella degli uomini politici). Anche i congressi più seri, quelli con liste di candidati più ampie del numero degli eleggibili, con meccanismi proporzionali, col voto segreto ecc. non riescono a sostituire il meccanismo fondamentale della cooptazione. La cooptazione consiste primariamente nello scegliere lavoratori da avviare alla carriera sindacale a tempo pieno, ed è poi la carriera a fornire le competenze ritenute necessarie per adire ai gradi superiori dell’organizzazione. Anche quando questo fenomeno si svolge tutto per vie interne (come non accade in tutto il sindacato), avviene di fatto che l’area in cui scegliere i nuovi dirigenti risulta ristretta. Il mercato del lavoro viene saggiamente mantenuto ristretto. In tal modo si perpetua una scarsa diffusione delle competenze necessarie: non a caso (in alcuni sindacati più che in altri) la formazione viene soffocata e comunque tenuta a livelli inadeguati. Si tratterebbe invece di allargare moltissimo l’area dei dirigenti sindacali, sia per favorire la sostituzione, sia per ottenere un decentramento dei poteri decisionali, possibile solo quando crescono le capacità decisionali. Di qui l’opportunità di riprendere sul serio la proposta di rotazione delle cariche (cominciando dai massimi livelli e non dagli esecutivi dei consigli) stabilendo tempi certi e controllabili.
Una capacità dirigente più diffusa nella base e ¶{p. 106}nel quadro intermedio faciliterebbe inoltre l’attuazione negli organi della collegialità, sia simbolica che reale, superando la fioritura militare delle gerarchie, segretari generali, segretari responsabili, coordinatori unici e via dicendo. D’altra parte i diritti sindacali ottenuti nei luoghi di lavoro ci danno oggi la possibilità di passare da un apparato chiuso ed esterno a forme di operatore collettivo, responsabili dell’attività di una zona o di una lega. È forse inutile ripetere che proposte di questo tipo funzionano in relazione a un mutare degli atteggiamenti, e soprattutto grazie a un lavoro intenso di crescita critica e propositiva della base. Ma il fatto stesso che si tenda comunemente a osteggiarle o ridicolizzarle mostra che colgono nel segno, irritando costumi autoritari e tradizionalismi largamente interiorizzati anche da sindacalisti innovatori.
Occorre poi ridiscutere tutto il processo che conduce alle decisioni correnti di vertenza, lotta e accordo. Sarebbe bene davvero riportare al vaglio di assemblee decisionali tutte le decisioni di vertenza e di sciopero. Escludendo le rarissime occasioni in cui le condizioni materiali e di tempo non lo consentono. Meglio osare qualche volta la pratica indubbiamente rischiosa del referendum che continuare a decidere in pochi fingendo di coinvolgere i lavoratori.
Dobbiamo infine darci ragione del fatto che non solo l’elaborazione delle piattaforme rivendicative, ma anche la conduzione delle trattative sono diventate compiti esclusivi e personali di pochissimi dirigenti, mentre intorno a loro si svolge lo stanco balletto delle «delegazioni di massa». Assai meglio decidere i limiti alla partecipazione, che recitarla come contorno umiliante ai Grandi Protagonisti, anche perché questa recitazione comporta la procla
¶{p. 107}mazione di lotte inutili, di pura facciata, senza rilievo sulle rivendicazioni.