Bruno Manghi
Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/c5
Anche nel sindacato non sono mancate critiche a questa incapacità di migliorare la democrazia interna. Agli stessi settori considerati moderati accade di cogliere difetti reali, come quando Sartori definisce «adunata» l’Assemblea dell’eur; solo che dietro la loro critica non si ritroveranno mai proposte innovative circa il rapporto apparato-lavoratori (e infatti la sostanza della democrazia sindacale si riduce
{p. 92}per essi al tener debito conto delle diverse componenti organizzate). I critici della sinistra sindacale si sono invece limitati a difendere l’esperienza dei Consigli e a rivendicare teoricamente per i delegati una sorta di potere decisionale di ultima istanza. Generalmente non si sono impegnati in un’analisi critica dei comportamenti burocratici. Infatti per la sinistra sindacale, o meglio per quella parte di essa che più nettamente si richiama alla tradizione marxista, il metro di misura unico per giudicare la democraticità di un’operazione è il suo esito; il successo nell’operazione dei propri obiettivi e dei propri contenuti esaurisce il discorso sulla democrazia. Il realismo politico classico, da questo punto di vista, affratella dirigenti sindacali delle più disparate tendenze.
Esistono zone certamente più sensibili di fronte a tendenze burocratiche e centralistiche: buona parte della cisl, in quanto cresciuta attraverso confronti interni aspri e palesi, buona parte dei sindacalisti di tradizione socialista. Ma un conto è manifestare volta a volta una certa sensibilità, un conto accettare il problema della democrazia interna come discriminante rispetto al destino sociale del sindacato.

4. Autoritarismo sostenuto dal consenso

Quando le forme del potere sindacale si affermano al di fuori delle regole di controllo e partecipazione stabilite in più occasioni dagli organi dirigenti, quasi sempre l’azione «autoritaria» ha successo. I comportamenti centralistici suscitano reazioni limitate alla base, evocano proteste labili, e nell’arco di pochi giorni quel che pareva fino a ieri inaccettabile, viene accettato. Anche veri e propri colpi di testa, come la concessione non discussa e non ufficialmente richiesta delle festività, e il conseguente pos{p. 93}sibile allungamento dell’orario annuo di lavoro, sono sostanzialmente «passati». Cerchiamo di capire perché.
Anzitutto l’élite sindacale mantiene nel suo complesso un grande rapporto di fiducia: è apparsa fino a ieri una élite vittoriosa, anzi secondo alcuni troppo vittoriosa e come tale è stata consacrata nell’immagine fornita dai mezzi di comunicazione di massa. La base è formata spesso da lavoratori che hanno subito per anni prepotenze, iniquità e vere e proprie violenze; per essi il sindacato vittorioso dopo il 1969 ha significato anche una rivalsa collettiva ed i leader ai vari livelli sono stati amati come proiezioni di quella rivalsa. Inoltre, le scelte dei gruppi dirigenti filtrano attraverso un apparato sindacale vastissimo e articolato, un apparato che non è sempre e comunque «in linea» ma che, al pari dei delegati più fedeli, trova un limite alla propria critica nella visione del «nemico», di colui che può trarre vantaggio dalle divisioni interne: per questa ragione molti impulsi critici vengono messi a tacere.
Soprattutto l’agire autoritario si avvale di una propensione alla delega, di una tendenza al fate-voi, diffusa tra la gente in una civilizzazione di massa, e convalidata dai normali meccanismi della partecipazione politica. Ragion per cui, volta a volta, gruppi di lavoratori più sensibili o più «interessati» reagiscono contro singole scelte, ma è rarissimo assistere a una reazione generalizzata quando il gruppo dirigente è concorde o diplomatizza a esclusivo uso degli addetti ai lavori i propri dissensi. Le tendenze autoritarie trovano quindi una specie di convalida in un consenso di massima, beninteso consenso passivo, ma tanto basta anche in occasioni storiche.
Talvolta non è neppure possibile arrivare a misu{p. 94}rare consenso e dissenso, a causa della mancanza di informazioni e delle difficoltà a comprendere e ragionare nel merito da parte di una base a cui sono negati alcuni fondamentali strumenti di conoscenza. È probabile che la forma prevalente di «protesta» diventi allora la perdita silenziosa della propria identificazione con il sindacato, quel qualunquismo che ci si affanna a bollare senza ragionare sulle sue possibili origini.
L’ipotesi che si intende sottolineare maggiormente è quella di un impoverimento progressivo del sindacato sia in termini di idee sia in termini di idealità. I costumi autoritari recidono infatti il rapporto pragmatico con la base, che è appunto per il sindacato una fonte specifica di conoscenza e di alimentazione delle motivazioni.

5. Due aspetti della democrazia sindacale

Nel sindacato democrazia significa partecipazione più o meno ampia alle decisioni di azione (e alle elaborazioni precedenti) e intervento effettivo nella designazione dei responsabili.
Il problema può essere affrontato da due punti di vista: il primo attuando meccanismi che danno ai lavoratori, prescindendo dalla loro appartenenza di componente, capacità di controllo, di indicazione, di rinnovamento dei gruppi dirigenti; il secondo stabilendo meccanismi che salvaguardino al massimo la rappresentatività delle diverse componenti sindacali, politiche e culturali già organizzate nel movimento. La prima ha trovato la sua risposta progettuale più alta con i deliberati del Consiglio Generale flm di Modena, su spinta prevalente della fim-cisl, ma in un clima di accordo sostanziale. A Modena si era pensato che il secondo problema (quello {p. 95}delle componenti) potesse venire risolto automaticamente risolvendo il primo (la partecipazione piena della base, e l’estensione parziale della forma consiliare a tutta l’organizzazione). Il secondo ha invece trovato la risposta più compiuta nei deliberati sull’unità del Patto federativo milanese, documento in questo caso più influenzato dalle posizioni della uil.
A Milano si è ragionato realisticamente eppure con una certa audacia, sancendo la possibilità della elezione per aree di più delegati (cosa che avveniva da anni, ma che non poteva venir ammessa pubblicamente sempre per ragioni di immagine), proponendo inoltre uno schema congressuale con forti garanzie per eventuali minoranze. In questo caso il problema di singoli o di gruppi di lavoratori che intendono influire sulle decisioni sindacali, fuori delle appartenenze consentite, non viene quasi preso in considerazione. A Modena come a Milano ci si è mossi secondo una visione parziale della democrazia sindacale. Nella flm si inseguiva ancora la speranza di una rifondazione sindacale, di un rimescolamento delle carte che è stato bruscamente interrotto con la rinuncia all’unità articolata, e quindi venivano sottovalutate le garanzie per ciascuna componente storica. La Federazione milanese ha invece discusso a fondo un progetto atto a impedire prevaricazioni di componente, ma appunto poco orientato a suscitare nuova democrazia. Inutile aggiungere che entrambi i documenti rappresentano evasioni liriche rispetto al modesto arrangiarsi che contraddistingue il percorso autentico delle decisioni sindacali.
Il sindacato, come ad altro proposito ha scritto Alberoni, è passato da una fase di movimento collettivo dove il valore dell’unità era sentito e indiscusso e dove il solo fatto di dare la parola produceva partecipazione e idee, a una fase faticosa in cui {p. 96}il problema centrale dell’agire democratico è stabilire la legittimità e l’influenza del dissenso, e dove perciò i modelli (non la pratica!) della democrazia borghese sono un riferimento teorico insuperato. L’insorgere di costumi burocratici e autoritari nel corpo del sindacato è accentuato dall’assenza di una riflessione su questi temi, anche se probabilmente connesso con altri fenomeni, che cerchiamo di definire.

6. Il potere dell’istituzione

La maggiore incoerenza tra le affermazioni retoriche di democrazia e le modalità di esercizio del potere sindacale ha coinciso con la tendenza a fare del sindacato una istituzione legittima e onorevole, pienamente accolta nel concerto dei grandi poteri, e per converso più carica di responsabilità generali.
Il processo di istituzionalizzazione tende infatti a differenziare marcatamente i destini dei dirigenti e dell’apparato rispetto a quelli dei rappresentati. La spinta ideale tipica di una forza ai margini del circuito istituzionale insieme alla relativamente bassa considerazione sociale dei suoi dirigenti, legavano un tempo più strettamente l’aderente al militante, al responsabile, al capo carismatico, pur in una situazione di modesta democrazia interna.
L’élite sindacale, anche quella più temprata e più autenticamente identificata con i lavoratori in carne e ossa, è oggi esposta a un processo di valorizzazione che può arrecare vantaggi privati, di prestigio e di potere sociale. Non solo, la sua valorizzazione può addirittura coincidere fino a un certo punto con una diminuzione della capacità di tutela sindacale, cioè può coincidere paradossalmente con un relativo indebolimento dei lavoratori sul piano delle condizioni di reddito, di sicurezza e professionali.
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