Bruno Manghi
Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/c5
L’élite sindacale, anche quella più temprata e più autenticamente identificata con i lavoratori in carne e ossa, è oggi esposta a un processo di valorizzazione che può arrecare vantaggi privati, di prestigio e di potere sociale. Non solo, la sua valorizzazione può addirittura coincidere fino a un certo punto con una diminuzione della capacità di tutela sindacale, cioè può coincidere paradossalmente con un relativo indebolimento dei lavoratori sul piano delle condizioni di reddito, di sicurezza e professionali.
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Inoltre, il dirigente sindacale traghettato felicemente nell’area dell’élite del potere, tende ad assorbire la concezione politica limitata di democrazia che pervade il sistema e che è nota sotto il titolo di «realismo politico»: relativa indifferenza dei mezzi rispetto ai fini, ideologia dell’efficienza, adattamento della dimensione morale ai luoghi comuni della cultura prevalente e alle esigenze di appartenenza, rassegnazione rispetto all’inevitabile disuguaglianza. Questo processo di acculturazione si attua non attraverso cedimenti etici o peggio «tradimenti», ma anche perché il patrimonio culturale tradizionale del sindacato risulta singolarmente indifeso e arcaico rispetto ai problemi nuovi della democrazia.

7. L’ideologia della compattezza operaia

Il sindacato si è trovato impreparato ad affrontare i termini nuovi della questione democratica nella propria vita interna, anche per l’offuscamento derivato da talune concezioni ideologiche. Una tra le principali è la convinzione che la classe operaia, unita da interessi oggettivi e costretta alla compattezza dall’avversario, non si debba porre i problemi tipici di una democrazia rappresentativa.
Il dissenso nella classe operaia viene considerato volta a volta il prodotto dell’influenza borghese, e quindi un fenomeno da combattere ed estirpare, o uno sbaglio destinato a chiarirsi, comunque e sempre un ostacolo, una debolezza, un fattore negativo. Alla base sta evidentemente una visione «angelicata» della classe operaia che fa meccanicamente discendere la coscienza di sé dalla sua condizione fondamentale di subordinazione al capitale, e che presuppone l’esistenza di una scienza in grado di contenere tutte le risposte necessarie lungo il cammino {p. 98}dell’emancipazione. Questa scienza apparterrebbe a un gruppo dirigente omogeneo, in grado di trasmetterne gli esiti pratici alla base.
Tale drastica riduzione del pensiero marxista ha penetrato in profondità le tradizioni della sinistra e del sindacato, rendendo piuttosto sordi ai dati controversi di realtà che pure accompagnano con frequenza la vicenda operaia, e che invitano a più complesse interpretazioni della classe. Anche dietro teorizzazioni recentemente riprese, che esaltano come processo di liberazione l’eventuale affermarsi nei lavoratori della coscienza di produttori, c’è questo mito della compattezza, quasi un destino profetico che si attua anche a dispetto della consapevolezza dei singoli. Di qui, quell’esaltazione della disciplina per sé e del consenso comunque costruito che, come abbiamo visto in un’altra nota, confluisce nello spirito militare tipico della nostra esperienza di classe.
Si proietta, nella quotidianità, quella dimensione di autentica e vissuta omogeneità che è propria soltanto dei momenti di movimento collettivo, quando coinvolgono l’insieme della personalità individuale e l’insieme di un gruppo sociale, al di là delle differenze di interessi particolari e di prospettive ideali. Sappiamo invece tutti assai bene quante differenziazioni sociali e culturali nasconde il termine classe operaia e sperimentiamo in maniera crescente le incertezze della «famosa» scienza, specialmente quando si esce dalla dimensione dell’immediata tutela sindacale e si affronta una crisi generale, con l’ambizione di rappresentare l’insieme dei lavoratori dipendenti. Il sindacato deve fronteggiare differenze non illusorie di interessi, convinzioni soggettive differenziate, atteggiamenti eterogenei nei confronti del sistema.{p. 99}
A questo punto il dissenso all’interno della classe dovrebbe cessare di essere considerato un fatto patologico, e l’influenza della base potrebbe rappresentare un utile correttivo all’insicurezza «scientifica» dei vertici. Per cui democrazia sindacale verrebbe a significare valorizzazione del dissenso e impegno a portare maggiore uguaglianza dentro l’organizzazione di classe. Ma i miti con i quali si imbatte tale prospettiva sono solidamente connessi con il carisma del gruppo dirigente e la stessa frusta ideologia della compattezza militare (non della solidarietà) della classe operaia trova parziale giustificazione di fronte all’ipocrisia pratica dei più avanzati modelli della democrazia borghese.
Non è un caso l’equivocità del recente dibattito sul pluralismo, dove è arduo capire se si dibatta la superiorità di una impostazione teorica e programmatica o invece si discuta dei meccanismi sperimentati che conducono a forme di convivenza totalitaria. Nel caso specifico del sindacato, il pluralismo ha rilievo in quanto stabilisce un patto di non aggressione e di collaborazione nella diversità tra componenti politiche e tra gruppi che rappresentano interessi parzialmente differenziati. Ma per chi è interessato a sperimentare nel sindacato forme di convivenza democratica più avanzate ed esemplari, è ancora più rilevante il problema di come mettere gli aderenti in condizioni meno disuguali, di conoscenza, di analisi, di capacità di elaborazione, a prescindere dalla loro appartenenza di componente. L’accentramento dei poteri decisionali, col contorno di finte decisioni decentrate, consegue necessariamente al fatto che sono anzitutto accentrate le possibilità di conoscere e di elaborare, e che tutto il circuito delle informazioni subisce una polarizzazione al centro, tipica delle normali strutture aziendali. A quel punto {p. 100}il pluralismo delle componenti serve soltanto a spartire più equamente gli onori e le responsabilità di vertice, ma non si alimenta in rapporto a una base vitale, in cui le diversità di orientamento sono un fattore di ricchezza per il movimento.
D’altra parte con l’ideologia della compattezza operaia, e malgrado il pluralismo «contrattato ai vertici», si è da tempo affermato nelle organizzazioni di classe un modo di ragionare chiuso, non per ipotesi, ma per asserzioni, un classico derivato nel pensiero politico di forme religiose autoritarie-banalizzate. In assenza di pensiero ipotetico non si dà atteggiamento di ricerca, la prassi stessa tende al mutismo, il dissenso diventa fastidiosa bestemmia contro la sacralità. La stessa pratica della cosiddetta autocritica è un modesto strumento di adattamento realistico per conservare indiscusso il ruolo dirigente, quando non è, come di frequente, pura finzione (ci si fa l’autocritica per poi dire che altri hanno sbagliato di più).
Sembrerebbe che il pensiero ipotetico si accompagni male con le motivazioni ideali: ci sembra il contrario, è generalmente il pensiero ideologico pseudo-religioso a consentire il massimo di realismo cinico, nella misura in cui toglie gli ideali dalla soggettività, li traduce in scienza della storia e li lascia veleggiare nell’aria staccati dalla pratica, e buoni soltanto per azzimare i riti di massa.

8. La sconfitta della democrazia ingenua

Il grande movimento successivo al ’67 produce esperienze straordinarie di democrazia ingenua; cerca di contemperare il necessario atto di delega (il voto) con un flusso di partecipazione che a tutti appartiene (assemblee, revoca, manifestazioni non irreggimen{p. 101}tate). La chiamiamo democrazia ingenua perché fondata essenzialmente su un rinnovamento interiore tale da rendere ciascuno libero rispetto alle proprie tradizioni di appartenenza e di cultura.
L’originalità dei consigli ci sembra stia qui piuttosto che nelle teorizzazioni organicistiche del gruppo omogeneo e del rapporto con l’organizzazione capitalistica del lavoro. Si riconoscevano nei singoli ignorati le capacità di capire e di contare, si sprigionava una proposta che coinvolgeva sia il modo d’essere della massa e del movimento sia il modo d’essere quotidiano di ogni lavoratore. Indubbiamente una sfida soggettiva che andava assai oltre le condizioni materiali che l’avevano resa possibile. La sua sconfitta consiste nel fatto che l’esperienza consiliare si è arrestata ai livelli inferiori dell’organizzazione sindacale trovandosi poi aggredita dall’ondata di ritorno delle lottizzazioni e delle logiche di appartenenza.
Si era pensato che la sua capacità espansiva, fondata essenzialmente sull’umanità e sulla bellezza del messaggio, avrebbe contagiato l’intero modo di fare sindacato. Per questo l’ipotesi consiliare negava volutamente il problema dell’equilibrio tra componenti diverse, proiettata come era verso l’unità autentica. Man mano che il progetto unitario ha perduto autenticità, ridiventando sostanzialmente un problema degli apparati sindacali, inevitabilmente l’ingenuità dei consigli è stata messa alla prova. Né l’altra strada di espansione, quella dei consigli di zona, la si è potuta praticare, in quanto portava a competere con le organizzazioni territoriali di partito e con gli organi dello pseudo-decentramento amministrativo.
Ancora una volta la partita è stata prevalentemente giocata sulla qualità della partecipazione, e
{p. 102}quindi sulle risorse a disposizione effettiva dei delegati e dei lavoratori: cessati i meccanismi automatici di crescita tipici del movimento collettivo, non si è sostituito ad essi un lavoro effettivo del sindacato per la crescita del potere di base e delle capacità della base di decidere con maggiore autonomia. Al contrario l’accentrarsi dei poteri decisionali punta a modificare profondamente il modo di essere e il ruolo dei consigli e dei delegati, trasformandoli, quando vi riesce, in una sorta di «famulato», di organismo di servizio che risponde più all’apparato che ai compagni di lavoro.