Bruno Manghi
Declinare crescendo
DOI: 10.1401/9788815413505/c4
In tal modo vengono a mancare nel sindacato sedi e situazioni dove gli «amici» e i «compagni» possono verificare insieme le ragioni del loro lavoro, possono analizzare con naturalezza le relazioni reciproche e quelle tra la propria personalità e il ruolo che è chiamata a svolgere. Ma se si vuole far parte di una sia pur modesta élite del potere, sembra obbligatorio lasciare alle spalle tutte queste sciocchezze psicologiche, limitandosi a viverle sotto forma di turbamento prima nel tempo libero, poi nei memoriali della terza età.
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8. La concezione della politica e il mestiere

L’avvicinarsi e l’inserirsi dell’apparato sindacale nell’apparato del sistema politico e amministrativo coincide necessariamente con una evoluzione della sua concezione generale dell’azione politica. Si fa strada, specialmente nell’area che si definisce di tradizione marxista, una strana accoppiata di fedeltà rituale a schemi ideologici e di realismo estremo nelle scelte pratiche.
Anzitutto c’è stata una critica feroce al pragmatismo, una critica che muoveva dalla consapevolezza che ipotesi generali fossero utili all’azione sindacale, ma che è gradualmente diventata insofferenza per ogni problematica delimitata, specifica, parziale. Rovesciando il titolo del noto pamphlet americano si potrebbe dire che per il sindacalista italiano solo «il grande è bello». È storia di questi anni quanto questo privilegiamento ossessivo dei grandi disegni abbia condotto al dilettantismo e alla superficialità fino a un certo disprezzo dei bisogni minuti dei lavoratori.
Parallelamente la scoperta dell’ideologia ha messo in crisi gli ideali personali, ritenuti troppo vaghi e soggettivi. Ma almeno gli ideali si potevano discutere e si manifestavano nella loro fragilità soggettiva, mentre l’ideologia assunta come dogma scientifico risulta indiscutibile e frena la ricerca. Inoltre, l’ideale soggettivo esprime una forte richiesta di autenticità e coerenza, mentre l’ideologia è madre di falsa coscienza e permette il ricorso pratico al realismo più tradizionale, quando non al cinismo elitario. Superato quindi il mestiere dell’organizzatore-negoziatore il nuovo sindacalista, malgrado l’umiltà dei suoi compiti quotidiani, tende a un modello di polivalenza che è proprio del cosiddetto uomo politico. {p. 83}Ma questa polivalenza si manifesta come apparenza e puro linguaggio, misura la propria efficacia sul consenso momentaneo della base, non su un progetto di modificazione del reale, sia pure circoscritto. Ciò serve a chiarire quanto abbiano equivocato nel rispondere i sindacalisti chiamati in causa dalla rivendicazione di un «ritorno al mestiere del sindacato». Hanno scelto la risposta banale che «quel» mestiere (la pura con trattazione) è esaurito. Certo! Forse anzi non è mai esistito in quanto tale. La critica puntava ad altro, al fatto che la genericità dei nuovi compiti sindacali conduce a una subordinazione del sindacato e alla produzione in serie di un sindacalista persuasore.

9. Le energie nascoste

Eppure chiunque vive l’esperienza sindacale tra i militanti di base e anche in ampie zone di vertice, deve riconoscere la presenza costante di una corrente di oblatività e di dedizione che non si confonde con un puro attivismo professionale. È incontestabile la superiorità delle gratificazioni morali su quelle materiali e di prestigio, e soltanto per un numero limitato di dirigenti e funzionari si può parlare di un processo di burocratizzazione ormai consumato, vale a dire di un atteggiamento di privatizzazione del ruolo sindacale, di uso del sindacato per una scalata personale.
Fino a tempi recenti, infatti, la selezione ha operato premiando le attitudini di oblatività e di servizio e solo involuzioni nei meccanismi organizzativi hanno fatto riemergere quelle tendenze alla sicurezza, al prestigio e al dominio che peraltro sono latenti in ciascuno. La questione va affrontata positivamente ragionando sulla possibilità di sviluppare co{p. 84}scientemente le tendenze di servizio, mantenendo competitività, ricerca della sicurezza personale e carriera in termini accettabili per una organizzazione che dovrebbe testimoniare nel suo modo di essere la propria funzione di trasformazione sociale. Da questo punto di vista la semplice «battaglia» contro il rilassarsi delle tensioni ideali è inconcludente e moralista. Infatti, non di rado il sindacalista si sente giustificato e perciò non analizza criticamente il proprio ruolo, grazie al proprio attivismo: il superlavoro, la rincorsa affannosa degli appuntamenti, il fatto di riuscire a «coprire» decine di riunioni, diventano l’alibi per rifiutare un riesame collettivo o personale della propria funzione.

10. Conclusioni

In generale appare assurdo sperare in una eliminazione della stratificazione interna al sindacato: l’organizzazione richiede gerarchia e la gerarchia tende a produrre una élite stabilizzata. È tuttavia possibile modificare in un senso o nell’altro la funzione dirigente, poiché un gruppo dirigente potrebbe in astratto utilizzare la propria primazia per l’uguaglianza. Per ottenere questo occorre rivedere l’insieme dei meccanismi formali di democrazia e di autogoverno sindacale, ma altresì lavorare e riflettere sugli aspetti informali e sociali dell’ambiente sindacale. Bisogna procedere al di là delle semplificazioni e dei silenzi tipici della nostra ideologia politica, affrontare anche teoricamente la questione delle relazioni tra l’assetto interno del sindacato e la funzione egualitaria che esso vuole svolgere nella società.
Subito emerge, allora, il problema delle differenze di strumenti conoscitivi ed espressivi che si allargano progressivamente tra i vari livelli gerarchici, {p. 85}e soprattutto si sentono l’assenza di un’attività consapevole di confronto tra soggetti che agiscono nell’organizzazione e la rassegnazione oscurantista verso i modelli burocratici imperanti nella società e nel sistema economico-politico. La subordinazione del sindacalista al modello del dirigente politico-amministrativo fa perdere di vista gradualmente l’idea di sindacato come organizzazione di classe, parzialmente ma effettivamente alternativa. Né possiamo regredire ai due vecchi modelli della tradizione italiana: il sindacalista filantropo (e un po’ paternalista) della tradizione cristiano-sociale e il sindacalista agitatore messianico e autoritario della tradizione marxista. Sono modelli non più plausibili nei confronti di una classe lavoratrice diversificata e diversa rispetto alle origini. L’organizzatore sindacale degli anni ’60 è stato una risposta adeguata, oggi il contatto inevitabile con l’élite politico-amministrativa rischia di fare dell’avvicinamento del sindacalismo alle grandi questioni politiche un processo di perdita di identità e di sostanziale burocratizzazione.
Certo, per riesaminare efficacemente il modo di essere del sindacalista occorrerebbe un dispiegarsi nell’organizzazione del pensiero collettivo che contrasta radicalmente con l’attuale situazione di delega. La delega nel sindacato è una delega a pensare ed elaborare, prima ancora che una delega a decidere. Se Corrieri applicasse al sindacato la violenza analitica del suo occhio ingenuo, come ha fatto per le retribuzioni, potrebbe parlare di una «giungla» delle responsabilità e dei livelli di conoscenza.
Affidarsi solo alle occasioni di movimento è l’illusione delle minoranze sindacali «di sinistra» dei paesi industriali. Il movimento deve trovare sulla sua strada militanti che hanno operato coscientemente una trasformazione interiore, preparati a fronteg{p. 86}giare il problema del richiudersi nel privilegio tipico di ogni élite, anche delle élites di opposizione quando non possono sfuggire a una responsabilizzazione nei confronti del potere. Per questo si può affermare polemicamente che il pragmatismo unito a idealità soggettive è un atteggiamento innovatore, rispetto alla congiunzione di vecchie ideologie con il realismo della gestione, a quel sindacalismo retorico nelle piazze e dilettantescamente accomodante intorno al tavolo, la cui «resistibile ascesa» sarebbe bene scongiurare.