Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c9

IX Il contratto collettivo nell’ordinamento giuridico italiano
Da «Jus», 1975, pp. 167-198

1. Il contratto collettivo nella giurisprudenza dei probiviri e nei primi saggi della dottrina italiana.

Se la legge 15 giugno 1893, n. 295, là dove investiva gli uffici dei probiviri di competenza conciliativa su «tutte le controversie che riguardano convenzioni relative al contratto di lavoro», si riferisse anche alle convenzioni collettive [1]
, è difficile dire. A quell’epoca la contrattazione collettiva era appena agli albori in Italia e probabilmente non andava oltre i limiti del primo tipo descritto dai coniugi Webb con i nomi di shop club e shop bargain, cioè il contratto di officina, più prossimo al cottimo collettivo che al contratto collettivo di lavoro nel senso moderno. Di questo fenomeno la giurisprudenza dei probiviri comincia a occuparsi all’inizio del nuovo secolo, quando ormai «l’associazione va sempre più sostituendosi all’officina, il contratto collettivo al contratto singolo» [2]
. Già nelle prime decisioni l’occhio delle giurie probivirali, attento «all’evoluzione rapida dei rapporti tra capitale e lavoro» [3]
, coglie immediatamente l’essenza della nuova figura di contratto, prodotta dall’«incalzante fioritura» dei gruppi professionali, e i problemi fondamentali connessi alla sua funzione: il problema dell’inderogabilità e il problema dell’efficacia generale. Le giurie sono chiaramente orientate a risolverli affermativamente, ma non senza esitazioni, che denunciano la difficoltà di inserimento nelle categorie {p. 248}del diritto comune. Si tentò di fondare l’inderogabilità con l’argomento, evidentemente insufficiente [4]
, che la clausola individuale difforme «non può essere tenuta per efficace; essa, infatti, è da considerarsi viziata per difetto di pieno consenso da parte degli operai sottoscritti, indotti a subirla dalla tema di immediato licenziamento» [5]
. Questa decisione fu contraddetta, pochi mesi dopo, dalla stessa giuria che l’aveva pronunziata [6]
, e in definitiva restò isolata. Né incontrò maggior fortuna il tentativo di fondare l’efficacia automatica del contratto sul piano delle fonti formali di diritto oggettivo, prospettandolo come fonte di un uso normativo prevalente sui principi generali del diritto civile ai sensi dell’art. 1 del codice di commercio [7]
.
Incerta di fronte al problema circa la natura dell’efficacia del contratto (efficacia automatica o meramente obbligatoria), la giurisprudenza dei probiviri appare più decisa di fronte al problema dell’estensione soggettiva: «Fin dai primi tempi della sua costituzione – si legge in una decisione di una giuria milanese [8]
– questo collegio esprimeva il principio che le tariffe conchiuse fra delegazioni di operai e imprenditori sono applicabili alla generalità degli interessati delle rispettive classi esercitanti l’industria nella zona per la quale esse sono state stipulate». Questo principio fu applicato secondo due concezioni. Un primo indirizzo attribuì ai contratti collettivi efficacia diretta anche nei confronti dei datori e dei prestatori di lavoro non aderenti alle associazioni o alle delegazioni stipulanti, sulla base o della teoria del mandato tacito [9]
, spesso {p. 249}confusa con la teoria dell’utile gestione [10]
, oppure della teoria della stipulazione a favore di terzi, affermandosi allora che proprio l’art. 1128 c.c. 1865 poteva fornire il «legame» che «riannoda il contratto collettivo al codice civile» [11]
. Un altro indirizzo limitò l’efficacia diretta alla cerchia dei soggetti che direttamente o per rappresentanza ne erano parti; fuori da questa cerchia il contratto poteva spiegare un’efficacia solo indiretta, cioè mediata dal potere correttivo dei contratti individuali di lavoro secondo equità, di cui le giurie si ritenevano investite dalla legge istitutiva: «tuttavia la Giuria può riconoscere come rispondenti a giustizia ed equità i criteri che ispirano questi accordi e quindi applicarli per proprio conto» [12]
. Nel secondo indirizzo non è difficile cogliere un precedente puntuale della notissima giurisprudenza instaurata dalla Cassazione a partire dal 1950, la quale riesce a estendere le clausole economiche ed economico-normative dei contratti di categoria ai datori di lavoro non iscritti alle associazioni stipulanti, operando col principio costituzionale del salario equo e sufficiente, integrato (superfluamente) da un’interpretazione estensiva del potere di arbitramento attribuito al giudice dall’art. 2099 c.c.
Nella dottrina e nella giurisprudenza ordinaria l’acquisizione del concetto moderno di contratto collettivo non {p. 250}fu così immediata. Nel primo studio ad esso dedicato dalla scienza giuridica accademica fu proposta, in polemica con la giurisprudenza dei probiviri, la concezione primitiva a quell’epoca ancora dominante in Inghilterra e in Francia, designata nella letteratura inglese moderna come la concezione «classica» dei coniugi Webb. Alla stregua di tale concezione, per cui «la contrattazione collettiva era esattamente ciò che significano le parole: un equivalente collettivo e alternativo alla contrattazione individuale» [13]
, l’Ascoli definiva il contratto collettivo come «il contratto di tutti i singoli soci, la cui opera o sulla mercede dei quali si pattuisce» [14]
, cioè un contratto cumulativo [15]
di tante locazioni d’opera quante sono le coppie di individui rappresentati dalle associazioni stipulanti. In alternativa a questa teoria atomistica, che risolveva il contratto collettivo in un fascio di contratti individuali di lavoro, stipulati uno actu in esito a un’unica trattativa, ma giuridicamente distinti, furono successivamente proposte due teorie che, senza abbandonare l’identificazione col contratto di lavoro in senso tecnico, si sforzavano di attribuire rilevanza giuridica al momento collettivo da cui il fenomeno studiato è qualificato. Il contratto collettivo fu teorizzato o come un «contratto complesso» produttivo a carico dei lavoratori coalizzati di obbligazioni di lavoro coordinate al fine unitario dell’impresa da un comune regime contrattuale, e quindi fra loro legate da un vincolo funzionale di interdipendenza [16]
; oppure, più radicalmente, come un unico contratto di lavoro produttivo per i lavoratori di un’unica obbligazione di natura collettiva [17]
. Matrici di simili teorie, elaborate con riguardo all’ipotesi, allora {p. 251}prevalente, del contratto aziendale, sono chiaramente la forma originaria del contratto di cottimo collettivo e anche l’originaria connessione del movimento associazionistico dei lavoratori col movimento cooperativo [18]
. Esse trovarono una vistosa, seppure parziale, applicazione nel celebre contratto collettivo stipulato il 27 settembre 1906 dalla Fiom con la società automobilistica Itala di Torino [19]
. I lavoratori organizzati nella Fiom di Torino, e da questa rappresentati in veste di agenzia di collocamento, si obbligavano a prestare il loro lavoro nella misura occorrente ai bisogni dell’azienda, alle condizioni definite nel contratto e stabilizzate per un triennio da una clausola di tregua assoluta (con la sola eccezione dello sciopero generale politico), in cambio della quale la Fiom ottenne una clausola di esclusiva in tutto simile, sotto il profilo sindacale, alle clausole di union shop della prassi anglosassone. Fu un tentativo di avviare il movimento sindacale italiano sui binari del trade-unionismo inglese, ma sarebbe futile attardarsi sul quesito se le sorti del nostro paese sarebbero state diverse se quell’esperimento fosse riuscito e si fosse consolidato in un modello generale di relazioni industriali. In realtà rimase un modello isolato [20]
, non più ripetuto, e non esercitò alcuna influenza sull’evoluzione della teoria del contratto collettivo, ormai orientata verso un altro schema concettuale. Già nel 1904 la concezione originaria era stata superata dallo studio di Giuseppe Messina [21]
, tuttora fondamentale e ineguagliato per profondità di analisi dogmatica e fecondità di risultati, che introdusse in Italia, correggendola su certi punti e arricchendola con contributi originali su altri, la dottrina moderna del contratto collettivo elaborata in Germania da
{p. 252}Philipp Lotmar. Nel 1907, sempre nella «Rivista del diritto commerciale», questa dottrina era indicata come «naturalizzatasi italiana» [22]
.
Note
[1] Cfr. Messina, I concordati di tariffe nell’ordinamento giuridico del lavoro, in «Riv. dir. comm.», 1904, I, ora in Scritti giur., vol. IV, Milano, 1948, p. 29.
[2] Pret. Milano, 18 gennaio 1903, in «Mon. trib.», 1903, pp. 272 s.
[3] Collegio di Milano, ind. al., 13 novembre 1902, in «Mon. trib.», 1903, pp. 116 s.
[4] Cfr. Messina, op. cit., p. 43, nota 156.
[5] Collegio di Milano, ind. al., 28 febbraio 1901, in «Mon. trib.», 1901, p. 615.
[6] Collegio di Milano, ind. al., 20 giugno 1901, in «Mon. trib.», 1901, p. 616.
[7] Cfr. Redenti, Sulla funzione delle magistrature industriali (Introduzione al Massimario della giurisprudenza dei probiviri, Roma, 1906), ora in Scritti e discorsi di un mezzo secolo, vol. II, Milano 1962, pp. 638 s., testo e note 13 e 14.
[8] Cit. supra, nota 3. La derisione fu annullata dal Pretore di Milano, 15 dicembre 1902, in «Mon. trib.», 1903, p. 114.
[9] Cfr. ancora la decisione citata alla nota 3.
[10] Questa teoria ebbe qualche seguito anche nella magistratura ordinaria (cfr. Pret. Borgo San Donnino, 8 febbraio 1904, in «Mon. trib.», 1904, p. 494, confermata da Cass. Torino, 31 dicembre 1904, in Giur. it., 1905, I, 1, c. 387), e fu approvata da Messina, op. cit., pp. 50 s.
[11] Collegio di Milano, ind. al., 24 febbraio 1903, in «Mon. trib.», 1903, pp. 475 s.
[12] Collegio di Milano, ind. al., 6 febbraio 1901, in «Mon. trib.», 1901, p. 198, con nota critica anonima, attribuita al direttore della rivista avv. Porro da Lessona, La giurisprudenza dei probiviri rispetto al contratto collettivo di lavoro, in «Riv. dir. comm.», 1903, I, p. 224, che invece approva la decisione. Il Porro preferiva il primo indirizzo (cfr. «Mon. trib.», 1904, p. 494), cioè l’autointegrazione dell’ordinamento mediante operazioni logico-formali (anche se sforzate) all’eterointegrazione mediante lo strumento dell’equità. Troppo duro il giudizio di Romagnoli, Le origini del pensiero giuridico-sindacale in Italia, in Lavoratori e sindacati tra vecchio e nuovo diritto, Bologna, 1974, p. 129.
[13] Cfr. Flanders, The nature of Collective Bargaining, in Collective Bargaining, a cura del medesimo, London, 1971, pp. 11, 13.
[14] Ascoli, Sul contratto collettivo di lavoro, in «Riv. dir. comm.», 1903, I, p. 99.
[15] Cfr. Redenti, Contratto «cumulativo» di lavoro e licenziamento in «Riv. dir. comm.», 1907, II, p. 149.
[16] Cfr. App. Napoli, 7 agosto 1906, in «Riv. dir. comm.», 1907, II, p. 145.
[17] Nicotra, Il contratto collettivo di lavoro, Napoli, 1906, pp. 97 s., spec. p. 110.
[18] Cfr. Romagnoli, Le associazioni sindacali nel processo, Milano, 1969, pp. 16, 20; Le origini, cit., p. 146 (e v. Barassi, Il contratto di lavoro2, vol. II, Milano, 1917, p. 280, nota 4).
[19] Cfr. Spriano, Storia di Torino operaia e socialista, rist., Torino, 1972, pp. 136 s., 168. Il testo del contratto è riprodotto negli Allegati agli Aiti del Consiglio superiore del lavoro, IX sessione, 1907, p. 53 dell’estr. Cfr. le osservazioni di Messina, ivi, pp. 63 s.
[20] Cfr. Romagnoli, Le associazioni, cit., p. 18, nota 47.
[21] V. supra, nota 1.
[22] D’Amelio, Per un progetto di legge sul contratto di lavoro, in «Riv. dir. comm.», 1907, I, p. 236.