Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c9
L’indisponibilità di tutti gli strumenti giuridici necessari per completare la costruzione del contratto collettivo sarà un motivo di preoccupazione costante per la dottrina precorporativa, ripetutamente denunciato anche da Barassi
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. Tanto più che essa impediva, in definitiva, di svolgere coerentemente la premessa che inquadrava tipologicamente il contratto collettivo nella categoria dei contratti di scambio
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. Nei contratti sinallagmatici le promesse reciproche delle parti devono avere un contenuto diverso, che altrimenti non di contratto di scambio si tratterebbe, bensì di un accordo in cui le parti non sarebbero portatrici di interessi opposti, ma soltanto di valutazioni contrapposte di un unico interesse, l’interesse collettivo dei lavoratori
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. Posto invece che si tratta di contratto con obbligazioni corrispettive, la promessa di conformare i contratti individuali di lavoro alle condizioni fissate nel contratto collettivo ha senso soltanto da parte dei datori di lavoro, mentre una simile promessa è priva di significato pratico da parte dei lavoratori nel caso di contratto di impresa, e ne ha uno debolissimo nel caso di contratto stipulato con una associazione di imprenditori. Nel secondo caso l’impegno
¶{p. 262}assunto dai lavoratori verso il gruppo avversario di non accettare assunzioni individuali a condizioni inferiori alle tariffe aggiunge praticamente ben poco alla tutela dell’interesse degli imprenditori a limitare fra di loro la concorrenza, presidiato dalla responsabilità di ciascun associato verso gli altri.
La teoria del contratto collettivo è strettamente legata alla teoria delle associazioni sindacali. Nella dottrina precorporativa lo sviluppo della prima non è stato sorretto da uno sviluppo adeguato della seconda. La convinzione che il riconoscimento della personalità giuridica fosse il solo criterio di attribuzione ai gruppi di soggettività autonoma, e quindi una condizione imprescindibile della capacità delle associazioni sindacali di assumere una responsabilità in proprio per il mantenimento delle condizioni di lavoro concordate, consolidò l’accettazione acritica della teoria della rappresentanza appresa da Lotmar. Questa teoria non è idonea a tradurre sul piano degli effetti giuridici, dal lato della collettività dei lavoratori, la funzione sociale del contratto collettivo inteso come contratto di scambio. A tale funzione corrisponde non tanto la promessa dei lavoratori di non accettare condizioni di lavoro inferiori alle tariffe, quanto la promessa collettiva, garantita da un impegno diretto dell’associazione sindacale di non avanzare, appoggiandole con azioni di lotta, pretese di miglioramenti prima della scadenza del contratto.
Si produsse così nella dottrina italiana del contratto collettivo una lacuna analoga a quella rilevata dagli studiosi inglesi contemporanei nella concezione dei Webb: ossia la mancanza di un’analisi approfondita dell’interesse degli imprenditori nel contratto
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. Fu accentuato l’interesse alla limitazione della concorrenza, donde la frequente assimilazione del contratto collettivo alle clausole di non concorrenza
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, mentre si tratta di un interesse secondario, estraneo alla causa del contratto. Solo la dot¶{p. 263}trina tedesca, per merito di Sinzheimer, riuscì a qualificare il vero interesse dei datori di lavoro, che giustifica l’impegno da essi assunto circa le condizioni di impiego del lavoro e identifica il corrispettivo dovuto dalla controparte: cioè l’interesse alla stabilità del regolamento di lavoro concordato, e quindi all’affidabilità del contratto collettivo come base di programmazione dei costi di lavoro.
6. Cenni sul contratto collettivo nell’ordinamento sindacale-corporativo.
Il principio dell’efficacia generale del contratto collettivo e il principio dell’automaticità di tale efficacia sui rapporti individuali di lavoro furono sanciti l’uno dalla legge 3 aprile 1926, l’altro dal regolamento di esecuzione 1° luglio 1926. Ma il legislatore del 1926 era di una specie diversa da quello cui si rivolgeva nel 1907 il Messina, quando, in veste di membro autorevole del Consiglio superiore del lavoro, raccomandava il riconoscimento dell’autonomia collettiva privata «in una forma contrattuale – quella dei concordati di tariffe – ch’è largamente penetrata nella nostra pratica, e che ha il pregio di fondarsi ugualmente sul principio dell’individuale responsabilità e del reciproco ausilio nelle relazioni sociali, il che vale quanto dire sulle due forze perenni del progresso civile»
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. L’ordinamento sindacale-corporativo recide quasi completamente le radici del contratto collettivo nel diritto privato. Conferisce il monopolio della contrattazione collettiva alle associazioni sindacali riconosciute con decreto del potere esecutivo; ammette il riconoscimento di una sola associazione per ciascuna categoria di datori e di prestatori di lavoro; attribuisce alle associazioni riconosciute personalità giuridica di diritto pubblico, trasformandole in enti ausiliari dello Stato. Il contratto collettivo diventa la forma di esercizio, sotto il controllo dello Stato, di una pubblica potestà normativa e viene inserito nel sistema formale delle fonti dell’ordinamento giuridico statuale. Esso «vale come contratto solo per le associazioni che lo stipulano e fissano d’accordo norme ¶{p. 264}che debbono valere, non per esse ma per altri»
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. Per le associazioni professionali il contratto produce l’effetto, esplicitamente sancito dall’art. 55 del regolamento, di obbligarle reciprocamente a fare quanto è in loro potere per ottenerne l’osservanza dai singoli, compreso, nei confronti dei soci, l’uso del potere disciplinare, mentre il ripristino del divieto penale di serrata e di sciopero elimina in radice il problema del «dovere di pace».
Dal punto di vista della struttura della contrattazione collettiva, il periodo sindacale-corporativo è caratterizzato dall’accentramento della contrattazione al livello di categoria. La figura del contratto collettivo con efficacia limitata ad una o più determinate imprese, benché ammessa dalla legge, ebbe scarsa applicazione pratica, e comunque si trattava pur sempre di un contratto intersindacale, non di un contratto d’impresa in senso tecnico. Dal punto di vista della politica contrattuale, il contratto collettivo non fu riconosciuto come strumento di una politica sindacale di minimi salariali, ma assunse piuttosto, secondo l’interpretazione dell’art. 54 del regolamento 1˚ luglio 1926 prevalsa nella giurisprudenza e poi sancita dal nuovo codice civile, la funzione di assicurare l’uniformità delle condizioni di lavoro. Clausole individuali più favorevoli al prestatore di lavoro erano consentite solo se giustificate da speciali qualità personali, tali da permettere che il lavoratore non fosse eguagliato al tipo medio della categoria professionale cui apparteneva.
7. La dottrina postcorporativa.
Dopo la soppressione delle associazioni sindacali legittimate a stipulare contratti collettivi del tipo previsto dal codice civile, l’attenzione della dottrina si concentrò principalmente su due problemi: il problema dell’efficacia dei contratti collettivi «di diritto comune», stipulati dalle nuove associazioni sindacali democratiche, e il problema circa la natura della nuova figura di contratto collettivo con efficacia erga omnes,
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delineata dall’art. 39, ult. comma, della Costituzione repubblicana. L’interesse per il secondo problema andò rapidamente affievolendosi in proporzione agli indici sempre più evidenti di indisponibilità delle condizioni politico-sindacali necessarie per l’attuazione della norma costituzionale, e si è estinto dopo la svolta del 1962, che segnò la fine del sistema centralizzato di contrattazione collettiva e, con esso, il declino dell’aspirazione dei sindacati all’efficacia erga omnes dei contratti collettivi
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. Predominante, fino alle soglie degli anni Settanta, rimase il problema dei rapporti tra regolamento collettivo e contratti individuali di lavoro. Ma negli ultimi anni Cinquanta l’interesse della dottrina si estese alla «parte obbligatoria» del contratto, e in particolare alle clausole di amministrazione sindacale, la diffusione delle quali segnò un primo passaggio dal tradizionale modello statico a un modello dinamico o istituzionale di contrattazione collettiva. Più tardi, l’introduzione della contrattazione articolata, fondata su una clausola di tregua correlativa a clausole di rinvio di determinati argomenti dal contratto nazionale a livelli contrattuali inferiori, indusse la dottrina italiana ad affrontare per la prima volta in modo organico il tema dell’obbligo di pace, sebbene con esiti non del tutto soddisfacenti. La contrattazione decentrata sollecitò anche un altro ordine di problemi concernente il collegamento funzionale tra contratto nazionale e contratti di settore o aziendali. Ma qui fu profuso un impegno dogmatico sproporzionato all’importanza pratica del tema, per la verità abbastanza scarsa, e anche sfortunato, visto che quei problemi giacciono sepolti da tempo sotto le rovine della contrattazione articolata
[65]
.
Dopo la «grande svolta» degli anni 1969-’70 lo studio giuridico del contratto collettivo col metodo sistema¶{p. 266}tico si è notevolmente allentato. Sono stati bensì pubblicati, anche nel 1971 e 1972, alcuni contributi importanti
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, i quali dimostrano che l’indagine della struttura normativa del contratto non ha ancora raggiunto risultati definitivi. Ma una parte cospicua della dottrina del diritto sindacale ha preferito abbandonare i problemi formali per trasferire l’attenzione dal contratto collettivo alla contrattazione collettiva, intesa come metodo di sviluppo delle relazioni industriali in un contesto di conflittualità permanente nei rapporti di fabbrica. Il dato fenomenologico caratteristico dei primi anni di questo decennio è la «processualizzazione» della contrattazione collettiva, la quale si sviluppa a vari livelli (nazionale, aziendale e infra-aziendale) non integrati fra di loro da criteri normativi di coordinazione
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. La mancanza di istituzionalizzazione, in ordine alle competenze e alle procedure, è il tratto distintivo sia dal modello precedente della contrattazione articolata, sia dal modello anglosassone della negoziazione continua, presente in una certa misura e in forme diverse anche in Germania. La causa di tale processualizzazione, e insieme della difficoltà di un controllo istituzionale di essa, risiede nel nuovo tipo di rivendicazioni «qualitative» emerse dal movimento spontaneo dei lavoratori nei luoghi di lavoro, dove operano le condizioni di formazione della classe lavoratrice, e tendenti a modificare l’organizzazione tecnica e disciplinare del lavoro nelle imprese.
Il nuovo indirizzo dottrinale, che ha eletto ad oggetto primario di studio questa struttura contrattuale «estremamente instabile e precaria»
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, i suoi metodi e i suoi contenuti, l’interazione tra «movimento» e sindacato, le strategie di lotta e infine la riqualificazione politico-organizzativa del sindacato che ne è risultata, ha indubbia
¶{p. 267}mente contribuito ad arricchire culturalmente la scienza del diritto del lavoro, fornendole materiali interpretativi più vasti e aggiornati, e aprendola ad una maggiore comprensione della condizione umana nel processo produttivo: comprensione indispensabile per conservare il titolo che solo giustifica la scienza giuridica, come ogni altra scienza, cioè l’essere al servizio della nostra vita, della vita di tutti i membri del consorzio civile. Ma questo indirizzo, in cui predomina il momento politico-sociologico, comporta anche il rischio che il giurista smarrisca il suo ruolo essenziale di mediatore tra la norma e la realtà, più precisamente tra il sistema normativo e il conflitto sociale, e ceda alla suggestione della forza normativa dei fatti
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. Il rischio può essere evitato solo se il pensiero problematico, cioè il pensiero che vuole mantenersi in contatto con i problemi che la vita del diritto, immersa nel movimento della storia, continuamente propone, non si disgiunga dalla riflessione sistematica. Solo in una prospettiva sistematica, e certo non di un sistema chiuso, precostituito e rigidamente formalizzato, ma aperto alla logica del ragionevole e alla possibilità di soluzioni alternative, è possibile cogliere il significato normativo dei fatti nella totalità dell’esperienza giuridica, in modo da garantirne la non contraddittorietà; è possibile, insomma, far valere contro la tendenza individualizzante della politica del diritto la regola del diritto.
Note
[58] Cfr. Messina, Concordati di tariffe, cit., pp. 36 s.; Per il regolamento legislativo, in Atti, cit., p. 7; Barassi, Contratto di lavoro2, vol. II, pp. 131, 281.
[59] Cfr. Ascarelli, Sul contratto collettivo di lavoro, in «Arch. giur.», 1928, ora in Studi in tema di contratti, Milano, 1952, p. 112, nota 37.
[60] Cfr. Flanders, op. cit., p. 13.
[61] Cfr. Messina, Concordati di tariffe, cit., p. 37.
[63] Romano (Santi), Contratti collettivi di lavoro e norme giuridiche, in «Arch. studi corp.», 1930, p. 37.
[64] Cfr. Mancini, Libertà sindacale e contratto collettivo «erga omnes», in «Riv trim. dir. e proc. civ.», 1963, pp. 570 s., spec. 593.
[65] La letteratura sui temi ricordati nel testo è sterminata. Cfr. le indicazioni bibliografiche in appendice al volume di saggi Il diritto sindacale, a cura di Mancini e Romagnoli, Bologna, 1971, parr. 7, 9, 10, 11 (pp. 510 s.).
[66] Scognamiglio, Autonomia collettiva ed efficacia del contratto collettivo di lavoro, in «Riv. dir. civ.», 1971, I, pp. 140 s.; Persiani, Saggio sull’autonomia privata collettiva, Padova, 1972.
[67] Cfr. Ghera, Linee di tendenza della contrattazione sindacale 1968-1971, in «Rass. sind.», 1971, n. 35, pp. 67 s.
[68] Giugni, Le tendenze evolutive della contrattazione collettiva in Italia, in Il sindacato fra contratti e riforme, Bari, 1973, p. 95.
[69] Coloro che non si inchinano a tale forza sono irrisi dal Corriere della Sera, 7 febbraio 1975, p. 7, come giuristi che pretendono «di mettere le manette alla storia». Questa è davvero un’epoca infestata dai «mêtis», di cui parla Montaigne, I, 54.