Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c9
Nella dottrina e nella giurisprudenza ordinaria l’acquisizione del concetto moderno di contratto collettivo non {p. 250}fu così immediata. Nel primo studio ad esso dedicato dalla scienza giuridica accademica fu proposta, in polemica con la giurisprudenza dei probiviri, la concezione primitiva a quell’epoca ancora dominante in Inghilterra e in Francia, designata nella letteratura inglese moderna come la concezione «classica» dei coniugi Webb. Alla stregua di tale concezione, per cui «la contrattazione collettiva era esattamente ciò che significano le parole: un equivalente collettivo e alternativo alla contrattazione individuale» [13]
, l’Ascoli definiva il contratto collettivo come «il contratto di tutti i singoli soci, la cui opera o sulla mercede dei quali si pattuisce» [14]
, cioè un contratto cumulativo [15]
di tante locazioni d’opera quante sono le coppie di individui rappresentati dalle associazioni stipulanti. In alternativa a questa teoria atomistica, che risolveva il contratto collettivo in un fascio di contratti individuali di lavoro, stipulati uno actu in esito a un’unica trattativa, ma giuridicamente distinti, furono successivamente proposte due teorie che, senza abbandonare l’identificazione col contratto di lavoro in senso tecnico, si sforzavano di attribuire rilevanza giuridica al momento collettivo da cui il fenomeno studiato è qualificato. Il contratto collettivo fu teorizzato o come un «contratto complesso» produttivo a carico dei lavoratori coalizzati di obbligazioni di lavoro coordinate al fine unitario dell’impresa da un comune regime contrattuale, e quindi fra loro legate da un vincolo funzionale di interdipendenza [16]
; oppure, più radicalmente, come un unico contratto di lavoro produttivo per i lavoratori di un’unica obbligazione di natura collettiva [17]
. Matrici di simili teorie, elaborate con riguardo all’ipotesi, allora {p. 251}prevalente, del contratto aziendale, sono chiaramente la forma originaria del contratto di cottimo collettivo e anche l’originaria connessione del movimento associazionistico dei lavoratori col movimento cooperativo [18]
. Esse trovarono una vistosa, seppure parziale, applicazione nel celebre contratto collettivo stipulato il 27 settembre 1906 dalla Fiom con la società automobilistica Itala di Torino [19]
. I lavoratori organizzati nella Fiom di Torino, e da questa rappresentati in veste di agenzia di collocamento, si obbligavano a prestare il loro lavoro nella misura occorrente ai bisogni dell’azienda, alle condizioni definite nel contratto e stabilizzate per un triennio da una clausola di tregua assoluta (con la sola eccezione dello sciopero generale politico), in cambio della quale la Fiom ottenne una clausola di esclusiva in tutto simile, sotto il profilo sindacale, alle clausole di union shop della prassi anglosassone. Fu un tentativo di avviare il movimento sindacale italiano sui binari del trade-unionismo inglese, ma sarebbe futile attardarsi sul quesito se le sorti del nostro paese sarebbero state diverse se quell’esperimento fosse riuscito e si fosse consolidato in un modello generale di relazioni industriali. In realtà rimase un modello isolato [20]
, non più ripetuto, e non esercitò alcuna influenza sull’evoluzione della teoria del contratto collettivo, ormai orientata verso un altro schema concettuale. Già nel 1904 la concezione originaria era stata superata dallo studio di Giuseppe Messina [21]
, tuttora fondamentale e ineguagliato per profondità di analisi dogmatica e fecondità di risultati, che introdusse in Italia, correggendola su certi punti e arricchendola con contributi originali su altri, la dottrina moderna del contratto collettivo elaborata in Germania da
{p. 252}Philipp Lotmar. Nel 1907, sempre nella «Rivista del diritto commerciale», questa dottrina era indicata come «naturalizzatasi italiana» [22]
.

2. Il problema dell’efficacia automatica.

Preoccupato degli equivoci terminologici generati dalla nomenclatura impropria tratta dal linguaggio anglo-francese, il Messina propose l’adozione del termine, tradotto dal linguaggio tedesco, di contratto o concordato di tariffa. Ma anche questa terminologia, oltre che inelegante, è inadeguata perché non rappresenta l’intero contenuto del contratto. E improprio è pure il termine «contratto normativo di lavoro» coniato nel 1907 da Sinzheimer, perché si tratta di una figura diversa dalla categoria civilistica del contratto normativo. I tedeschi continuarono a parlare di contratto di tariffa e gli italiani di contratto collettivo di lavoro, ma ormai consapevoli che esso doveva essere tenuto concettualmente distinto dal contratto di lavoro. Il contratto collettivo ha una funzione regolatrice del mercato di lavoro, ma non è, esso stesso, un fenomeno di contrattazione di mercato, né ha alcuna somiglianza con l’attività di mercato. Esso non attua uno scambio di promesse di lavoro contro promesse di retribuzione, non produce diritti e obblighi attuali dei datori e dei lavoratori in ordine a prestazioni di lavoro, ma piuttosto prepara le condizioni di scambi futuri [23]
. Secondo la formula originaria, che pesa tuttora sulla concezione dogmatica, il contratto collettivo predetermina il contenuto di una classe aperta di futuri contratti individuali, costitutivi di nuovi rapporti di lavoro o modificativi dei rapporti in corso al momento della stipulazione. A parte l’improprietà tecnico-giuridica, questa formula indica chiaramente che la contrattazione collettiva, nella sua essenza ori{p. 253}ginaria, è un’istituzione politica, cioè un metodo di formazione di norme, di regole di condotta [24]
.
Cardini della dottrina di Lotmar [25]
sono, dal punto di vista delle parti del contratto, la teoria della rappresentanza, dal punto di vista dell’efficacia, il principio dell’inderogabilità, inteso nel senso pregnante di efficacia automatica sui contratti individuali di lavoro [26]
. I due principi non sono omogenei. Se il contratto collettivo è stipulato dall’associazione sindacale dei lavoratori in nome dei singoli associati, il limite che ne deriva al potere individuale di determinazione del contenuto dei rapporti di lavoro non può essere che di natura obbligatoria. La categoria giuridica del mandato collettivo è idonea a qualificare come «collettivo» soltanto l’interesse dei mandanti in quanto tali, così che nella stipulazione essi sono rappresentati non uti singuli, ma uti socii; non è, invece, uno strumento idoneo per conservare la relazione di solidarietà tra gli interessi dei mandanti anche nel momento successivo della formazione dei contratti individuali di lavoro. Qui ciascuna coppia è libera di sciogliersi, per mutuo dissenso, dall’obbligo reciproco di conformare il contenuto del contratto alle clausole del contratto collettivo. La teoria della rappresentanza, per quanto appoggiata al concetto di mandato collettivo, ha una natura irriducibilmente individualistica, e perciò non è in grado di spiegare la regola dell’efficacia automatica. Quando, a sostegno di tale regola, il Lotmar osserva che le parti del contratto di lavoro e le parti del contratto di tariffa non sono identiche, l’uno essendo stipulato con un singolo lavoratore, l’altro con una collettività, e ne argomenta che i singoli sono privi del potere di disporre di ciò di cui ha già di{p. 254}sposto la collettività [27]
, egli non applica la teoria della rappresentanza, ma al contrario se ne allontana aprendo la strada alla teoria «corporativa» o «organica» [28]
, successivamente prevalsa nella dottrina germanica, soprattutto dopo l’ordinanza del 23 dicembre 1918. Del resto, nemmeno la teoria di Sinzheimer era in grado di fondare positivamente il principio della sostituzione automatica [29]
: essa ne predisponeva soltanto la giustificazione dogmatica. Per fondare questo principio nel diritto positivo occorre una apposita norma di legge, la quale deroghi alle regole del diritto comune [30]
; e una norma del genere mancava sia nella Germania preweimariana, sia nell’ordinamento italiano precorporativo.
Certo la dottrina era convinta che su questo punto si giocava la sorte del contratto collettivo [31]
. Commentando criticamente il progetto di legge governativo 26 novembre 1902 sul contratto di lavoro, Messina osservava che «la possibilità, esistente in diritto attuale, di concludere validamente un contratto di lavoro difforme dalle tariffe da cui le parti sono legate, è tale un inconveniente da minacciare nel suo sviluppo vitale il contratto collettivo» [32]
; «se si vorrà dare un largo sviluppo ai concordati collettivi – ribadiva Barassi nel 1915 – bisognerà necessariamente arrivare all’automaticità del loro effetto» [33]
. Ma il legislatore di quel tempo, legato all’ideologia dello Stato liberale, che distingueva nettamente la sfera politica dalla sfera sociale, non era ancora disposto a riconoscere al contratto collettivo un’efficacia analoga a quella della legge, cioè a riconoscere a gruppi privati, che nascono e vivono nella {p. 255}società civile, una competenza normativa concorrente con quella dello Stato. Questo atteggiamento non mutò neppure nel dopoguerra, quando la classe politica avvertì, troppo tardi, l’urgenza di una legislazione sindacale. Nel r.d. 29 ottobre 1922, n. 1529, sulla registrazione delle associazioni professionali, il riconoscimento dei sindacati era coordinato con le leggi giolittiane che ne promuovevano la partecipazione a funzioni pubbliche operanti nel settore dell’azione sociale dello Stato, mentre non era prevista una normativa promozionale e di sostegno della contrattazione collettiva.

3. La struttura del contratto collettivo e gli effetti obbligatori a livello di rapporti tra i gruppi nella dottrina di G. Messina.

Poiché lo strumento giuridico di realizzazione dell’interesse collettivo sottostante al contratto non poteva essere identificato nella prevalenza automatica sugli atti difformi di autonomia individuale [34]
, e d’altra parte attribuire al contratto collettivo unicamente effetti obbligatori fra i datori e i prestatori di lavoro singolarmente considerati avrebbe significato il diniego di qualsiasi rilevanza al «collettivo», frantumando il contratto in una serie di patti individuali soggetti alla regola del mutuo dissenso, la dottrina italiana portò l’attenzione su un problema che Lotmar aveva lasciato in ombra: il problema della struttura giuridica della manifestazione di volontà da parte dei lavoratori, ovvero da entrambe le parti nel caso di contratto interassociativo [35]
. Indagando in questa direzione, Messina colse il criterio di qualificazione giuridica dell’interesse collettivo nell’accordo interno del gruppo, nel quale individuò un presupposto concettualmente necessario del contratto collettivo, simbolizzato {p. 256}dalla denominazione di «concordato» [36]
. Tale accordo non solo produce tra i membri del gruppo l’obbligo reciproco di rispettare le tariffe concordate, ma si proietta nella struttura del contratto determinando «la riduzione della pluralità dei membri di una parte contraente ad un unico paciscente» [37]
.
La costruzione del contratto collettivo «come un contratto unico e non come una serie di singoli contratti (tanti quanti sono le coppie stipulanti), contestualmente uniti» [38]
, fu utilizzata per attribuire al contratto collettivo almeno un effetto obbligatorio, per il datore di lavoro, che non potesse essere eliminato mediante il consenso dei singoli lavoratori, e quindi per individuare nella conclusione di un contratto individuale difforme una violazione del contratto collettivo giuridicamente sanzionata. Poiché i lavoratori rappresentati dall’associazione stipulante formano un’unica parte, destinataria di un’unica promessa che vincola la controparte nei confronti del gruppo, la successiva stipulazione con un membro del gruppo di un contratto individuale difforme integra un titolo di responsabilità verso gli altri membri, ciascuno dei quali potrà farla valere per la sua quota [39]
.
In tal modo, senza abbandonare la teoria della rappresentanza, il nostro giurista riesce a identificare una sanzione giuridica del contratto collettivo alternativa all’efficacia automatica, certo assai meno energica perché di natura obbligatoria [40]
, ma la sola consentita dall’ordinamento positivo del suo tempo, e comunque sufficiente per qualificare il contratto collettivo come contratto in senso tecnico.
{p. 257}
Note
[13] Cfr. Flanders, The nature of Collective Bargaining, in Collective Bargaining, a cura del medesimo, London, 1971, pp. 11, 13.
[14] Ascoli, Sul contratto collettivo di lavoro, in «Riv. dir. comm.», 1903, I, p. 99.
[15] Cfr. Redenti, Contratto «cumulativo» di lavoro e licenziamento in «Riv. dir. comm.», 1907, II, p. 149.
[16] Cfr. App. Napoli, 7 agosto 1906, in «Riv. dir. comm.», 1907, II, p. 145.
[17] Nicotra, Il contratto collettivo di lavoro, Napoli, 1906, pp. 97 s., spec. p. 110.
[18] Cfr. Romagnoli, Le associazioni sindacali nel processo, Milano, 1969, pp. 16, 20; Le origini, cit., p. 146 (e v. Barassi, Il contratto di lavoro2, vol. II, Milano, 1917, p. 280, nota 4).
[19] Cfr. Spriano, Storia di Torino operaia e socialista, rist., Torino, 1972, pp. 136 s., 168. Il testo del contratto è riprodotto negli Allegati agli Aiti del Consiglio superiore del lavoro, IX sessione, 1907, p. 53 dell’estr. Cfr. le osservazioni di Messina, ivi, pp. 63 s.
[20] Cfr. Romagnoli, Le associazioni, cit., p. 18, nota 47.
[21] V. supra, nota 1.
[22] D’Amelio, Per un progetto di legge sul contratto di lavoro, in «Riv. dir. comm.», 1907, I, p. 236.
[23] Per sottolineare questa funzione preparatoria Barassi, op. cit., vol. II, pp. 279, 281, propose il termine «concordato preliminare di lavoro», che aveva però il difetto di richiamare il concetto, affatto estraneo, di contratto preliminare (cfr. Messina, I concordati di tariffe, cit., p. 52).
[24] Cfr. Messina, Per il regolamento legislativo dei concordati di tariffe, in Atti del Consiglio superiore del lavoro, cit., p. 4 (estr.); I contratti collettivi di lavoro e la personalità giuridica delle associazioni professionali, ivi, pp. 65 s.
[25] Der Arbeitsvertrag nach dem Privatrecht des deutschen Reiches, vol. I, Leipzig, 1902, pp. 755 s.
[26] Cfr. Sinzheimer, Der korporative Arbeitsnormenvertrag, vol. I, Leipzig, 1907, p. 75.
[27] Lotmar, op. cit., p. 782.
[28] Elaborata nel 1907 da Sinzheimer, op. cit., pp. 75 s.
[29] Cfr. Sinzheimer, op. cit., vol. II, Leipzig, 1908, pp. 54 s.
[30] Cfr. Carnelutti, Teoria del regolamento collettivo dei rapporti di lavoro, Padova, 1928, p. 51.
[31] Di «Schicksalsfrage» parlava Sinzheimer, op. cit., vol. II, p. 66.
[32] I «contratti collettivi» ed il disegno di legge sul contratto di lavoro (relazione preliminare al Consiglio superiore del Lavoro, presentata nel 1905), in Scritti giur., cit., vol. IV, p. 72.
[33] Barassi. Contratto di lavoro2, cit., vol. II, p. 317, nota 3; v. pure Carnelutti, Sul contratto di lavoro relativo ai pubblici servizi assunti da imprese private, in «Riv. dir. comm.», 1909, I, p. 427.
[34] Cfr. Messina, Concordati di tariffe, cit., pp. 42 s. Cfr. pure I contratti collettivi di lavoro e la personalità giuridica delle associazioni professionali, cit., p. 67 (estr.), dove precisa che l’inderogabilità non può ricongiungersi se non alla «configurazione pubblicistica del concordato di tariffa», mentre «nel diritto vigente, pel quale non si può parlare che della struttura privatistica della nostra figura, quell’effetto non è conseguibile».
[35] Cfr. Messina, I «contratti collettivi», cit., p. 67, testo e nota 7.
[36] Messina, Concordati di tariffe, cit., p. 41, nota 146.
[37] Ibidem, pp. 40 s. Contra Barassi, Contratto di lavoro1, vol. I, p. 98.
[38] Messina, I «contratti collettivi», cit., p. 67.
[39] Messina, Concordati di tariffe, cit., p. 43.
[40] Lo stesso Messina, ibidem, p. 44, non si faceva illusioni. L’inadeguatezza della sanzione meramente obbligatoria rispetto alla funzione sociale del contratto collettivo è sottolineata dalla definzione del contratto collettivo nell’ordinamento precorporativo come «contratto collettivo improprio», proposta da Carnelutti, Teoria del regolamento collettivo, cit., pp. 53 s.