Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c11

XI Gruppi organizzati e mediazione dei conflitti
Da «Stato e senso dello Stato oggi in Italia», Atti del LI Corso di aggiornamento culturale dell’università Cattolica, Milano, 1981, pp. 159-177

1. Definizione dei gruppi di interesse.

Ai fini di questo studio il termine «gruppo organizzato» è inteso come sinonimo di «gruppo di interesse» in senso stretto, secondo un concetto che distingue i gruppi di interesse dai semplici gruppi di discussione (o gruppi promozionali) da un lato, e dai partiti politici dall’altro. In questo senso le formazioni sociali oggetto del nostro studio sono definite da due connotazioni: la specificità o settorialità degli interessi di cui sono espressione; la capacità di generare conflitti intorno a tali interessi.
I gruppi di interesse sono organizzazioni di persone, di regola, ma non necessariamente, nella forma dell’associazione, per la tutela di interessi particolari, interpretabili come bisogni specifici di una categoria o classe sociale, che costituisce il «campo di reclutamento» del gruppo. Essi possono anche avere una propria visione dell’interesse generale, ma – a differenza dai partiti – una visione costruita pur sempre dal punto di vista di un interesse particolare [1]
.
I gruppi di interesse sono qualificati dalla capacità di generare conflitti, in quanto sono in grado di rifiutare collettivamente prestazioni o, più in generale, risorse essenziali per il processo di valorizzazione del capitale produttivo o della forza lavoro [2]
. Pertanto i gruppi di cui parliamo si identificano precipuamente nelle organizzazioni {p. 308}sindacali dei lavoratori e degli imprenditori, nelle imprese e nei gruppi di imprese. Nelle società pluralistiche degli stati industriali avanzati la capacità conflittuale si esercita, salvi casi eccezionali, soltanto nei rapporti con i gruppi antagonistici, mentre nei rapporti con le istituzioni politiche i gruppi di interesse si comportano non tanto come gruppi di conflitto, quanto come gruppi di pressione. Nel decennio scorso la condotta dei nostri sindacati dei lavoratori si è scostata da questo modello, ma in ogni caso la differenza nei confronti dei partiti politici rimane ben precisa. Mentre l’azione dei partiti mira a conquistare e a gestire il potere politico, l’azione dei gruppi di interesse mira a influire sulle decisioni del potere politico senza appropriarsene [3]
. Sotto questo profilo il pluralismo sociale si definisce come il potere dei gruppi organizzati sulla formazione della volontà dello Stato [4]
. Per il tramite dei gruppi «gli interessi contrastanti delle forze sociali si convertono in dinamica politica e si ripercuotono nella propria sfera attraverso la mediazione dell’interventismo statale» [5]
.

2. Il pluralismo conflittuale. Condizioni di funzionamento del modello.

Il modello pluralistico non è soltanto descrittivo, è anche valutativo, implica un giudizio di valore. Esso riconosce che il conflitto è una caratteristica essenziale della struttura e dei processi della società [6]
e gli attribuisce un valore di segno positivo istituzionalizzandolo come mezzo di integrazione e in pari tempo di progresso del sistema sociale. Ma il conflitto può adempiere la duplice funzione di stabilizzazione e insieme di innovazione del sistema solo in presenza di alcune condizioni.{p. 309}
In primo luogo il conflitto non deve essere così radicale da produrre una crisi di integrazione sistemica, e perciò da non poter essere risolto se non mediante un mutamento di identità del sistema [7]
. Requisito minimo affinché una società pluralistica possa passabilmente funzionare è il consenso di tutte le forze sociali su alcuni valori di fondo, e anzitutto l’accettazione senza riserve appunto del metodo pluralistico. Questo metodo postula da parte dei gruppi antagonistici il mutuo riconoscimento della reciproca legittimità [8]
, e quindi le pretese fatte valere mediante il conflitto devono essere negoziabili. Tali sono soltanto le rivendicazioni aperte al compromesso in termini compatibili col sistema economico-produttivo. La questione dei limiti del pluralismo è decisiva e deve trovare risposta in adeguati strumenti istituzionali di formazione del consenso. Altrimenti il pluralismo minaccia continuamente di sconfinare nell’anarchia.
In secondo luogo il conflitto non deve degenerare in uno scontro permanente e nell’uso esasperato dei mezzi di lotta tipici dei gruppi organizzati, in particolare dello sciopero che, in una società sempre più complessa e interdipendente come l’attuale, ha acquistato una potenzialità di danno smisurata. Il conflitto deve sviluppare la propria forza di mutamento con gradualità, in guisa da rendere possibile l’alternarsi nel processo sociale di periodi di tregua e di collaborazione. Questa condizione presuppone una forte disciplina dei gruppi sorretta da un controllo costante della base da parte dei vertici delle associazioni.
In terzo luogo lo stato deve possedere un grado sufficiente di legittimazione e di forza politica per adempiere due compiti fondamentali: da un lato, come stato-ordinamento, il compito di fissare norme sostanziali e procedure per regolare il conflitto e controllare l’esercizio del potere sociale dei gruppi al fine di garantire tutte le li{p. 310}bertà individuali; dall’altro, come stato-governo, il compito di un intervento diretto nella sfera sociale con funzioni sia di mediazione del conflitto, sia di propulsione e di coordinamento dell’attività dei gruppi verso obiettivi di interesse generale.

3. Incoerenze, rispetto al modello, della normativa costituzionale: a) attribuzione del diritto di sciopero ai singoli lavoratori.

Con le condizioni ora brevemente indicate la normativa costituzionale non è pienamente coerente. Un primo momento di ambiguità emerge dalla sanzione del diritto di sciopero in una norma formalmente separata da quella che garantisce la libertà di organizzazione sindacale. È probabile che i costituenti, o almeno la maggioranza di essi non legata a ideologie rivoluzionarie, avessero dello sciopero la concezione tradizionale tramandata dal pensiero liberale anglosassone, e quindi considerassero il diritto di sciopero come uno strumento complementare della contrattazione collettiva garantita dall’art. 39. Un indizio in questo senso già si può cogliere nel fatto che l’art. 40 non si preoccupa di precisare la titolarità del diritto di sciopero, il che lascia presumere che i suoi autori sottintendessero il medesimo soggetto al quale si riferisce il discorso dell’articolo precedente, cioè le associazioni sindacali. Ma soprattutto si deve ricordare che in questo senso l’art. 40 fu interpretato da uno dei membri più autorevoli dell’Assemblea costituente e fra i massimi giuristi di allora, Piero Calamandrei, in un articolo pubblicato nel 1952 e rimasto altrettanto celebre quanto privo di seguito [9]
. Secondo l’analisi della norma elaborata da Calamandrei, il diritto di sciopero, inteso come diritto di sospendere i rapporti di lavoro a scopo di lotta, appartiene alle associazioni sindacali, mentre ai singoli lavoratori appartiene soltanto il diritto di aderire o no allo sciopero proclamato dal sindacato. Invece, la dottrina giuridica prevalente e la giurisprudenza hanno interpretato l’autonomia {p. 311}formale dell’art. 40 come indice di autonomia sostanziale del diritto di sciopero rispetto al diritto di associazione sindacale, con la conseguenza che il primo è stato configurato non come diritto sindacale, ma come diritto individuale di libertà garantito ai singoli lavoratori, perciò non soggetto a vincoli di disciplina sindacale e legittimamente esercitabile anche da coalizioni occasionali e irresponsabili. In tal modo il diritto di sciopero è stato estrapolato dai nessi funzionali e dai limiti di titolarità e di esercizio entro i quali dovrebbe operare secondo il disegno complessivo dei costituenti, ed è stato per così dire assolutizzato. Questo risultato ermeneutico, elaborato senza piena coscienza della sua portata politico-sindacale, ha preparato una base di legittimazione costituzionale, o almeno un terreno di neutralità costituzionale, per il nuovo corso normativo inaugurato dalla legge 20 maggio 1970, n. 300, che ha adottato un modulo di relazioni industriali puramente conflittuale puntellato da un complesso di norme, dette promozionali o di sostegno, che hanno favorito la formazione di gruppi di conflitto anche all’interno delle fabbriche. Inoltre l’interpretazione prevalsa dell’art. 40 ha messo in moto un processo di erosione, ad opera della giurisprudenza, dei limiti del diritto di sciopero in ordine allo scopo, culminato nel riconoscimento di liceità anche dello sciopero politico sancito dalla sentenza 27 dicembre 1974, n. 290 della Corte costituzionale, in sintonia col ritorno nell’ideologia del movimento sindacale del mito soreliano che celebra lo sciopero come una sorta di secolarizzazione dell’escatologia cristiana.

4. b) Difetto di coordinamento dell’autonomia collettiva con la funzione pubblica della programmazione economica.

Sotto un altro aspetto la messa a punto del modello pluralistico nella Costituzione del 1947 si è rivelata difettosa.
Lo stato sociale contemporaneo «fonda la sua legittimazione sul postulato della partecipazione universale al processo di formazione della volontà politica e su quello della possibilità – indipendentemente dall’appartenenza a
{p. 312}una determinata classe – di usufruire delle prestazioni dello stato e dei suoi interventi regolativi» [10]
. L’intervento pubblico nella sfera sociale provoca una ripoliticizzazione della società attraverso la coagulazione degli interessi in gruppi organizzati, i quali diventano di fatto centri di potere politico, sia inserendosi immediatamente e autonomamente nei processi di formazione della volontà dello stato, sia sostituendosi al potere statale nell’adempimento di certi compiti [11]
. Per esempio, sulla base dell’art. 39 Cost., valutato come una delle applicazioni fondamentali della concezione pluralistica nella Costituzione, il centro di gravità dell’azione di tutela del lavoro si è spostato dalla sfera politica, cioè della legislazione, nella sfera sociale, cioè della contrattazione collettiva. Ciò significa che le associazioni sindacali, regolate dal diritto privato e formalmente operanti con mezzi di diritto privato, hanno assunto sul piano politico-costituzionale una competenza concorrente con quella dello stato per determinare lo sviluppo dell’assetto globale dei rapporti economico-sociali.
Note
[1] Hirsch-Weber, Politik als Interessenkonflikt, Stuttgart, 1969, pp. 152 ss., 210 s.
[2] Offe, Lo Stato nel capitalismo maturo, Milano, 1977, pp. 44 ss.
[3] Cfr., da ultimo, Fisichella, Gruppi di interesse e gruppi di pressione nella democrazia moderna, in «Riv. it. sc. pol.», 1980, pp. 62 ss.
[4] Questa definizione risale a C. Schmitt, Der Hüter der Verfassung, Tübingen, 1931, p. 71.
[5] Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Bari, 1977, p. 179.
[6] Dahrendorf, Classi e conflitto di classe nella società industriale, Bari, 1970, p. 326.
[7] Per questo concetto v. Habermas, La crisi di razionalità nel capitalismo maturo, Bari, 1976, pp. 5 ss.
[8] Cfr. Wolff, Al di là della tolleranza, in Wolff e altri, Critica della tolleranza, Torino, 1965, p. 27.
[9] Calamandrei, Significato costituzionale del diritto di sciopero, in «Riv. giur. lav.», 1952, I, pp. 221 ss.
[10] Offe, Lo Stato nel capitalismo maturo, cit., p. 40.
[11] Cfr. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, cit., p. 172.