«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c4
I collaboratori dell’ISR non erano
gli unici a leggere le iniziative colonialiste del fascismo alla luce della storia
romana, promuovendo illegittime sovrapposizioni fra antico e nuovo impero. Il filologo
Nicola Festa tradusse in latino i discorsi mussoliniani relativi alla fondazione dell’impero
[58]
e lo storico Ettore Pais, in seguito all’annessione dell’Etiopia, avrebbe
voluto proporre al Senato la restaurazione del «rito classico del trionfo» facendo
sfilare per le strade della capitale il bottino conquistato e i nemici soggiogati
[59]
.
¶{p. 176}
Se gli studiosi italiani erano più
facilmente acquiescenti, è il caso di chiedersi, anche alla luce delle critiche svolte
da Syme, quale fosse lo sguardo rivolto dagli stranieri a questo culto della romanità e
alle sue declinazioni imperialiste. Un caso particolare, in tale contesto, è
rappresentato dagli allievi della École Française de Rome, giovani brillanti che avevano
l’occasione di soggiornare per più anni nella prestigiosa sede di Palazzo Farnese al
fine di portare avanti le loro ricerche sulla storia romana e italiana. Si tratta di
persone che conoscono bene la lingua italiana e guardano con attenzione all’attualità
politica di un paese che in quegli anni sperimenta un modello governativo considerato
innovativo e guardato con simpatia da alcuni gruppi politici francesi
[60]
.
Fra i più attenti osservatori della
politica coloniale in tale ambiente vi fu Henri-Irénée Marrou (1904-1977), storico di
Roma antica e membro di organizzazioni politiche di stampo cattolico, che, fra il 1930 e
il 1937, visse ininterrottamente in Italia, prima a Roma e poi a Napoli, per lavorare
alla sua tesi di laurea sul rapporto fra Agostino e la cultura antica
[61]
. Il 5 maggio 1936, quando Mussolini annunciò la vittoria sull’Etiopia,
Marrou era in Piazza Venezia e, nella sua descrizione dell’evento consegnata alle pagine
della rivista francese «Esprit», si soffermò sui due soggetti coinvolti in quella
scenografia: la folla «trepidante» che acclama, «non certo per costrizione», e il capo,
illuminato da una «sfera luminosa, enorme, posta dietro di lui all’altezza della testa
[che] gli faceva da aureola, quella stessa aureola che si trova sulle effigi
dell’Imperatore al tempo del Basso Impero»
[62]
.¶{p. 177}
Analogie fra Mussolini e gli
imperatori romani non erano inusuali anche fra gli stranieri e, come ogni recupero del
classico, potevano essere impiegate a fini diversi. Negli Stati Uniti il classicista
Kenneth Scott sosteneva che ogni atto delle politiche mussoliniane trovava un suo
precedente nelle riforme augustee e vedeva in ciò il segno di una continuità dell’impero
romano e dell’identità «genetica» dei due leader
[63]
. In territorio francese, invece, Léon Blum riprese l’immagine in senso
critico e, nel contesto del dibattito sulle sanzioni votate contro l’Italia per aver
mosso guerra contro un paese membro della Società delle Nazioni, aveva parlato del capo
del governo italiano come di un imperatore antico ai giochi del circo; «penché sur
l’Europe, abaissera-t-il le pouce pour ordonner la mort ou le lèvera-t-il pour faire grâce?»
[64]
. Anche Marrou adottò un punto di vista critico, ma in lui l’analogia si
precisava sul piano storico attraverso il riferimento al tipo di potere rivestito dagli
imperatori romani nella tarda età imperiale, capi politici rivestiti di un’aurea
religiosa e adorati dai sudditi come divinità. Lungi dall’essere una
boutade erudita, tale interpretazione era prima di tutto
l’eredità di una posizione assunta ufficialmente dalla Chiesa cattolica, che, durante
certe fasi di frizione con il regime fascista, qualificò quest’ultimo come una «vera e
propria statolatria pagana», uno Stato animato da uomini che, «disprezzando il lume
della sapienza evangelica, si sforzano di far risorgere gli errori dei pagani
[ethnicorum errores] e il loro tenore di vita»
[65]
.
Su questa linea si pose Marrou, che
vedeva nel fascismo una perversione del sentimento religioso. Se il cattolicesimo era
per lui continua ricerca e incessante interrogazione di sé, la «statolatria» fascista
era invece annullamento della volontà e della facoltà critica tipica dell’essere umano,
interamente ¶{p. 178}disciolto nel corpo statale. Quella che il fascismo
pretendeva era una «fede cieca […]; il fedele non sa mai dove va né a cosa dedica la sua
volontà».
È appunto a partire da queste
posizioni che Marrou fu portato a guardare con attenzione le politiche coloniali
italiane, momento massimo del consenso al regime e ipso facto della
perdita di umanità da parte del popolo italiano, come mise in evidenza nei suoi vari
articoli scritti prima per «Politique» e poi per «Esprit», quasi nella funzione di
corrispondente dalla penisola. In Italie prolétaire et fasciste, lo
studioso prese le mosse dall’appellativo con cui Mussolini si era rivolto alla piazza
nel discorso di mobilitazione per la guerra d’Etiopia il 2 ottobre 1935 – «Italia
proletaria e fascista», appunto – al fine di denunciare il progressivo impoverimento
della classe media italiana. L’eccessiva fiscalità, causata dalle sanzioni e dalle
operazioni belliche, creava infatti «una piramide solidamente organizzata» con i
«gerarchi di ogni grado» da un lato e una immensa plebe immiserita e privata di ogni
potere, dall’altro
[66]
. Nel contributo riguardante la proclamazione dell’impero, evocato in
precedenza, Marrou si concentrava invece sul ruolo assegnato alla donna dalla propaganda
ufficiale messa in campo negli anni della guerra d’Etiopia
[67]
. Tale figura ritornava a svolgere il ruolo che era il proprio a Roma o a
Sparta nell’antichità, madre «al servizio dello stato guerriero» che affronta con
abnegazione il sacrificio dei figli soldati. In entrambi gli scritti, Marrou
sottolineava quindi la disumanizzazione imposta dal regime in modo particolare alle
categorie sociali più deboli, a cui si imponeva un ruolo prestabilito e dai tratti
fissi.
Si trattava di posizioni coraggiose
che Marrou sentiva di dover esprimere ricorrendo a uno pseudonimo, Henri Davenson, come
forma di tutela. Non solo, infatti, criticava il regime risiedendo in Italia, ma metteva
anche a repentaglio la sua stessa carriera universitaria, ancora sul nascere, per il
fatto di scrivere tali saggi mentre svolgeva una tesi sotto la
¶{p. 179}direzione di Jérôme Carcopino (1881-1970)
[68]
. Quest’ultimo era infatti vicino agli ambienti dell’estrema destra francese
(il che lo porterà alla testa dell’Educazione Nazionale sotto Vichy) e appoggiava
esplicitamente la politica coloniale italiana. Pur cercando di mantenere una posizione
sempre volutamente ambigua nei riguardi del fascismo, Carcopino si espose infatti
pubblicamente in una sola occasione, quando sottoscrisse il Manifeste des
intellectuels français pour la Défense de l’Occident, redatto
dall’esponente dell’Action Française Henri Massis. Il documento, diffuso il 4 ottobre
1935, chiedeva l’abolizione delle sanzioni contro l’Italia che, mettendo sullo stesso
piano «le supérieur et l’inférieur, le civilisé et le barbare», avrebbero spinto le
nazioni europee a schierarsi nel campo del «barbaro» e «portare così alla definitiva
rovina la parte più preziosa del nostro universo», cioè quell’Occidente di cui l’Italia
era considerata parte non secondaria; «on veut lancer les peuples européens contre
Rome». Anche se non immediatamente, Carcopino sottoscrisse questo documento – del che
proverà poi a giustificarsi in una tarda autobiografia apologetica
[69]
– e in quegli stessi anni non trascurò anche di prendere parte attiva ad
iniziative ufficiali organizzate dall’Italia sul tema del colonialismo. In particolare,
partecipò ai due convegni Volta del 1932 e del 1938, incontri organizzati dalla Reale
Accademia d’Italia e ¶{p. 180}generosamente finanziati dalla Società
Generale Edison di Elettricità, e lì espose il suo pieno sostegno al colonialismo
europeo, purché praticato nelle forme che a suo dire erano state proprie di Cesare
[70]
. L’impero doveva essere garanzia di pace e stimolare l’integrazione delle
élite coloniali nel sistema della madrepatria, di modo che esse potessero portare nuova
linfa nel sistema, come era accaduto in seguito alla conquista delle Gallie nel I secolo
a.C. Carcopino tentava così di armonizzare gallicismo e cesarismo, di continuare ad
ammirare Roma senza sottovalutare il ruolo di primo piano che nella sua storia avevano
svolto i Galli, la cui esaltazione era al suo apice in Francia nella prima metà del
Novecento, per riflusso contro Napoleone III e per effetto dei lavori storiografici di
Camille Jullian
[71]
.
Si capisce bene che con un tale
maestro, la posizione politica di Marrou non era priva di pericoli e tanto più è degna
quindi di ammirazione l’espressione della sua critica contro la politica coloniale
italiana, che, tuttavia, si segnala anche per l’assenza di una presa di posizione contro
il colonialismo in quanto tale. I suoi articoli, infatti, incorniciano la politica
imperiale italiana, ma per riflettere soprattutto sulle ripercussioni di tale fenomeno
all’interno della società, sull’espressione del consenso e sui rapporti fra capo e massa
in un regime che si presenta come un nuovo credo. Ciò potrebbe sorprendere da parte di
chi più tardi, nel 1956, si farà coraggioso accusatore dei crimini perpetrati dai
Francesi in Algeria
[72]
, ma anche in questi scritti più tardi, la polemica è sempre contro le
degenerazioni, non contro
¶{p. 181}il fenomeno stesso. Con una certa
coerenza, da un suo primo intervento sul tema nel 1931 e fino all’impegnativo contributo
introduttivo nel volume simbolico della denuncia contro la Francia coloniale,
La question algérienne, del 1958, Marrou sostiene che il
colonialismo europeo possa rappresentare un incremento di civiltà per i popoli africani,
a condizione di essere condotto secondo modalità non inumane
[73]
. Marrou dà cioè per assodata una sperequazione fra le civiltà, in ragione
della quale gli Europei non solo si trovano in una fase più avanzata, ma godono di
prestigio presso gli Africani che vogliono pertanto imitarne i costumi e adottarne le
qualità morali. Lo studioso francese condanna quindi fermamente tutti quegli atti
violenti commessi dai colonizzatori europei, dal momento che impediscono questo processo
di assimilazione volontaria. È una visione «missionaria» dei rapporti fra i due soggetti
che non solo ha il difetto di farsi arbitrariamente interprete dei pensieri delle
popolazioni colonizzate, ma che, interpretando le pratiche di torture e di segregazione
perpetrate dagli Europei come delle deviazioni, non considera quanto di strutturalmente
violento vi è nel processo coloniale.
Note
[58] La fondazione dell’impero nei discorsi del Duce alle grandi adunate del popolo italiano con una traduzione latina di Nicola Festa, Napoli, Rispoli anonima, 1937.
[59] R. Visser, The Correspondence of Ettore Pais in the «Segreteria Particolare del Duce. Carteggio Ordinario», in L. Polverini (a cura di), Aspetti della storiografia di Ettore Pais, Napoli, ESI, 2002, pp. 159-175: 166. L’idea fu inizialmente rifiutata, ma nel primo anniversario dell’impero si fecero effettivamente sfilare le truppe sotto l’arco di Costantino.
[60] Cfr. S. Rey, Écrire l’histoire ancienne à l’École Française de Rome (1873-1940), Rome, EFR, 2012.
[61] Su di lui, cfr. P. Riché, Henri Irénée Marrou. Historien engagé, Paris, Cerf, 2003 e H.-I. Marrou, Carnets posthumes, a cura di F. Marrou-Flamant, Paris, Cerf, 2006.
[62] H.-I. Marrou, Le fascisme italien et la femme, in «Esprit», 45, giugno 1936, pp. 425-431: 429 (traduzione nostra, qui e per gli altri testi francesi citati in questo paragrafo).
[63] K. Scott, Mussolini and the Roman Empire, in «The Classical Journal», 27, 1932, pp. 645-657.
[64] «Le Populaire», 22 settembre 1935, citato in P. Milza, L’Italie fasciste devant l’opinion française, Paris, Armand Colin, 1967, pp. 190-191.
[65] Così, rispettivamente, nelle encicliche di Pio XI, Non abbiamo bisogno (1931) e Ingravescentibus malis (1937).
[66] «Esprit», 39, dicembre 1935, pp. 493-495.
[67] Marrou, Le fascisme italien et la femme, cit., pp. 425-431.
[68] Sugli aspetti del pensiero di Carcopino maggiormente presi qui in esame, cfr. S. Israël, Les études et la guerre. Les normaliens dans la tourmente (1939-1945), Paris, rue d’Ulm, 2005; S. Rey, Jérôme Carcopino, un historien dans Rome, in «Anabases», 5, 2007, pp. 191-206; L.-N. Panel, Du disciple au maître. Henri Irénée Marrou et Jérôme Carcopino, in «Cahiers Marrou», 6, 2013, pp. 4-47.
[69] Il Manifeste fu pubblicato inizialmente il 4 ottobre 1935 su «L’Action Française», «Le Temps» e «Le Journal des débats». Fra i primi firmatari figurano Jean Babelon e Auguste Bailly, cui dall’8 ottobre si aggiunge Eugène Cavaignac. Manca invece il nome di Carcopino, che si trova inserito nel nuovo elenco dei firmatari del 31 maggio 1936 apparso su «L’Action Française» e «Le Figaro», accanto a quello di altri antichisti, membri dell’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres (A. Audollent, C. Diehl, P. Fabia, P. Legrand, P. Mazon, A. Meillet, C. Picard, G. Radet). Cfr. J. Carcopino, Souvenirs de sept ans. 1937-1944, Paris, Flammarion, 1953, pp. 22-25.
[70] J. Carcopino, Empire Romain et Europe, in Convegno di scienze morali e storiche. 14-20 novembre 1932. Tema: L’Europa, Roma, R. Accademia d’Italia, 1933, pp. 142-151; Id., L’aptitude des Berbères à la civilisation d’après l’histoire ancienne de l’Afrique du Nord, in Convegno di scienze morali e storiche. 4-11 ottobre 1938-XVI. Tema: L’Africa, Roma, R. Accademia d’Italia, 1939, pp. 621-633.
[71] Cfr. Id., Points de vue sur l’impérialisme romain, Paris, Le Divan, 1934.
[72] H.-I. Marrou, France, ma patrie…, in «Le Monde», 5 aprile 1956. Cfr. S. Rey, Ne pas quitter «la terre d’Afrique». Les Antiquisants, l’Algérie française et la déclaration du 23 mai 1956, in «Anabases», 15, 2012, pp. 71-84.
[73] H.-I. Marrou, Le problème colonial et l’idée de civilisation, in «Politique», giugno 1931, pp. 588-609 (poi in Crise de notre temps et réflexion chrétienne, Paris, Beauchesne, 1978, pp. 159-174, la citazione che segue nel testo è a p. 165); Id., Colonisation et décolonisation, in J. Dresch et al., La question algérienne, Paris, Éditions de Minuit, 1958, pp. 7-30.