Viaggio nelle character skills
DOI: 10.1401/9788815366962/c1
Per quanto riguarda, in modo
specifico, l’insegnamento e l’apprendimento e, più in generale, la direzione della
formazione scolastica, le principali questioni possono essere focalizzate intorno a tre
punti principali: 1) la funzione della scuola nella società dell’informazione e della
comunicazione di massa; 2) la formazione della cultura personale (ovvero:
¶{p. 28}la conoscenza è necessaria, ma non sufficiente); 3) la
formazione critica e la professionalizzazione.
Per il primo punto, l’aumento
esponenziale delle informazioni messe a disposizione di ogni singolo individuo con
l’avvento di internet, non solo in senso quantitativo – database, motori di ricerca,
biblioteche e testi online – ma anche formale – accesso diretto e
immediato alle informazioni richieste, cambiamento dei modi,
dei tempi e dei luoghi della ricerca e dello studio – solleva seri interrogativi sulla
funzione della scuola come istituzione informativa e formativa e sul compito in essa
svolto dai suoi agenti, in particolare gli insegnanti. Se un tempo, non molto lontano,
la scuola si proponeva come unica fonte delle informazioni e delle conoscenze utili e
necessarie per esprimere sé stessi e comprendere il mondo, per progredire nella scienza
delle cose e per formare una visione della realtà, oggi questa funzione è messa in seria
discussione dalla condizione delle nuove generazioni, immerse nella realtà virtuale e
digital connected
[4]
.
La pluralità delle fonti e delle
«agenzie» informative, invece che suscitare inutili conflitti di competenza, può invece
condurre a rinverdire il ruolo dell’istruzione come formazione di un sapere critico e
competente, in grado di orientarsi fra dati, nozioni e interpretazioni e di comporle in
sintesi coerenti e personali. Rientrano, in questa direzione, la valorizzazione
dell’iter scolastico come costituzione di una «memoria culturale» – con rilevanti
conseguenze anche sulla trasmissione complessiva della tradizione e del bagaglio
culturale di un paese – la ripresa della «relazione educativa», anche e soprattutto in
riferimento al rapporto con un «maestro», inteso come colui che fa e aiuta a crescere,
l’intensificazione ¶{p. 29}e il rafforzamento delle capacità logiche, di
analisi e di sintesi, che consentano un approccio critico al problema, nel contesto
delle posizioni e delle opinioni correnti.
Ciò porta al secondo aspetto, che è
stato oggetto di ampie e differenti riflessioni, non solo ai nostri giorni, e che può
essere riassunto con le parole che un grande educatore dell’Ottocento, John Henry
Newman, utilizzò per definire il processo di apprendimento, ovvero la possibilità,
secondo una sua metafora, di guardare il tappeto non sul retro, ove si intrecciano i
fili, ma sul dritto, ove si staglia il disegno. Sostenitore della conoscenza
disinteressata, come bene in sé e come cultura della mente, e convinto che «l’educazione
è la comunicazione della conoscenza»
[5]
, Newman non la confinò ai contenuti del sapere, ma la
considerò un processo di apprensione personale, che studiò e descrisse in modo
articolato e ampio e che è ben riassunto in una pagina del sesto Sermone
de L’idea di università, con
specifico riferimento al sapere universitario, ma con pertinenza anche al precedente
sapere scolastico.
L’arricchimento – scrive Newman – consiste non soltanto nell’accoglienza passiva nella mente di un certo numero di idee che fino ad allora le erano sconosciute, ma nell’azione energica e simultanea della mente sopra, verso e in mezzo a queste nuove idee, che si riversano su di essa. È questa l’azione di una potenza formativa, che conferisce ordine e significato alla sostanza delle nostre cognizioni, è il rendere soggettivamente nostri gli oggetti della nostra conoscenza, o, per usare una parola familiare, è la digestione di quel che riceviamo, in modo da renderlo sostanza del nostro antecedente stato di pensiero, e senza di ciò non si può dire che ne consegua alcun arricchimento. Non vi è alcuna espansione mentale, a meno che non vi sia un confronto di idee l’una con l’altra, non appena si presentano dinanzi alla mente, e una loro sistematizzazione. Noi sentiamo che le nostre menti crescono non solo quando impariamo, ma riferiamo quello che impariamo a ciò che già conosciamo [6] .¶{p. 30}
Questa idea di conoscenza non come
semplice accumulazione quantitativa, ma come processo qualitativo che forma la mente e
la porta a padroneggiare i contenuti del sapere e a «saper giudicare» offre una risposta
alla questione della utilità dell’istruzione e, dunque, della sua
finalità, strettamente legata al carattere professionalizzante dell’insegnamento,
questione al centro di dibattiti attuali, ma altrettanto presente nelle discussioni
sulla scuola negli ultimi due secoli. La soluzione ingenua che
considera la scuola una variabile dipendente dal mercato del lavoro e, quindi, come
strumento essenzialmente predisposto alla formazione di personale qualificato si scontra
con due gravi limiti: la variabilità del mondo del lavoro e la rapida trasformazione
delle attività e delle professioni – il massiccio utilizzo delle ICT durante la pandemia
è destinato ad avere forti ripercussioni sul lavoro, a ogni livello – e la prevedibile
necessità di fronteggiare, nei prossimi anni, situazioni complesse e non facilmente
codificabili o risolvibili mediante procedure standardizzate.
In tale prospettiva il valore e la
coltivazione del capitale umano
[7]
, inteso come conoscenze, competenze, abilità, ma anche come sviluppo di
capacità critiche e di scelte consapevoli e responsabili, risultano di fondamentale
importanza e, con essi, lo sviluppo della mente e di quelle abitudini
mentali, da cui derivano i comportamenti e, più in generale, la vita
stessa di una società. Ciò, se per un verso risponde al criterio
dell’utilità, per altro verso lo supera e pone, come altro e
più vincolante criterio delle scelte in campo educativo, quello della formazione
integrale della persona, nella duplice polarità che anima la sua ragione a ricercare un
senso all’esistenza e a trovare i mezzi e le soluzioni per
vivere e difendersi da minacce e pericoli in questo mondo
[8]
. In tale «formazione integrale» devono trovare il loro giusto posto e la
loro valorizzazione gli studi umanistici e scientifici, ¶{p. 31}nella
loro dimensione conoscitiva e non solo applicativa – ad esempio: la biologia e non solo
l’ecologia – ovvero quelle discipline liberali, che tali sono
perché, come sostenevano gli umanisti italiani del Quattrocento, rendono l’uomo libero,
e, insieme, lo sviluppo delle attitudini, doti e disposizioni che costituiscono la
persona e ne caratterizzano la personalità.
3. In cammino oltre la competenza
Nella formazione integrale della
persona sono ricomprese le attività intellettive e quelle personali (morali e
psicologiche), in quanto, nel loro complesso, esse determinano il «volto» di ciascun
individuo di fronte agli altri e a sé stesso. La recente riflessione sulle non
cognitive skills offre interessanti prospettive per un approccio consono
alle attuali esigenze sociali, culturali e lavorative, fortemente mutate con
l’introduzione delle nuove tecnologie e dei nuovi comportamenti formali che esse
determinano.
Sebbene la denominazione di tali
skills sia incerta fin dal sostantivo e nelle sue traduzioni dall’inglese
[9]
e la loro definizione non sia unanime, si può ritenere, almeno
provvisoriamente, che esse «rappresentano una combinazione dinamica di abilità cognitive
e meta-cognitive, abilità interpersonali, intellettuali e pratiche accanto a valori
etici. [Esse] consentono agli individui di adattarsi e di comportarsi positivamente in
modo da affrontare efficacemente le sfide della vita quotidiana e professionale»
[10]
.
In ambito OECD, la valutazione di
tali skills ha progressivamente acquisito un posto centrale nella valutazione
[11]
, ¶{p. 32}tant’è che il Rapporto PISA
2020, rivolto alle competenze globali degli studenti, dedica particolare
attenzione a quelle «capacità» che in PISA 2018. Insights and
Interpretations, sono così indicate: «a strong sense of right and wrong»,
«a sensitivity to the claims that others make on them», «a grasp of the limits on
individual and collective action», «a deep understanding of how others live, in
different cultures and traditions, and how others think»
[12]
(per una presentazione esauriente di altri importanti documenti
internazionali rinviamo a quanto detto nel contributo di Anna Maria Poggi).
Dell’irrompere delle non
cognitive skills sulla scena della formazione e dell’attenzione crescente
prestata nei maggiori centri di elaborazione educativa e scolastica (ad es., come appena
ricordato, l’OECD) finora poco è filtrato da noi a livello di opinione pubblica
scolastica nella quale resta centrale e monolitica la convinzione che la nozione di
competenza, intesa come esito tangibile della padronanza pratica del sapere, e la sua
misurazione siano da considerare il baricentro di ogni progetto innovativo. Con le
non cognitive skills siamo oltre questo scenario definito negli
anni Novanta e centrato sull’egemonia del potenziamento cognitivo. Via via sono apparsi
evidenti i limiti di questo approdo alla competenza, che rischia di restare gracile e
infruttuoso se non è sostenuto dalla valorizzazione della dimensione sociale ed emotiva.
In importanti documenti dell’OECD, ad esempio, è ormai esplicito il riconoscimento che
«most schools are places that are both intensely social and intensely emotional»
[13]
.
¶{p. 33}
Note
[4] A. Schleicher, To Thrive in the Digital World, Students Must Know How to Think Critically, in PISA 2018. Insights and Interpretations, OECD, 2019, https://www.oecd.org/pisa/PISA2018InsightsandInterpretations: «Students now spend about 3 hours on line outside of school on weekdays, on average, and almost 3.5 hours on line on weekend days. For young people, the digital world is becoming a sizeable part of the real world [...] Today, students will find hundreds of thousands of answers to their questions on line, and it is up to them to figure out what is true and what is false».
[5] J.H. Newman, La conoscenza come fine a se stessa, in L’idea di università, Discorso V, 6, Milano, Vita e Pensiero, 1976, p. 152.
[6] J.H. Newman, La conoscenza considerata in relazione al sapere, in L’idea di università, cit., Discorso VI, 5, p. 171.
[7] Cfr. G. Vittadini (a cura di), Capitale umano, la ricchezza dell’Europa, Milano, Guerini e Associati, 2004.
[8] R. Spaemann, Cos’è il naturale. Natura, persona, agire morale, Torino, Rosenberg & Sellier, 2012, pp. 19-24 parla, a questo proposito, di «costante antropologica» e descrive questa polarità costitutiva come «esigenza di essere libero» ed «esigenza di trovare dimora e sicurezza».
[9] Life skills, Basic skills, Weakable skills, Soft skills, Non cognitive skills/competenze trasversali, competenze sociali, capacità, abilità...
[10] La definizione è tratta da D. Haselberger, P. Oberhuemer, E. Perez, M. Cinque e F. Capasso, L’introduzione delle soft skill nelle istituzioni di istruzione superiore. Linee guida per la progettazione di contesti di apprendimento volti a favorire l’acquisizione delle soft skill, Versione 1.0, Education and Culture DG. Lifelong Learning Programme – Modes, pp. 82 e 89.
[11] OECD, Definition and Selection of Competencies: Theoretical and Conceptual Foundations (DeSeCo). Summary of the Final Report Key Competencies for a Successful Life and a Well Functioning Society, Paris, OECD Publishing, 2003. Si veda anche WHO, Life Skills Education in Schools. Skills for Life, Genève, World Health Organization, 1993. Recentemente il tema è stato riproposto nella Raccomandazione 2018/C189/0 del Consiglio europeo, 22 maggio 2018. Competenze chiave per l’apprendimento permanente 2018, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32018H0604(01) (ver. 15.7.2020). In Italia, un primo approccio al problema si trova nel Rapporto Isfol 2012. Le competenze per l’occupazione e la crescita, Roma, ISFOL, 2012.
[12] A. Schleicher, PISA 2018. Insights and Interpretations, cit.
[13] O.P. John e F. De Fruit, Social and Emotional Skills Framework for the Longitudinal Study of Skills Development in Cities, Paris, OECD, 2015.