Note
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Cfr. Schmitt, Der Hüter der Verfassung, Tübingen, 1931, p. 71.
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Mortati, La comunità statale, in Persona, società intermedie e Stato (Quad, di «Iustitia», n. 10), Roma, 1958, p. 108.
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Sandulli, Società pluralistica e rinnovamento dello Stato, in «Iustitia», 1968, p. 14.
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Crisafulli, Partiti, parlamento e governo, in La funzionalità dei partiti nello Stato democratico, Milano, 1967, p. 96.
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Secondo Leibholz, Strukturprohleme der modernen Demokratie,Karlsruhe, 1958, p. 93, «il moderno Stato di partiti (Parteienstaat)... non è altro che una forma empirica razionalizzata della democrazia plebiscitaria o, se si vuole, un surrogato della democrazia diretta».
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Fraenkel, Die repräsentative und die plebizitäre Komponente im demokratischen Verfassungsstaat (nella raccolta «Recht und Staat», H. 219-220), Tübingen, 1958, pp. 5, 7. Tradotte in termini di realismo politico, tali premesse postulano l’esistenza di un popolo omogeneo formante un’entità spirituale identificata da un blocco di valori assunti come elementi incontestati e incontestabili dell’ordine sociale, e quindi legata da un complesso di sentimenti e di aspirazioni comuni. Le decisioni della maggioranza non appaiono allora una vittoria riportata sulla minoranza, «ma il voto permette semplicemente di mettere in evidenza un accordo e un’armonia preesistenti, ma rimasti allo stato latente» (Schmitt, Légalité-Légitimité, Paris, 1936, pp. 73 s.). In una società eterogenea, invece, la decisione della maggioranza non è più in grado di legittimarsi da se stessa, sulla base della sua legalità formale, ma può legittimarsi soltanto come forma di integrazione funzionale (nel senso di Smend, Verfassung und Verfassungsrecht, München-Leipzig, 1928, pp. 32 ss.), cioè come forma di legalizzazione di un compromesso tra le forze sociali in conflitto, raggiunto attraverso processi di partecipazione dei gruppi organizzati alla formazione della volontà politica dello Stato.
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Si ricordi Rousseau, Le contrat social, liv. II, chap. VI (in Oeuvres complètes, Pléiade, vol. III, Paris, 1966, p. 380): «Les particuliers voyent le bien qu’ils rejettent; le public veut le bien qu’il ne voit pas..: il faut obliger les uns à conformer leurs volontés à leur raison; il faut apprendre à l’autre à connaître ce qu’il veut».
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Nella democrazia di massa la componente plebiscitaria è inevitabile, e anzi necessaria (cfr. Smend, op. cit., p. 42; Fraenkel, op. cit., spec. pp. 56 ss.), onde la tendenza dei partiti (di massa) ad operare come fattori di un sistema di governo plebiscitario non sarebbe patologica, se i cittadini sentissero il partito come forma di partecipazione effettiva. Ma proprio perché l’esperienza scoraggia questa convinzione, la società cerca nuovi modelli di partecipazione nelle organizzazioni di interessi, dotate di strumenti più efficaci di collegamento dei dirigenti con la base, e quindi in migliore condizione di liberare l’individuo dal senso frustrante di «non contare nulla», che genera il senso di «anomia». In questo senso si possono comprendere valutazioni del tipo di quella di Rivero, La convention collective et le droit public français, in «Rev. économique», 1951, p. 22, secondo cui «l’identification des gouvernants et des gouvernés est plus exacte avec la représentation syndicale qu’avec la représentation politique».
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L’affermazione va intesa nel senso strettamente relativo del testo. Non sono in declino le ideologie, ché, anzi, questa è l’ora delle ideologie («appartiene all’ironia della nostra epoca che essa dimostri ovunque un sospetto di ideologia nella medesima misura in cui essa stessa produce ideologie»: Hoffmann, Wissenschaft und Ideologie, in «Ar. f. Rechts u. Sozialphil.», 1957, p. 197. Sono in declino le ideologie tradizionali dei partiti (proposte come teorie della società), dal momento che l’accelerazione del progresso scientifico e tecnologico, incessante e incalcolabile nei suoi sviluppi, ha messo in evidenza l’impossibilità di prevedere l’evoluzione dei rapporti sociali per lunghi periodi, e quindi l’inidoneità delle ideologie a fornire modelli di impostazione dell’azione politica, la quale deve fondarsi su elementi calcolabili. Oggi i principali produttori di ideologie non sono i partiti, ma i gruppi sodali, ai quali le ideologie forniscono non tanto principi operativi, quanto gli argomenti della polemica reciproca e soprattutto della polemica contro i partiti: argomenti destinati a suscitare nelle masse quelle che Pascal chiama le «cordes d’immagination». Le responsabilità connesse alle funzioni di governo spingono piuttosto i partiti ad opporre alle ideologie dei gruppi sociali l’antiideologia del «piano», che a sua volta è un’ideologia, ma di nuovo stampo (sul quale i gruppi tecnocratici, in polemica con i partiti e in funzione di una «spoliticizzazione» delle masse, tentano di rimodellare l’utopia saint-simoniana).
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O pseudorazionale, se è vero che le ideologie politiche cercano di trasferire i metodi del calcolo scientifico nella sfera dei valori, ammantandosi di una «razionalizzazione contraffatta» (Freund, Das Utopische in den gegenwärtigen politischen Ideologien, in Säkularisation und Utopie,Stuttgart, 1967, pp. 103 s.).
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«L’errore fondamentale della rivoluzione francese», secondo il giudizio di E. Ollivier, Rapport sur la liberté des coalitions de patrons et d’ouvriers (discorso pronunciato all’Assemblea francese il 22 aprile 1864, in Ollivier, Démocratie et liberté, Paris, 1867, p. 152), con riferimento alle premesse ideologiche della legge Le Chapelier del 14-17 giugno 1791.
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Cfr. Mortati, Sindacati e partiti politici, in L’organizzazione professionale (Atti della XXIV Settimana sociale dei Cattolici italiani), Roma, 1952, p. 216; Burdeau, Traité de science politique, vol. VI, Paris, 1956, n. 50, pp. 147 ss.; Huber, Staat und Verbände (nella raccolta «Staat und Recht», H. 218), Tübingen, 1958, p. 17; Hirsch. Die öffentlichen Funktionen der Gewerkschaften, Stuttgart, 1966, pp. 16 ss., 68. Anche a questo proposito B. Constant si rivela uno dei pochi scrittori politici il cui pensiero è sopravvissuto alla loro epoca. Cfr. i Principes de politique, chap. V (in Oeuvres, Pleiade, Paris, 1957, p. 1137): «Qu’est-ce que l’intérêt général, sinon la transaction qui s’opère entre les intérêts particuliers?... L’intérêt général est distinct sans doute des intérêts particuliers, mais il ne leur est point contraire».
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Accornero, Il sindacato come istituzione, in «Rass. sind.», 1968, n. 19, p. 79, nota che, dal punto di vista del rapporto cittadino-Stato e delle istituzioni che realizzano tale rapporto, «il sindacato si presenta come una istituzione abbastanza inesplorata».
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Alcuni dei contributi più importanti sono stati ripubblicati da Ramm, Arbeitsrecht und Politik. Quellentexte (1918-1933), Neuwied am Rhein, 1966, sul quale v. Giugni, Il diritto sindacale e i suoi interlocutori, in «Riv. trim. dir. proc. civ.», 1970, pp. 369 ss.
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Cfr. Webb, Pluralism and After, in Legal Personality and political Pluralism, a cura dello stesso Webb, Melbourne, 1958, pp. 180 s.
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Mortati, Istituzioni di diritto pubblico8, vol. II, Padova, 1969, p. 1089, rileva che «l’imperativo contenuto nel secondo comma dell’art. 3 Cost. deve condurre ad estendere l’azione sindacale, (senza farne venir meno l’autonomia) dal campo delle rivendicazioni settoriali a quello della compartecipazione in situazione di parità alla formazione delle sintesi politiche, rispetto alle quali si rivelano sempre più insufficienti gli organi tradizionali parlamento-governo». Il medesimo punto di vista è sviluppato da Onida, Lo sciopero politico, in «Relazioni sociali», 1970, n. 4-5, pp. 6, 12, 26 dell’estr.
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Cfr., in relazione all’art. 165 della Costituzione di Weimar, Kahn-Freund, Der Funktionswandel des Arbeitsrechts (1932), ripubblicato nel volume cit., a cura di Ramm, p. 218; e v. Giugni, Le ragioni dell’intervento legislativo (introduzione alla tavola rotonda sul tema Per una moderna legislazione sui rapporti di lavoro), in «Economia e lavoro», 1967, p. 20: «oggi, sindacato e contrattazione collettiva sono i cardini centrali del sistema di tutela del lavoro».
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Questo orientamento politico dello Stato liberale nell’ultimo periodo è definito «conservatorismo sociale» da Kahn-Freund, op. cit., pp. 212, 214, e Dos soziale Ideal des Reicbsarbeitsgerichts (1931), riprodotto nel medesimo volume cit., p. 153, che lo ricollega all’influsso del socialismo della cattedra.
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Cfr. Giolitti, Memorie della mia vita, vol. I, Milano, 1922, p. 169. In sede storica, il giudizio formulato nel testo deve forse essere corretto col rilievo che la politica giolittiana favorevole allo sviluppo dell’organizzazione sindacale (egli aveva compreso che «l’organizzazione degli operai camminava di pari passo con la civiltà»: ibidem, p. 165) poteva essere indotta a promuovere l’integrazione del sindacato in funzioni pubbliche sostitutive dell’autonomia privata dal fatto che i lavoratori ancora non disponevano di un forte potere contrattuale collettivo.
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Per un’esposizione sistematica di tale legislazione cfr. Sandulli, L’azione sindacale, in Indagine sul sindacato, a cura dell’ISLE, Milano, 1970, pp. 195 ss.; Ferrari, La partecipazione dei sindacati alla pubblica amministrazione, in «Dir. lav.», 1969, I, pp. 393 ss. Per la Francia Bockel, La partecipation des syndacats ouvriers aux fonctions économiques et sociales de l’état, Paris, 1965; per la Germania Kirsch, op. cit.,pp. 155 ss.
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Analogamente, con riguardo alla Francia, Bockel, op. cit., p. 583, osserva che la legislazione attuale non assicura al sindacato una presenza «au coeur des rouages», ma solo una partecipazione parziale e scarsamente efficace.
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Dal punto di vista formale il primato della legge è garantito dall’estensione anche al contratto collettivo del principio di inderogabilità delle norme imperative di legge, e in particolare delle norme che fissano minimi (legali) di trattamento dei lavoratori.
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Benché soggetto di diritto privato, il sindacato appartiene alla sfera «pubblica», in quanto investito di un potere sostanzialmente pubblico. A questa valutazione fattuale-sociologica corrisponde, sul piano delle valutazioni normative, un’ambivalenza del contratto collettivo, che è atto di autonomia privata (collettiva) in relazione ai datori e ai prestatori di lavoro considerati uti socii, come membri delle associazioni sindacali stipulanti, ma è atto di eteronomia in relazione ai medesimi datori e prestatori di lavoro considerati uti singuli, cioè come parti di un rapporto (individuale) di lavoro compreso nell’ambito di applicazione del contratto collettivo. Cfr. Persiani, Saggio sull’autonomia privata collettiva, Padova, 1972, pp. 161 ss.
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Cfr. per quanto segue Kahn-Freund, Der Funktionswandel des Arbeitsrechts, cit., pp. 218-222, la cui visione politico-costituzionale, permeata dallo spirito genuino della costituzione di Weimar, ma incline a svalutare le soluzioni di tipo organicistico legate al cosiddetto Räte-System, può ancora offrire un valido modello teorico per l’impostazione del problema quale si pone oggi nel nostro paese. L’ideale della «democrazia collettiva» (Ramm, Der Arbeitskampf und die Gesellschaftsordnung des Grundgesetzes, Stuttgart, 1965, pp. 26 ss., parla di «liberalismo collettivo»), implica che la giurisprudenza intervenga nel conflitto collettivo solo per regolarne il modo di svolgimento (che non deve contrastare con le norme dell’ordinamento statale poste a presidio della convivenza civile), mentre deve astenersi da ogni intervento regolatore dell’oggetto e degli scopi del conflitto.
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Secondo la tesi di Schindler, Werdende Rechte, in Festgabe f. Fleiner, Tübingen, 1927, pp. 400 ss., un ordinamento giuridico che istituzionalizza il conflitto industriale sarebbe, dal punto di vista sociologico, un ordinamento incompleto, in quanto ammette l’esistenza di una zona di conflitti d’interessi che sfuggono alla sua presa, e la cui soluzione rimane perciò affidata al confronto di forza (inteso alla stregua di una guerra privata). A parte la discutibilità dell’equiparazione dello sciopero alla guerra da cui muove la tesi in discorso (v. la critica di Ramm, Der Arbeitskampf, cit., p. 1 ss.), la distinzione tra punto di vista giuridico-formale e punto di vista sociologico non riesce a eliminare, ma semmai aggrava la contraddizione racchiusa nell’asserto che «la lotta, anche la lotta giuridicamente limitata, è la negazione del diritto» (p. 401). Nel momento in cui è accolto nell’ordinamento giuridico e qualificato come diritto soggettivo, lo sciopero cessa, nella misura di tale qualificazione, di essere la negazione del diritto. Dal punto di vista sociologico (e politico) non si potrà parlare allora di un fenomeno di incompletezza dell’ordinamento giuridico, ma si dovrà dire piuttosto (come scrive Kahn-Freund, Der Funktionswandel des Arbeitsrechts, cit., p. 223) che «l’ordinamento giuridico utilizza il conflitto per i suoi scopi», fra i quali è essenziale quello della propria completezza. Beninteso, la possibilità di questa strumentalizzazione presuppone che l’ente esponenziale dell’ordinamento, cioè lo Stato, sia in grado di controllare il conflitto e di impedire che esso degeneri in modi di condotta incompatibili con le condizioni di conservazione del sistema.
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In questa teorizzazione di Kahn-Freund, op. ult. cit., p. 218, si può forse cogliere un influsso dell’idea dell’integrazione funzionale di Smend, op. cit., spec., pp. 78, 88.
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Webb, op. cit., pp. 181 s.
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Le leggi che statuiscono minimi di trattamento dei lavoratori, inderogabili non solo dalle parti del contratto individuale, ma anche dalle parti del contratto collettivo di lavoro, operano indirettamente come norme di sostegno del sindacato, e quindi rappresentano una deviazione dal principio (liberale) della neutralità dello Stato di fronte al conflitto collettivo (cfr. Biedenkopf, Grenzen der Tarifautonomie, Kar-Isruhe, 1964, pp. 149 s.).
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Si tratta, come osserva Giugni, in «il Mulino», 1970, p. 31, di cercare «forme di esercizio del potere nell’impresa che, scontata la crisi dell’autoritarismo tradizionale, ricostituiscano, ma su basi mutate, il sistema di comando, che è indispensabile per la continuità della produzione». E poiché la continuità della produzione implica la continuità dell’occupazione, si deve aggiungere die il ristabilimento dell’autorità nelle imprese, su nuove basi qualificate dalla partecipazione del sindacato, appare urgente nell’interesse degli stessi lavoratori, al fine di liberarli dall’arbitrio e dalla violenza (definiti, eufemisticamente, «spontaneismo») di irresponsabili gruppuscoli extrasindacali.
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Correlativamente, una politica legislativa di sostegno del sindacato implica anche l’esigenza di rafforzamento del controllo del sindacato sul mercato (esterno) del lavoro. In questo senso si dispongono le norme dello statuto che riformano l’organizzazione e la disciplina del servizio pubblico di collocamento (artt. 33 e 34), da un lato restringendo notevolmente i casi in cui è ammessa la richiesta nominativa, dall’altro sottraendo agli organi burocratici del servizio i poteri di decisione circa le precedenze nell’avviamento al lavoro in risposta a richieste numeriche e la concessione del nulla osta per le richieste nominative. Questi poteri sono trasferiti ad organi collegiali (commissioni per il collocamento), in cui i rappresentanti dei lavoratori designati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative si trovano in netta maggioranza. Pur conservando al collocamento il carattere di funzione pubblica (dello Stato), la legge ha promosso, in sostanza, una «sindacalizzazione» del collocamento.
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Tuttavia non si possono sottovalutare i pericoli che comporta l’inserimento di una norma del genere nel quadro normativo attuale, caratterizzato dalla carenza di una legislazione sindacale e da una crescente incertezza (per non dire confusione) della giurisprudenza sui limiti del diritto di sciopero. La genericità della clausola generale formulata nell’art. 28 concede uno spazio eccessivo alla discrezionalità del giudice, investito di un potere di pesante interferenza nella gestione delle imprese non vincolato da alcun criterio di individuazione dei comportamenti colpiti dalla norma, e senza che questa sia bilanciata da una disciplina legislativa da cui risulti una linea di confine sufficientemente precisa tra modalità lecite e modalità illecite dello sciopero. Applicato senza discernimento, al di là della ratio che lo ispira, l’art. 28 potrebbe rovesciare i rapporti di forza tra le parti del conflitto industriale, privando i datori di lavoro di ogni possibilità di difesa dell’interesse delle imprese di fronte alle iniziative di lotta, anche sleali, della controparte; potrebbe, cioè, operare come strumento non di equilibrio, sia pure dinamico, ma di eversione del sistema. Le prime vicende dell’esperienza giurisprudenziale in proposito non sono del tutto tranquillizzanti (penso soprattutto a certi pretori, che si sono servizi dell’art. 28 per ripristinare indirettamente il reato di serrata, e proprio in casi in cui la serrata era anche contrattualmente legittima: v. per es. il decreto del pretore di Treviso 3 ottobre 1970, in Foro it., 1970, I, c. 2622, poi revocato dal tribunale, sent. 1° dicembre 1970, ivi, 1971, I, c. 466. Ove la serrata di ritorsione apparisse contrattualmente illecita, l’art. 28 potrebbe essere correttamente applicato solo per sanzionare con efficacia esecutiva immediata l’obbligo del datore di non sospendere il pagamento delle retribuzioni). Si può sottoscrivere l’affermazione di Neumann, Die politische und soziale Bedeutung der arbeitsgerichtlichen Recbtssprechung (1929), nel volume cit., a cura di Ramm, p. 125, che «la giurisprudenza deve fare la sua parte per la liberazione della classe lavoratrice». Ma deve farla con l’equità che si addice al giudice, e imponendo intransigentemente il principio che non v’è libertà senza il rispetto della legge.
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Cfr. Fraenkel, Kollektive Demokratie (1929), nel volume cit., a cura di Ramm, p. 93; Hirsch, op. cit., p. 36.
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Cfr. Webb, op. cit., p. 183.
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Webb, op. cit., p. 189; Rescigno, Ascesa e declino della società pluralistica, nel volume di saggi Persona e comunità, Bologna, 1966, pp. 3 ss.
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Kahn-Freund, op. ult. cit., p. 219.
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Cfr. Santoro-Passarelli, Esperienze e prospettive giuridiche nei rapporti fra i sindacati e lo Stato, in Saggi di diritto civile, vol. I, Napoli, 1961, p. 148; Persiani, Il sindacato fra partecipazione e contestazione, in «Quad. di azione sociale», 1970, n. 1, p. 82.
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Hirsch, op. cit., p. 107; Bockel, op. cit., p. 587; Giugni, L’«autunno caldo» sindacale, in «il Mulino», 1970, n. 207, pp. 40 ss.
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Le recenti vicende del conflitto collettivo in Italia (a partire dal 1968, e specialmente durante e dopo il c.d. autunno caldo del 1969) sono fortemente impregnate dallo spirito della lotta di classe, e ciò esclude che nel nostro paese si possa parlare di «isolamento istituzionale del conflitto», secondo la nota tesi formulata dal sociologo Dahrendorf, Classi e conflitto di classe nella società industriale, trad. it., Bari, 1970, pp. 417 ss.
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Sulla funzione critica dell’utopia, che forma il nocciolo dell’ideologia, cfr. Buve, Utopie als Kritik, in Säkularisation und Utopie, cit., pp. 11 ss. Posto che la sola forma di rivoluzione adatta alla moderna società tecnologica è l’evoluzione costante e immediatamente efficiente, l’ideologia, nella sua componente utopica, assume un compito di critica tendente a impedire che il senso del processo evolutivo si esaurisca nella sua funzione interna di razionalizzazione del progresso, cioè nei valori immediati dell’efficienza, e a proporre, invece, l’imperativo di commisurarlo costantemente a un fine trascendente integrato nella totalità dei valori propri della persona umana.
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Cfr. Burdeau, op. cit., p. 451.
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Sull’ambivalenza del sindacato, il quale «deve operare dentro il sistema e può solo aspirare a non diventarne subalterno», cfr. Hirsch, op. cit., p. 40; Persiani, op. ult. cit., pp. 66 ss.; Mancini, Lo statuto dei lavoratori dopo le lotte operaie del 1969, in «Politica del diritto», 1970, p. 76, da cui è tratta la frase virgolata. V. pure, in un’ottica diversa, preoccupata di salvaguardare le prerogative politiche dei partiti marxisti e di mettere punti fermi alla tendenza del sindacato a superare i suoi limiti istituzionali, Accornero, op. cit., pp. 89 ss.
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Contro questa formula polemizza, dal suo punto di vista, Ghezzi, Osservazioni sul metodo dell’indagine giuridica nel diritto sindacale, in «Riv trim. dir. proc. civ.», 1970, p. 432.
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Persiani, Il sindacato, cit., p. 69.
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Bockel, op. cit., p. 591.
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Giugni, op. ult. cit., p. 41.
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Cfr. Perone, Osservazioni in tema di sindacato e parlamento, in Studi per il ventesimo anniversario dell’assemblea costituente, vol. III, Firenze, 1969, pp. 244 ss.
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Kaiser, Die Repräsentation organisierter Interessen, Berlin, 1956, pp. 354 s.; Huber, op. cit., p. 19. Sugli sviluppi del pensiero di Kaiser, v. però le riserve di Hirsch, op. cit., pp. 127 s.
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È questo il limite della concezione di Fraenkel, Kollektive Demokratie, cit., messo in risalto dall’affermazione (p. 92) che «il principio della democrazia collettiva lascia l’esercizio del pubblico potere all’autorità dello Stato; esso si pronuncia soltanto sul modo di composizione degli organi dello Stato». S’intende che il punto in questione investe solo il secondo membro di questa proposizione. Il primo membro è fuori discussione: in qualunque modo si attui, la partecipazione dei sindacati a funzioni pubbliche implica che tali funzioni «non diventano tuttavia loro proprie, ma rimangono dello Stato, sia che si tratti di funzioni economiche, sia che si tratti di funzioni più propriamente politiche, per l’ormai stretta connessione fra politica ed economia» (Santoro-Passarelli, op. loc. cit.).
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Reciprocamente, l’interesse generale formulato col metodo della partecipazione (che in questi termini rappresenta un metodo di governo) si traduce in un principio operativo che implica una commisurazione dell’attività del governo (e dei partiti che lo sostengono) agli impegni assunti col sindacato. Cfr. Giugni, Stato sindacale, pansindacalismo, supplenza sindacale, in «Politica del diritto», 1970, p. 55.
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Treu, Sicurezza sociale e partecipazione, in «Riv. dir. lav.», 1970, I, p. 137.
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Rescigno, in Atti del Convegno nazionale di studio sul tema Sicurezza sociale per una nuova condizione umana (promosso dal Patronato Acli), Roma, 1969, p. 166; e v. pure l’intervento di Perone, ivi,pp. 141 ss.
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Treu, op. cit., p. 141.
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Fraenkel, Kollektive Demokratie, cit., p. 94.
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Fraenkel, op. loc. cit. Anche Bockel, op. cit., p. 595, riconosce che «il sindacato è l’intermediario della partecipazione dei lavoratori».
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Cfr. Rescigno, Il controllo democratico dei sindacati, in Persona e comunità, cit., p. 228.
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Sull’abuso dello sciopero come forma di pressione per le riforme, v. le riserve di Baglioni, L’azione per le riforme e la logica dell’esperienza sindacale, in «Prosp. sind.», 1970, n. 3, p. 22.
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Si può ricordare anche, in relazione al potere regolamentare del governo in materia di lavoro dei fanciulli e degli adolescenti, l’art. 4, comma 2°, della legge 17 ottobre 1967, n. 977 (d.p.r. 4 gennaio 1971, n. 36).
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Bloch-Lainé, Pour une réforme de l’entreprise, Paris, 1963, p. 98.
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Kirsch, op. cit., p. 145.
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Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, 1962, p. 293.
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Come scrive Momigliano, Sindacati, progresso tecnico, programmazione economica, Torino, 1966, pp. 128 s., occorre «garantire sempre meglio i lavoratori che l’aderenza ai loro problemi economici attuali non verrà sacrificata ad obiettivi derivanti da una “coscienza antagonista” nei confronti del sistema». Ma si può già notare una tendenza del sindacato a limitare il ricorso agli strumenti di democrazia diretta garantiti dallo statuto (assemblee di fabbrica, referendum) all’azione contrattuale (nell’ambito della quale i sindacalisti non perdono occasione per proclamare che «è saltato il principio della delega»), e a fame a meno, invece, quando si tratta di decidere l’azione (e gli scioperi) per le riforme.
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Cfr. Andreatta, Strategia sindacale in un’economia di piano, in «Quad. di azione sociale», 1965, p. 98.
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Momigliano, op. cit., p. 147.
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Romagnoli, Appunti in tema di società operaie, sindacati e partiti,in Studi in memoria di A. Gualandi, Urbino, 1969, p. 221.
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Galbraith, Il capitalismo americano, Milano, 1955, p. 221.
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Cfr. Speroni, I sindacati di fronte alla programmazione economica,in «Il Politico», 1969, pp. 346 s.
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Il disegno di legge «norme sulla programmazione economica», nel testo proposto dalla Va Commissione (finanze e tesoro) del Senato, è stato comunicato alla presidenza, con la relazione dei senatori Banfi e Cuzari, il 27 giugno 1969 (documento 180-A).
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Fraenkel, Kollektive Demokratie, p. 90.