Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c7
Si è già notato che la tutela costituzionale della contrattazione collettiva come strumento di produzione giuridica extrastatuale involge la qualificazione del sindacato come fattore autonomo di politica economico-sociale. Ne consegue che, nella misura crescente in cui la politica contrattuale del sindacato è in grado di condizionare la politica economica generale del governo, il primo tende ad aumentare tale condizionamento con un’azione ulteriore di pressione diretta sul pubblico potere per influire sui modi e sui tempi di attuazione del programma indicato nel secondo comma dell’art. 3 Cost. Si crea così una polarità tra il sindacato e lo Stato, il quale non vuole, né può rinunciare a una propria politica di intervento nell’as
¶{p. 192}setto dei rapporti economici e sociali. L’idea di un’emarginazione dello Stato dal campo economico e della creazione di un’economia autoregolantesi mediante il gioco dei gruppi organizzati
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, è certo inattuale anche in un paese come il nostro, che sembra attraversare una fase di pluralismo in ascesa e non di pluralismo in declino, quale si starebbe sperimentando, secondo certe diagnosi, negli Stati Uniti d’America
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. S’impone perciò l’esigenza di armonizzare la politica economico-sociale dello Stato con quella delle organizzazioni professionali: esigenza tanto più urgente quando si apprende che i sindacati dei lavoratori possono affermare perentoriamente, come si legge nella relazione al sesto congresso della Cisl, che «l’attività contrattuale è destinata a divenire in futuro lo strumento con il quale possiamo esercitare la massima pressione sul sistema economico». E poiché è escluso che l’armonizzazione delle due politiche possa essere ottenuta mediante un’interferenza dello Stato nella formazione della volontà interna dei gruppi, al pubblico potere non rimane altra soluzione se non di ammettere una partecipazione dei gruppi alla formazione della volontà dello Stato
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.
Questa attitudine del potere politico si incrocia con una domanda di partecipazione formulata con insistenza crescente dal sindacato
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, e fondata sulla constatazione che la contrattazione collettiva, se è riuscita a modificare a favore dei lavoratori la struttura del mercato del lavoro e quindi il livello dei salari, non è invece in grado, per sé sola, di modificare profondamente le condizioni generali di vita e di lavoro. Lo sviluppo degli ultimi anni, e in particolare le vicende successive al cosiddetto «autunno caldo», hanno mostrato ai sindacati che le loro chances ¶{p. 193}per promuovere il progresso di tali condizioni dipendono direttamente da fatti economici generali, e quindi dalle scelte di fondo adottate nelle sedi decisionali del potere politico
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.
4. Partecipazione e contestazione. L’inseparabilità di questi due momenti dell’azione sindacale pregiudica la funzionalità delle forme di inserimento organico del sindacato nell’apparato statale. Considerazioni sul Cnel.
La partecipazione ai processi di formazione della volontà politica presuppone un’opzione del sindacato a favore del metodo dell’evoluzione graduale. In quanto organizzazione di soggetti economicamente pregiudicati dal sistema dei rapporti di produzione, il sindacato è qualificato da un’ideologia imbevuta di spirito rivoluzionario, e quindi proiettata verso le attese di eversione del sistema predicate dalle dottrine socialiste. Ma quando si afferma che partecipazione e lotta di classe sono incompatibili, non si intende avanzare la pretesa che il sindacato ripudi la sua ideologia originaria, cioè lo strumento con cui conserva il suo ruolo
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. La partecipazione esige che il sindacato, pur senza rinunciare a confrontare la propria azione con le attese finali dell’ideologia di classe, accetti la prassi riformista. Questa ambivalenza prodotta nel pensiero sindacale dall’accettazione di una politica graduale di riforme, costantemente soggetta alla critica dell’ideologia rivoluzionaria
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, imprime al sindacato due aspetti. Sotto un ¶{p. 194}aspetto esso appare come un’organizzazione che cerca di superare le tensioni immanenti nei rapporti di produzione mediante il rovesciamento delle strutture attuali di potere, e per la quale, pertanto, il pluralismo non è una meta definitiva, ma un momento nel processo dialettico che deve condurre all’instaurazione dell’autocrazia della classe lavoratrice
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. Sotto l’altro aspetto, invece, il sindacato è una componente essenziale del sistema, in quanto trova nel conflitto tra capitale e lavoro la sua vera e insostituibile ragion d’essere, connessa alla mancanza di un criterio oggettivo-razionale di ripartizione del prodotto sociale, sì che le quote di riparto non possono determinarsi se non attraverso un confronto di forza con la controparte
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. In questo senso si precisa il significato della formula che assegna al sindacato un ruolo di stabilizzazione dinamica del sistema
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. Il sindacato è un elemento integrante del sistema attuale dei rapporti di produzione e non può operare che all’interno di esso; ma tradirebbe il suo compito storico-istituzionale se si adattasse a divenire un elemento integrato nel sistema, e quindi ad esso subordinato. Deve invece utilizzare tutti gli spazi che il sistema gli consente per controllarne lo sviluppo e dirigerlo verso nuove strutture più adeguate alle esigenze di «sicurezza, libertà e dignità umana» dei lavoratori.¶{p. 195}
Dell’accennata ambivalenza si prende atto quando si riconosce che «il dilemma tra partecipazione e contestazione è caratteristica costante del sindacato dei lavoratori»
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. Si introduce così il profilo più problematico del tema in discussione: cioè il problema di realizzare la partecipazione conservando integra l’originaria funzione rivendicativa del sindacato, e quindi la sua autonomia. La partecipazione all’attività politica dello Stato, e così l’assunzione da parte del sindacato di responsabilità nei confronti dell’interesse generale, non è possibile se non in modi che garantiscano una comprensione costante ed evidente tra questa attitudine responsabile e l’interesse dei lavoratori
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. La partecipazione deve perciò significare «l’accostamento ai problemi politici con mezzi sindacali»
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, non l’inserimento organico del sindacato in processi formali di decisione regolati dal principio di maggioranza, proprio della democrazia politica. Il sindacato considera con diffidenza e tende a svalutare le forme attuali di partecipazione costituite da organi collegiali, nei quali i rappresentanti da esso designati sono chiamati a deliberare con i rappresentanti di altri gruppi e del pubblico potere, e si trovano pertanto nella condizione di essere messi in minoranza. Nell’azione esterna il sindacato è allergico al principio di maggioranza; la funzione rivendicativa lo rende indisponibile per impegni e responsabilità che non derivino da accordi liberamente stipulati.
È questa una delle cause principali della scarsa efficacia del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Si aggiunga che la partecipazione del sindacato mediante il Cnel non giunge al cuore dei meccanismi di formazione della volontà politica, ma resta confinata all’esterno, esplicandosi in una collaborazione alla formulazione di pareri, del resto non obbligatori, su progetti di decisioni già predisposti dal governo. Da un punto di vista più generale va poi osservato che l’impostazione del Cnel si inquadra ¶{p. 196}nella contrapposizione tradizionale tra Stato e società, e risponde al disegno di istituzionalizzare un’attività consultiva delle categorie professionali nei rapporti con lo Stato al fine di sottrarre il parlamento e il governo alla pressione diretta degli interessi organizzati. Ma questa impostazione finisce col ridurre il Cnel a un semplice organo tecnico, inidoneo a realizzare una rappresentanza degli interessi di categoria
[46]
. La rappresentanza organica, operante col metodo collegiale, è un modulo inadeguato al pluralismo degli interessi organizzati che compongono la struttura sociale. L’azione degli interessi organizzati è già per se stessa una rappresentanza, non di natura istituzionale, ma di fatto
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, come tale caratterizzata da un rapporto di tensione dialettica con lo Stato, e quindi dalla tendenza a inserirsi immediatamente e autonomamente nei processi di formazione delle sintesi politiche in cui si esprime la volontà statale. Proprio questa qualità rappresentativa, che inerisce al sindacato in quanto organizzazione di interessi, viene compromessa in un sistema di partecipazione mediata dall’inserimento del sindacato, insieme con i suoi partners sociali, in un organo collegiale pubblico, soggetto al divieto del mandato imperativo e investito del compito di proporre alle camere o al governo schemi di formulazione dell’interesse generale, cioè di un interesse che è e rimane distinto da quello portato dal sindacato. Così concepita, l’idea della democrazia collettiva non è più coerente con l’ipotesi di una società pluralistica caratterizzata dal decentramento del potere politico, e scade al livello di semplice criterio di organizzazione dell’apparato dello Stato
[48]
. A questo
¶{p. 197}livello la partecipazione perde il suo significato essenziale, che la costituisce come metodo di integrazione funzionale dell’interesse del sindacato nell’interesse generale, cioè come metodo per promuovere una coincidenza del primo col secondo: nel senso che l’interesse generale, formulato sulla base delle risultanze emerse dal confronto dialettico del governo col sindacato, rappresenta la misura in cui quest’ultimo ha autonomamente valutato possibile, nel momento dato, la realizzazione del proprio interesse di gruppo (o di classe)
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Note
[33] Cfr. Webb, op. cit., p. 183.
[34] Webb, op. cit., p. 189; Rescigno, Ascesa e declino della società pluralistica, nel volume di saggi Persona e comunità, Bologna, 1966, pp. 3 ss.
[35] Kahn-Freund, op. ult. cit., p. 219.
[36] Cfr. Santoro-Passarelli, Esperienze e prospettive giuridiche nei rapporti fra i sindacati e lo Stato, in Saggi di diritto civile, vol. I, Napoli, 1961, p. 148; Persiani, Il sindacato fra partecipazione e contestazione, in «Quad. di azione sociale», 1970, n. 1, p. 82.
[37] Hirsch, op. cit., p. 107; Bockel, op. cit., p. 587; Giugni, L’«autunno caldo» sindacale, in «il Mulino», 1970, n. 207, pp. 40 ss.
[38] Le recenti vicende del conflitto collettivo in Italia (a partire dal 1968, e specialmente durante e dopo il c.d. autunno caldo del 1969) sono fortemente impregnate dallo spirito della lotta di classe, e ciò esclude che nel nostro paese si possa parlare di «isolamento istituzionale del conflitto», secondo la nota tesi formulata dal sociologo Dahrendorf, Classi e conflitto di classe nella società industriale, trad. it., Bari, 1970, pp. 417 ss.
[39] Sulla funzione critica dell’utopia, che forma il nocciolo dell’ideologia, cfr. Buve, Utopie als Kritik, in Säkularisation und Utopie, cit., pp. 11 ss. Posto che la sola forma di rivoluzione adatta alla moderna società tecnologica è l’evoluzione costante e immediatamente efficiente, l’ideologia, nella sua componente utopica, assume un compito di critica tendente a impedire che il senso del processo evolutivo si esaurisca nella sua funzione interna di razionalizzazione del progresso, cioè nei valori immediati dell’efficienza, e a proporre, invece, l’imperativo di commisurarlo costantemente a un fine trascendente integrato nella totalità dei valori propri della persona umana.
[40] Cfr. Burdeau, op. cit., p. 451.
[41] Sull’ambivalenza del sindacato, il quale «deve operare dentro il sistema e può solo aspirare a non diventarne subalterno», cfr. Hirsch, op. cit., p. 40; Persiani, op. ult. cit., pp. 66 ss.; Mancini, Lo statuto dei lavoratori dopo le lotte operaie del 1969, in «Politica del diritto», 1970, p. 76, da cui è tratta la frase virgolata. V. pure, in un’ottica diversa, preoccupata di salvaguardare le prerogative politiche dei partiti marxisti e di mettere punti fermi alla tendenza del sindacato a superare i suoi limiti istituzionali, Accornero, op. cit., pp. 89 ss.
[42] Contro questa formula polemizza, dal suo punto di vista, Ghezzi, Osservazioni sul metodo dell’indagine giuridica nel diritto sindacale, in «Riv trim. dir. proc. civ.», 1970, p. 432.
[43] Persiani, Il sindacato, cit., p. 69.
[44] Bockel, op. cit., p. 591.
[45] Giugni, op. ult. cit., p. 41.
[46] Cfr. Perone, Osservazioni in tema di sindacato e parlamento, in Studi per il ventesimo anniversario dell’assemblea costituente, vol. III, Firenze, 1969, pp. 244 ss.
[47] Kaiser, Die Repräsentation organisierter Interessen, Berlin, 1956, pp. 354 s.; Huber, op. cit., p. 19. Sugli sviluppi del pensiero di Kaiser, v. però le riserve di Hirsch, op. cit., pp. 127 s.
[48] È questo il limite della concezione di Fraenkel, Kollektive Demokratie, cit., messo in risalto dall’affermazione (p. 92) che «il principio della democrazia collettiva lascia l’esercizio del pubblico potere all’autorità dello Stato; esso si pronuncia soltanto sul modo di composizione degli organi dello Stato». S’intende che il punto in questione investe solo il secondo membro di questa proposizione. Il primo membro è fuori discussione: in qualunque modo si attui, la partecipazione dei sindacati a funzioni pubbliche implica che tali funzioni «non diventano tuttavia loro proprie, ma rimangono dello Stato, sia che si tratti di funzioni economiche, sia che si tratti di funzioni più propriamente politiche, per l’ormai stretta connessione fra politica ed economia» (Santoro-Passarelli, op. loc. cit.).
[49] Reciprocamente, l’interesse generale formulato col metodo della partecipazione (che in questi termini rappresenta un metodo di governo) si traduce in un principio operativo che implica una commisurazione dell’attività del governo (e dei partiti che lo sostengono) agli impegni assunti col sindacato. Cfr. Giugni, Stato sindacale, pansindacalismo, supplenza sindacale, in «Politica del diritto», 1970, p. 55.