Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c7
Due direttive si impongono allora all’azione dello Stato [24]
. An
{p. 187}zitutto l’esigenza di una legislazione di sostegno del sindacato. Un sistema, in cui il conflitto collettivo tra possessori dei mezzi di produzione e forze di lavoro organizzate sia istituzionalizzato come mezzo di integrazione e di progresso dell’ordine giuridico [25]
, può funzionare soltanto se il rapporto di forza tra le due parti sia sufficientemente bilanciato. Se le chances di ciascuna non fossero potenzialmente uguali a quelle dell’altra, il conflitto sarebbe annullato dal prepotere di una parte, e quindi non potrebbe essere utilizzato dall’ordinamento giuridico per i suoi scopi. Tale utilizzazione, infatti, sfrutta l’elemento dinamico costituito dalla possibilità di un confronto permanente tra gli opposti interessi organizzati. L’idea della {p. 188}democrazia collettiva o pluralista, cioè di una democrazia che riconosce al conflitto tra le organizzazioni di interessi un ruolo propulsivo del sistema, implica essenzialmente che la posizione dei lavoratori sia concepita non come uno status, ma dinamicamente come un processo, di cui gli stadi successivi, segnati dagli atti di composizione del conflitto, rappresentano momenti di tregua e di transizione verso nuovi equilibri [26]
.
Ora, in un sistema economico capitalistico, caratterizzato dalla tendenza del potere economico a concentrarsi nei gruppi che controllano i mezzi di produzione e i posti di lavoro, la realizzazione di un regime politico-sociale di democrazia collettiva postula interventi di natura giuridico-istituzionale destinati a rafforzare l’organizzazione sindacale dei lavoratori. Un aspetto essenziale del pluralismo, quando sia utilizzato dall’ordinamento giuridico come strumento addizionale di integrazione politica dei cittadini, è il trattamento differenziato dei gruppi in vista di un bilanciamento dei loro rapporti di forza, e quindi l’abbandono da parte dello Stato della posizione di neutralità di fronte ai conflitti sociali [27]
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Un disegno politico di questo tipo si è delineato nel nostro paese con la legge 20 maggio 1970, n. 300, nota sotto il nome, non del tutto appropriato, di «statuto dei lavoratori». Il periodo precedente, che occupa un arco di oltre vent’anni, è contrassegnato dalla prevalenza dell’indirizzo tradizionale, orientato nel senso di una legislazione di tutela individuale dei lavoratori, anche se alcuni provvedimenti hanno adempiuto, in via secondaria e indiretta, una funzione di rafforzamento del sindacato [28]
. Si
pensi alla legge 22 dicembre 1956, n. 1589, che ordinò il distacco delle aziende con prevalente partecipazione statale dalle organizzazioni degli altri datori di lavoro: legge destinata a rafforzare l’azione di intervento dello Stato nell’economia, sottraendola all’interferenza di direttive e di solidarietà contrastanti, ma che indirettamente, in quanto ruppe il fronte unitario dei datori di lavoro nell’industria, ebbe anche un effetto rafforzativo dell’azione contrattuale del sindacato, introducendo un fattore potente di evoluzione della contrattazione collettiva. Si pensi alla legge 14 luglio 1959, n. 741, formalmente concepita in funzione dell’art. 36 Cost., ma che sostanzialmente promosse un sistema di estensione erga omnes dell’efficacia dei contratti collettivi. Infine la legge 15 luglio 1966, n. 604, sulla tutela dei lavoratori contro i licenziamenti individuali, ha contribuito indirettamente a rafforzare le possibilità di controllo del sindacato sui posti di lavoro.
La legge 20 maggio 1970 opera un salto qualitativo, inquadrabile in un nuovo e più specifico concetto di legislazione di sostegno del sindacato. Secondo questo concetto, la legislazione dello Stato non deve limitarsi a riconoscere i risultati dell’azione sindacale munendoli di sanzione giuridica, per es. la sanzione di inderogabilità del contratto collettivo in sede di stipulazione del contratto individuale di lavoro e la sanzione di efficacia erga omnes, ma deve apprestare un complesso di garanzie, soprattutto di ordine ambientale, necessarie perché l’organizzazione sindacale dei lavoratori possa liberamente svilupparsi. Il momento più qualificante della legge 20 maggio 1970 è costituito appunto dal riconoscimento che l’azione collettiva non può avere un rilievo determinante della posizione giuridica globale dei lavoratori qualora il sindacato non riesca a inserirsi saldamente all’interno delle imprese e a modificare qui la struttura del potere economico [29]
mediante l’assunzione di un controllo dei posti {p. 190}e dei processi di lavoro [30]
. Tanto forte è stata questa «presa di coscienza» che il legislatore non ha esitato a fornire al sindacato uno strumento processuale, che rappresenta ima delle innovazioni più incisive non solo dal punto di vista politico, ma anche dal punto di vista tecnico-giuridico. Alludo all’azione prevista dall’art. 28 contro i comportamenti antisindacali dei datori di lavoro, e quindi finalizzata a una tutela giurisdizionale immediata dell’interesse collettivo dei lavoratori [31]
.{p. 191}
D’altro lato, assicurando lo sviluppo della libertà sindacale nelle imprese e così rafforzando alla base l’autonomia collettiva, lo statuto ha promosso una condizione primaria della partecipazione del sindacato al potere politico. Tale partecipazione, in cui consiste la seconda delle direttive di azione dello Stato sopra accennate, ha senso e valore solo se costruita sull’autonomia collettiva, come un prolungamento di questa dalla sfera sociale nella sfera politica [32]
: nel senso che la partecipazione deve essere destinata a integrare nella volontà dello Stato la volontà politica che, fuori e indipendentemente dallo Stato, si forma nelle organizzazioni sindacali.
Si è già notato che la tutela costituzionale della contrattazione collettiva come strumento di produzione giuridica extrastatuale involge la qualificazione del sindacato come fattore autonomo di politica economico-sociale. Ne consegue che, nella misura crescente in cui la politica contrattuale del sindacato è in grado di condizionare la politica economica generale del governo, il primo tende ad aumentare tale condizionamento con un’azione ulteriore di pressione diretta sul pubblico potere per influire sui modi e sui tempi di attuazione del programma indicato nel secondo comma dell’art. 3 Cost. Si crea così una polarità tra il sindacato e lo Stato, il quale non vuole, né può rinunciare a una propria politica di intervento nell’as
{p. 192}setto dei rapporti economici e sociali. L’idea di un’emarginazione dello Stato dal campo economico e della creazione di un’economia autoregolantesi mediante il gioco dei gruppi organizzati [33]
, è certo inattuale anche in un paese come il nostro, che sembra attraversare una fase di pluralismo in ascesa e non di pluralismo in declino, quale si starebbe sperimentando, secondo certe diagnosi, negli Stati Uniti d’America [34]
. S’impone perciò l’esigenza di armonizzare la politica economico-sociale dello Stato con quella delle organizzazioni professionali: esigenza tanto più urgente quando si apprende che i sindacati dei lavoratori possono affermare perentoriamente, come si legge nella relazione al sesto congresso della Cisl, che «l’attività contrattuale è destinata a divenire in futuro lo strumento con il quale possiamo esercitare la massima pressione sul sistema economico». E poiché è escluso che l’armonizzazione delle due politiche possa essere ottenuta mediante un’interferenza dello Stato nella formazione della volontà interna dei gruppi, al pubblico potere non rimane altra soluzione se non di ammettere una partecipazione dei gruppi alla formazione della volontà dello Stato [35]
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Note
[24] Cfr. per quanto segue Kahn-Freund, Der Funktionswandel des Arbeitsrechts, cit., pp. 218-222, la cui visione politico-costituzionale, permeata dallo spirito genuino della costituzione di Weimar, ma incline a svalutare le soluzioni di tipo organicistico legate al cosiddetto Räte-System, può ancora offrire un valido modello teorico per l’impostazione del problema quale si pone oggi nel nostro paese. L’ideale della «democrazia collettiva» (Ramm, Der Arbeitskampf und die Gesellschaftsordnung des Grundgesetzes, Stuttgart, 1965, pp. 26 ss., parla di «liberalismo collettivo»), implica che la giurisprudenza intervenga nel conflitto collettivo solo per regolarne il modo di svolgimento (che non deve contrastare con le norme dell’ordinamento statale poste a presidio della convivenza civile), mentre deve astenersi da ogni intervento regolatore dell’oggetto e degli scopi del conflitto.
[25] Secondo la tesi di Schindler, Werdende Rechte, in Festgabe f. Fleiner, Tübingen, 1927, pp. 400 ss., un ordinamento giuridico che istituzionalizza il conflitto industriale sarebbe, dal punto di vista sociologico, un ordinamento incompleto, in quanto ammette l’esistenza di una zona di conflitti d’interessi che sfuggono alla sua presa, e la cui soluzione rimane perciò affidata al confronto di forza (inteso alla stregua di una guerra privata). A parte la discutibilità dell’equiparazione dello sciopero alla guerra da cui muove la tesi in discorso (v. la critica di Ramm, Der Arbeitskampf, cit., p. 1 ss.), la distinzione tra punto di vista giuridico-formale e punto di vista sociologico non riesce a eliminare, ma semmai aggrava la contraddizione racchiusa nell’asserto che «la lotta, anche la lotta giuridicamente limitata, è la negazione del diritto» (p. 401). Nel momento in cui è accolto nell’ordinamento giuridico e qualificato come diritto soggettivo, lo sciopero cessa, nella misura di tale qualificazione, di essere la negazione del diritto. Dal punto di vista sociologico (e politico) non si potrà parlare allora di un fenomeno di incompletezza dell’ordinamento giuridico, ma si dovrà dire piuttosto (come scrive Kahn-Freund, Der Funktionswandel des Arbeitsrechts, cit., p. 223) che «l’ordinamento giuridico utilizza il conflitto per i suoi scopi», fra i quali è essenziale quello della propria completezza. Beninteso, la possibilità di questa strumentalizzazione presuppone che l’ente esponenziale dell’ordinamento, cioè lo Stato, sia in grado di controllare il conflitto e di impedire che esso degeneri in modi di condotta incompatibili con le condizioni di conservazione del sistema.
[26] In questa teorizzazione di Kahn-Freund, op. ult. cit., p. 218, si può forse cogliere un influsso dell’idea dell’integrazione funzionale di Smend, op. cit., spec., pp. 78, 88.
[27] Webb, op. cit., pp. 181 s.
[28] Le leggi che statuiscono minimi di trattamento dei lavoratori, inderogabili non solo dalle parti del contratto individuale, ma anche dalle parti del contratto collettivo di lavoro, operano indirettamente come norme di sostegno del sindacato, e quindi rappresentano una deviazione dal principio (liberale) della neutralità dello Stato di fronte al conflitto collettivo (cfr. Biedenkopf, Grenzen der Tarifautonomie, Kar-Isruhe, 1964, pp. 149 s.).
[29] Si tratta, come osserva Giugni, in «il Mulino», 1970, p. 31, di cercare «forme di esercizio del potere nell’impresa che, scontata la crisi dell’autoritarismo tradizionale, ricostituiscano, ma su basi mutate, il sistema di comando, che è indispensabile per la continuità della produzione». E poiché la continuità della produzione implica la continuità dell’occupazione, si deve aggiungere die il ristabilimento dell’autorità nelle imprese, su nuove basi qualificate dalla partecipazione del sindacato, appare urgente nell’interesse degli stessi lavoratori, al fine di liberarli dall’arbitrio e dalla violenza (definiti, eufemisticamente, «spontaneismo») di irresponsabili gruppuscoli extrasindacali.
[30] Correlativamente, una politica legislativa di sostegno del sindacato implica anche l’esigenza di rafforzamento del controllo del sindacato sul mercato (esterno) del lavoro. In questo senso si dispongono le norme dello statuto che riformano l’organizzazione e la disciplina del servizio pubblico di collocamento (artt. 33 e 34), da un lato restringendo notevolmente i casi in cui è ammessa la richiesta nominativa, dall’altro sottraendo agli organi burocratici del servizio i poteri di decisione circa le precedenze nell’avviamento al lavoro in risposta a richieste numeriche e la concessione del nulla osta per le richieste nominative. Questi poteri sono trasferiti ad organi collegiali (commissioni per il collocamento), in cui i rappresentanti dei lavoratori designati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative si trovano in netta maggioranza. Pur conservando al collocamento il carattere di funzione pubblica (dello Stato), la legge ha promosso, in sostanza, una «sindacalizzazione» del collocamento.
[31] Tuttavia non si possono sottovalutare i pericoli che comporta l’inserimento di una norma del genere nel quadro normativo attuale, caratterizzato dalla carenza di una legislazione sindacale e da una crescente incertezza (per non dire confusione) della giurisprudenza sui limiti del diritto di sciopero. La genericità della clausola generale formulata nell’art. 28 concede uno spazio eccessivo alla discrezionalità del giudice, investito di un potere di pesante interferenza nella gestione delle imprese non vincolato da alcun criterio di individuazione dei comportamenti colpiti dalla norma, e senza che questa sia bilanciata da una disciplina legislativa da cui risulti una linea di confine sufficientemente precisa tra modalità lecite e modalità illecite dello sciopero. Applicato senza discernimento, al di là della ratio che lo ispira, l’art. 28 potrebbe rovesciare i rapporti di forza tra le parti del conflitto industriale, privando i datori di lavoro di ogni possibilità di difesa dell’interesse delle imprese di fronte alle iniziative di lotta, anche sleali, della controparte; potrebbe, cioè, operare come strumento non di equilibrio, sia pure dinamico, ma di eversione del sistema. Le prime vicende dell’esperienza giurisprudenziale in proposito non sono del tutto tranquillizzanti (penso soprattutto a certi pretori, che si sono servizi dell’art. 28 per ripristinare indirettamente il reato di serrata, e proprio in casi in cui la serrata era anche contrattualmente legittima: v. per es. il decreto del pretore di Treviso 3 ottobre 1970, in Foro it., 1970, I, c. 2622, poi revocato dal tribunale, sent. 1° dicembre 1970, ivi, 1971, I, c. 466. Ove la serrata di ritorsione apparisse contrattualmente illecita, l’art. 28 potrebbe essere correttamente applicato solo per sanzionare con efficacia esecutiva immediata l’obbligo del datore di non sospendere il pagamento delle retribuzioni). Si può sottoscrivere l’affermazione di Neumann, Die politische und soziale Bedeutung der arbeitsgerichtlichen Recbtssprechung (1929), nel volume cit., a cura di Ramm, p. 125, che «la giurisprudenza deve fare la sua parte per la liberazione della classe lavoratrice». Ma deve farla con l’equità che si addice al giudice, e imponendo intransigentemente il principio che non v’è libertà senza il rispetto della legge.
[32] Cfr. Fraenkel, Kollektive Demokratie (1929), nel volume cit., a cura di Ramm, p. 93; Hirsch, op. cit., p. 36.
[33] Cfr. Webb, op. cit., p. 183.
[34] Webb, op. cit., p. 189; Rescigno, Ascesa e declino della società pluralistica, nel volume di saggi Persona e comunità, Bologna, 1966, pp. 3 ss.
[35] Kahn-Freund, op. ult. cit., p. 219.