Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c6
Soltanto la concezione giusnaturalistica, ispirata a una immagine ottimistica dell’uomo, può ritenere che la giustizia dei rapporti sociali sia un risultato automatico del gioco delle libertà individuali; e soltanto alla concezione strettamente positivistica le istituzioni giuridiche, come la proprietà e il contratto, possono apparire indifferenti di fronte agli scopi per i quali esse vengono concretamente utilizzate. Praticamente la distanza fra le due concezioni è assai breve, e del resto è noto che al positivismo normativo si è giunti attraverso il positivismo scientifico della scuola pandettistica, il cui criptogiusnaturalismo è ormai unanimemente riconosciuto [9]
. La forma giuridica è impotente a dominare la materia economica quando si svolge esclusivamente nella concessione di diritti soggettivi, riducendo l’idea del dovere giuridico a quella di semplice limite o misura della libertà individuale e così rinunciando a introdurre il dovere nell’intima struttura dell’agire libero. Il diritto soggettivo diventa forma costante di una funzione variabile, le cui esplicazioni sfuggono al controllo dell’ordine giuridico: diventa insomma, secondo il rovesciamento del rapporto operato dall’analisi marxista, mero epifenomeno dell’economia, forma formata anziché forma formante. La proprietà di una fabbrica di macchine è formalmente sempre uguale, ma la sua funzione, cioè il suo significato, varia a seconda che l’imprenditore sia soggetto alla concorrenza o fruisca di una posizione di monopolio. Soltanto nel primo caso essa si attua come potere di autonomia, come libertà di pianificazione dell’im
{p. 152}presa individuale in vista di risultati che riguardano soltanto il proprietario e di cui egli solo quindi sopporta il rischio; nel secondo caso, invece, la proprietà diventa potere dal punto di vista sociale-economico in quanto influisce in modo determinante sul comportamento economico di altri soggetti, limitandone di fatto la libertà [10]
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2. Il modello del «liberalismo collettivo».

La politica del laissez faire ha assolto brillantemente il suo primo compito, che fu quello di stabilire le condizioni necessarie per il sorgere e l’espansione della moderna industria, eliminando i vincoli che opprimevano l’iniziativa economica nell’età precedente. Ma, una volta compiuta l’industrializzazione, essa dovette assumersi un nuovo compito: quello di ordinare la società industriale. Ed in questo secondo compito non è riuscita [11]
. L’astratta libertà individuale, positivamente definita in termini di diritto soggettivo privato, non può essere un principio d’ordine dell’economia, perché essa ha un significato concreto solo per quelli che effettivamente dispongono in partenza di un certo numero di chances, mentre diventa non-libertà per coloro, e sono i più, che partono con poche o punte chances. Data la disuguaglianza delle posizioni individuali di partenza, il principio di libertà diventa uno strumento di formazione di centri di potere economico, ed è allora il potere economico, la forza incontrollata delle formazioni monopolistiche, che assume in realtà la funzione di ordine dell’economia.
La politica del laissez faire si infranse appunto contro la realtà dei monopoli e delle lotte monopolistiche, realtà che divenne sempre più imponente quando la rivoluzione industriale attinse il suo sbocco naturale trasformando il sistema economico in un sistema di produ{p. 153}zione in massa, con la conseguenza che l’individualismo economico fu sostituito da un pluralismo economico nel quale i conflitti di interessi individuali, tipici del modello classico, sono continuati da gruppi collettivi di interesse. Di fronte a questa realtà, dominata dal fenomeno dell’organizzazione degli interessi privati, l’elemento costitutivo dell’ordine economico fu cercato nell’equilibrio tra le forze sociali contrapposte, che erano venute organizzandosi proprio sulla base di quei principi di libertà di contratto e di iniziativa economica dai quali in origine si attendeva la garanzia di uno stato almeno normale di concorrenza individuale tale da lasciare un campo molto limitato per l’esercizio del potere privato e nessuno per il suo abuso. Si riconobbe perciò allo Stato il compito di apprestare nuove forme giuridiche che consentissero ai gruppi organizzati di trovare un comune terreno giuridico per attuare un bilanciamento degli interessi contrapposti. La forma più caratteristica è la libertà di associazione sindacale e il connesso potere di contrattazione collettiva, che succede a un lungo periodo di divieto. Il riconoscimento delle coalizioni operaie si collega con la progressiva introduzione, sul piano dei rapporti politici, dell’istituto del suffragio universale (maschile) destinato a equilibrare il potere economico della classe borghese con la forza politica del numero della classe proletaria. D’altra parte, l’impresa individuale, che era una figura centrale del modello economico classico, cede sempre più il passo all’impresa collettiva, sola capace di far fronte alle esigenze di capitale della produzione di massa, e a tale scopo la forma della società per azioni fu staccata dagli originari presupposti concessionistici e rielaborata come forma principale di esplicazione della media e della grande impresa.
In questa seconda fase l’intervento pubblico diretto rimane pur sempre marginale, sebbene al potere di riserva dello Stato si riconosca un margine maggiore in proporzione alla minor fiducia nell’automatismo del nuovo tipo di equilibrio economico. Espressione tipica di questa concezione intermedia, sul piano della disciplina giuridica,
è il sistema detto «del controllo dell’abuso» in materia di cartelli e di posizioni dominanti.
Il pluralismo economico, inteso come forma di spontaneo autoregolamento dell’economia operante attraverso il gioco di contrapposti poteri di equilibrio, cioè attraverso la sostituzione del gioco dei gruppi al gioco degli individui, si è dimostrato scarsamente funzionale e soggetto a rapidi processi di degenerazione. La forma giuridica della società per azioni è divenuta strumento potente di incremento dei monopoli e quindi di ingigantimento del potere economico delle imprese, ma al tempo stesso ha operato nel senso di un trasferimento del potere a persone diverse dai proprietari. Sotto questo profilo essa è diventata un elemento ulteriore di squilibrio creando una nuova categoria sociale priva di potere economico: la massa degli azionisti estromessi dal governo delle grandi società. D’altro lato, l’acquisizione di un potere contrattuale collettivo da parte dei lavoratori ha determinato per naturale reazione un simmetrico fenomeno da parte degli imprenditori, con conseguente riproduzione anche sul piano della contrattazione collettiva di una disuguaglianza di potere contrattuale, tanto maggiore nei paesi, come il nostro, afflitti da una disoccupazione cronica di massa e con vasti strati della popolazione a bassissimo livello culturale. Certo il contratto collettivo è stato uno strumento di miglioramento dei salari e in genere delle condizioni di lavoro, e quindi un mezzo di più equa distribuzione della ricchezza prodotta. Ma esso si è invece rivelato incapace di determinare una effettiva partecipazione dei lavoratori al potere economico, cioè alle decisioni inerenti al processo produttivo, dal cui andamento dipende la loro vita. Infine una società economica pluralistica può elaborare un ordine economico solo se in essa riesca a esprimersi un potere di equilibrio anche da parte dei consumatori; ma l’organizzazione dei consumatori, di cui la forma giuridica principe è la società cooperativa, ha avuto scarsissimi sviluppi. In queste condizioni il pluralismo economico diventa causa di disintegrazione dell’ordine economico in una contrapposizione di gruppi eco{p. 155}nomici incapaci di equilibrarsi, e minaccia addirittura di produrre la decomposizione dell’unità dello Stato [12]
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3. La costituzione economica come problema di coordinamento dell’economia con un sistema di valori morali.

A questo punto il problema dell’ordine economico investe la struttura dello Stato. Chiusa la parentesi del corporativismo autoritario, il problema sta nel realizzare con strumenti giuridici un ordine che renda possibile un compromesso fra i due modelli estremi dell’economia di libero mercato e dell’economia totalmente pianificata da un organo centrale, riassumente in sé l’intero potere politico ed economico; di realizzare insomma una combinazione della libertà individuale e di gruppo con una direzione statale dell’economia. Dalla riuscita di questo tentativo dipendono la nostra futura esistenza come popolo libero e la conservazione dei valori più profondi della nostra tradizione civile. Oggi diventa sempre più chiaro che la sicurezza della democrazia non riposa in ultima analisi sul procedimento di formazione della volontà dello Stato, ma su un ordine sociale che assicuri a ciascuno una posizione corrispondente alla sua specifica partecipazione alla comunità economica [13]
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Il rinnovamento della struttura democratica dello Stato implica una nuova concezione del rapporto tra diritto ed economia. Il diritto non è mera forma esteriore del comportamento economico, destinata a garantire a ciascuno un’autonoma possibilità di scelta, così che non il contenuto della scelta, ma soltanto il modo di essa prenda regola dal diritto. A questa concezione puramente formale è venuta sostituendosi una concezione finalistica che vede nella norma giuridica una componente strutturale dell’attività economica, condizionante e a sua volta condizionata, onde diritto ed economia costituiscono parti {p. 156}integranti e fra loro interdipendenti di un’unica realtà [14]
. In altre parole, è attribuita al diritto la funzione di una disciplina delle scelte economiche, in virtù della quale il principio economico, cioè la ricerca della soddisfazione dei bisogni dell’uomo, viene coordinato con un sistema di valori autonomi rispetto all’economia, che è compito del diritto realizzare nell’esperienza economica. Più precisamente ancora, il diritto assume una funzione di mediazione tra la realtà economica e un determinato sistema di valori morali [15]
, onde l’esperienza economica riceve pienezza di senso e di significato solo dal contenuto materiale della disciplina giuridica.
Rimane così superata l’idea di un ordine naturale dell’economia che il diritto ha solo il compito di garantire, ma viene insieme superata la concezione per cui la legge formalmente valida è per se stessa giusta, in quanto legittimata dalla volontà generale della nazione sovrana. L’ordine dell’economia deve essere il risultato di una decisione consapevole della comunità politico-economica, e in questo senso esso si traduce nel concetto di «costituzione economica». Questa non può divenire diritto positivo se non attraverso atti di legislazione statale, ma la validità delle norme legislative che disciplinano l’economia non dipende semplicemente dal fatto di essere poste da determinati organi competenti e con un dato procedimento, bensì anche da un giudizio sostanziale di conformità del loro contenuto a un sistema di valori fatto proprio dalla legge fondamentale dello Stato [16]
. Senza
{p. 157}questa giustificazione sostanziale, la decisione della maggioranza rischia veramente di apparire una sorta di «giudizio di Dio» secolarizzato [17]
. La crisi del positivismo legislativo – che è «una crisi della democrazia, più esattamente della forza legittimante della volontà generale» [18]
– non si supera mediante l’anti-positivismo, ma piuttosto mediante l’attribuzione della garanzia costituzionale ai valori universali della persona umana. In virtù della garanzia costituzionale questi valori metalegislativi vincolano il contenuto delle norme positive, e quindi assumono il carattere specifico del diritto, che è quello di essere un ordine dotato di forza formativa della realtà. Beninteso forza storicamente condizionata, da cui non ci si può attendere che uno sviluppo graduale e forse destinato a non compiersi mai, così che la nuova costituzione economica deve essere concepita parzialmente come ordine in divenire, come tensione della volontà collettiva verso un ordine giuridico che realizzi progressivamente, in termini sempre perfettibili, il principio della preminenza dell’uomo sulla materia economica.
Note
[9] Wieacker, Privatrechtsgeschicbte der Neuzeit, Gottingen, 1952, pp. 253 ss., 271 ss.
[10] Eucken, Grundsätze der Wirtschaftspolitik, Bern-Tübingen, 1952, pp. 272 s.
[11] Eucken, op. cit., p. 29; Böhm, Wirtschaftsordnung und Staatsverfassung, Tübingen, 1950, p. 24. Per un retto giudizio storico si prenda nota tuttavia del rilievo di Schumpeter, Storia dell’analisi economica, vol. II, Torino, 1959, p. 665.
[12] Huber, Selbstverwaltung der Wirtschaft, Stuttgart, 1958, p. 56.
[13] Ballerstedt, op. cit., p. 42 (v. anche p. 19, e, dello stesso). Über wirtschaftliche Massnahmegesetze, cit., p. 389). In termini di democrazia politica, si tratta di realizzare l’idea della democrazia come sintesi dei principi di libertà e di uguaglianza.
[14] Stammler, op. cit., pp. 211 ss.; Heymann, Recht und Wirtschaft, dt., p. 210; Capograssi, op. cit., pp. 185, 188; Ascarelli, Ordinamento giuridico e processo economico, in Problemi giuridici, vol. I, Milano, 1959, p. 47. Le due concezioni contrapposte nel testo possono anche designarsi come concezione puramente normativa e concezione istituzionalistica del diritto.
[15] In questo senso è accettabile la definizione dello scopo del diritto proposta da Camelutti, Teoria generale del diritto3, Roma, 1951, p. 21: «lo scopo del diritto consiste nel ridurre all’etica l’economia».
[16] La nostra Costituzione non contiene propriamente una costituzione economica, ma soltanto l’enundazione di una serie di prindpi direttivi per la costruzione di un nuovo ordine economico. Leiser, Grundrechte und Privatrecht, München, 1960, p. 181, osserva che «l’apparire della problematica della costituzione economica annunzia la fine dell’ordine liberistico dell’economia, solo costituzionalmente tutelato, non costituzionalmente costruito».
[17] Cfr. Menger, Vom Wenden und Wesen der Demokratie, in Staatsund Verwaltungswissenschaftliche Beiträge, pubblicati dalla Hochschule di Speyer (Stuttgart, 1957), p. 59.
[18] Wieacker, Privatrechtsgeschichte, cit., p. 331.