Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c14
Non è opportuno appesantire la relazione scritta con un’esposizione particolareggiata delle norme citate e dell’interpretazione, tutt’altro che concorde, da esse ricevuta nei primi cinque anni di applicazione dello «statuto». Conviene piuttosto tentare di penetrarne il significato si
¶{p. 402}stematico e di chiarirne la portata sulla concezione del rapporto di lavoro e sul nesso funzionale con l’impresa.
Un autore tedesco
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ha definito la legge del 1970 «un Betriebsverfassungsgesetz italiano». Per quanto suggestiva, tale valutazione, non priva di echi nella nostra dottrina, ha un valore meramente descrittivo e prevalentemente politico. Sul piano normativo l’impostazione delle due leggi è radicalmente diversa. Entrambe si fondano sul principio costituzionale della Menschenwürde, ma la legge italiana non sviluppa questo principio battendo la via tracciata dalla costituzione di Weimar (alla quale è ispirato l’art. 46 della nostra Costituzione), cioè la via dell’istituzionalizzazione dell’impresa nel quadro dell’ordinamento giuridico dello Stato mediante l’attribuzione ai lavoratori, in quanto membri della comunità d’impresa, di diritti formali di codecisione, esercitati da rappresentanze elettive, in merito alle disposizioni determinative dei comportamenti dovuti dai singoli nei confronti del datore di lavoro. Il contesto socio-politico in cui è maturato l’intervento legislativo ha suggerito una scelta diversa, del resto conforme all’orientamento della dottrina italiana tradizionalmente ostile alle concezioni istituzionalistiche del rapporto di lavoro. La legge prende in considerazione il lavoratore come parte del contratto di lavoro e modifica in senso profondamente innovativo la disciplina del rapporto fondato sul contratto, accentuandone la specialità rispetto agli altri rapporti di scambio.
Il dato peculiare dell’implicazione della persona del lavoratore nel rapporto, che finora era la ratio di limiti imposti all’autonomia negoziale del datore in ordine alla formazione delle condizioni di scambio sul mercato del lavoro e all’esercizio del potere di recesso, assume una ulteriore e più penetrante rilevanza giuridica quale criterio di attrazione nell’area degli interessi protetti dal contratto anche di interessi non patrimoniali del debitore del lavoro, sottratti in tutto o in parte alla disponibilità del ¶{p. 403}creditore. Mentre, secondo la disciplina precedente, tali interessi non erano coinvolti nel contratto, ora sono coinvolti in funzione di una tutela specifica, mediata dal contratto (talvolta già dal rapporto precontrattuale: art. 8) e operante come limite formale, tecnicamente atteggiato in varia forma, del potere direttivo e di controllo dell’imprenditore.
La nuova configurazione del rapporto di lavoro, che introduce nel regolamento contrattuale la considerazione dei valori coessenziali alla persona del lavoratore, si riflette sull’assetto istituzionale dell’impresa in cui il lavoratore è inserito, comprimendone la struttura autoritaria e il carattere di dipendenza gerarchica che ne deriva alla subordinazione. In questo senso lo «statuto dei diritti dei lavoratori» assume il significato politico di una «costituzionalizzazione» dell’impresa. Ma dal punto di vista tecnico-giuridico, i diritti riconosciuti ai lavoratori nella fabbrica non configurano uno status distinto dal rapporto contrattuale e collegato all’inserzione del lavoratore nell’impresa.
7. Declino del potere disciplinare.
Valutata sotto il profilo della relazione tra impresa e contratto di lavoro, la portata innovativa dello «statuto» si risolve in un depotenziamento delle «esigenze dell’impresa» come criterio di conformazione dei poteri del datore e corrispondentemente della subordinazione del prestatore di lavoro. Esse conservano rilevanza come limite interno, e quindi misura di controllo dell’esercizio corretto di certi poteri non assoggettabili a limiti esterni di caratteri rigido (per es. il potere di trasferimento del lavoratore da una unità produttiva ad un’altra, il potere di determinazione dell’epoca di godimento delle ferie, peraltro nella pratica ormai sostituito da un accordo con i consigli di fabbrica), e ancora come parametro della diligenza dovuta dal debitore del lavoro, correlativamente al profilo collaborativo della prestazione e quindi alla funzione della subordinazione quale strumento di coordinamento con le prestazioni degli altri lavoratori impegnati nell’organizzazione pro¶{p. 404}duttiva. Le esigenze dell’impresa hanno perduto, invece, la forza attrattiva dei poteri dell’imprenditore, fondati sul contratto, nella sfera del principio gerarchico che storicamente sta alla base dell’organizzazione. Emblematici in questo senso sono gli artt. 7 e 13.
Lo jus variandi, che nella disciplina originaria del codice (art. 2103) si atteggiava come potere di discrezionalità tecnica funzionalizzato alle esigenze dell’impresa e comprensivo anche di spostamenti a mansioni inferiori a quelle dedotte in contratto (purché non tanto diverse da importare un mutamento sostanziale nella posizione del lavoratore), è ora ridotto entro il limite rigido segnato dal concetto di «mansioni equivalenti»: limite coerente con l’oggetto del contratto e destinato a favorire l’interesse del lavoratore alla conservazione e all’arricchimento delle proprie capacità professionali, piuttosto che l’interesse dell’impresa alla mobilità (orizzontale) del lavoro. Il limite è talmente rigido che in pratica nessun mutamento dell’organizzazione del lavoro, imposto da innovazioni tecnologiche o dalla congiuntura economica, è più possibile senza una contrattazione e un accordo con le rappresentanze sindacali.
Il potere disciplinare è stato spogliato dei caratteri che ne contrassegnavano l’esercizio come emanazione tipica della supremazia gerarchica del capo dell’impresa: accertamento unilaterale dell’infrazione, immediatezza e definitività della sanzione (riservata la possibilità di ricorso del lavoratore all’autorità giudiziaria). Tali caratteri non sono negati dall’art. 2106 c.c., salve diverse disposizioni dei contratti collettivi, cui la scarna norma del codice rinvia. La nuova disciplina legale dell’art. 7 assoggetta il potere disciplinare a limiti sostanziali (per es. tipizzazione delle sanzioni) e procedurali che lo staccano dal potere organizzativo dell’imprenditore per ricondurlo a una nozione rigorosa della responsabilità disciplinare come forma speciale della responsabilità contrattuale, operante nell’ambito di un rapporto, quale appunto il rapporto costituito dal contratto, intercorrente tra soggetti posti su un piede di uguaglianza. Ma la separazione dal potere organizza¶{p. 405}tivo contraddice la ragion d’essere del potere disciplinare e lo priva di vitalità. Il fondamento giustificativo del potere risiede nella specialità del contratto di lavoro, mediante il quale il lavoratore, a differenza di ogni altro debitore, assume un’obbligazione il cui adempimento sarà interamente programmato e organizzato dal creditore. Perciò il potere disciplinare, in quanto è un aspetto strumentale dell’attività organizzativa del datore di lavoro, richiede ima disciplina speciale rispetto ai principi comuni dei contratti, non solo in ordine ai presupposti della responsabilità del prestatore di lavoro, ma anche in ordine alla funzione di intervento immediato per il ripristino dell’ordine dell’organizzazione. L’art. 7 rifiuta questa conseguenza in nome della logica egualitaria del contratto. Ma la partecipazione di rappresentanti sindacali all’accertamento dell’infrazione, fosse pure ai fini dell’inflazione di una semplice censura, l’imposizione di un lasso di almeno cinque giorni tra la contestazione dell’infrazione e l’applicazione della sanzione, la facoltà del lavoratore di sospendere la sanzione con la richiesta di intervento di un collegio arbitrale, sono tutti elementi che ostacolano un uso efficiente del potere disciplinare dal punto di vista delle esigenze organizzative.
In realtà, l’art. 7 è il segno del tramonto di questo potere, uno dei tanti segni della crisi del principio di autorità nell’attuale momento storico. Gli indici statistici più recenti dell’applicazione di sanzioni disciplinari nelle aziende seguono una curva fortemente discendente, che conferma sul piano della sociologia aziendale il fenomeno dell’esautoramento dell’autorità dei «capi», costretti ogni giorno a contrattare le modalità del lavoro con i membri del reparto o della squadra. Ormai il potere disciplinare ha perduto l’originaria funzione correttiva dei comportamenti difformi dalla disciplina dell’impresa, e il suo esercizio tende a ridursi ad una funzione sostitutiva del provvedimento di licenziamento nei casi in cui, nonostante la gravità dell’infrazione, il datore di lavoro preferisca non affrontare i rischi che l’applicazione della sanzione risolutiva del contratto comporta.¶{p. 406}
8. Valutazione conclusiva.
Dopo oltre cinque anni di applicazione dello «statuto», l’esperienza ha dimostrato ciò che l’analisi socio-politica del modello della «partecipazione conflittuale», compiuta dalla cultura di altri paesi più avanzati, aveva già segnalato: ossia la precarietà del modello. Esso può servire in tempi di emergenza, quali furono appunto gli anni intorno al 1970, ma non è in grado di assicurare un sistema stabile di relazioni industriali.
Lo statuto ha favorito il recupero da parte del sindacato del controllo sul movimento dei lavoratori, ma le norme che hanno promosso la formazione nelle aziende di un contropotere operaio controllato dal sindacato non sono riuscite a trasformare il conflitto industriale in un metodo di partecipazione e di corresponsabilizzazione dei lavoratori organizzati alla gestione dell’organizzazione produttiva. Il dato originario della conflittualità permanente, della contestazione di qualsiasi forma di legalità industriale si è tradotto in un processo di contrattazione continua, i cui esiti negoziali non sono assistiti da alcuna garanzia di stabilità, e quindi non introducono nel processo periodi di tregua e di consenso partecipativo, ma segnano piuttosto punti di chiusura di una fase del conflitto e di immediata apertura di una nuova fase. È venuta meno così una delle funzioni originarie e indeclinabili della contrattazione collettiva: quella di tutelare l’aspettativa dell’imprenditore di essere posto in grado di calcolare in anticipo i costi di lavoro su basi ragionevolmente affidabili
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. La funzione organizzativa dell’imprenditore è paralizzata dallo scontro quotidiano con la contestazione di un potere antagonistico non vincolato da nessuna regola di responsabilità.
Il movimento dei lavoratori e i sindacati che lo rappresentano non possono ormai più a lungo sottrarsi a una scelta decisiva: o accettare il completamento del progetto costituzionale, e quindi un nuovo intervento legislativo che integri lo «statuto» nel principio dell’art. 46, con la contropartita, da parte degli imprenditori, dell’accetta
¶{p. 407}zione di un concorso dei lavoratori alla determinazione degli obiettivi della produzione e dei criteri di ripartizione dei profitti nel quadro di una programmazione democratica dell’economia nazionale; oppure instaurare un nuovo sistema economico di tipo collettivistico, con conseguente mutamento del regime politico-costituzionale in senso autoritario.