Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c14
Nel 1962 l’Italia era giunta a un grado di sviluppo economico prossimo al pieno impiego delle forze di lavoro: nell’anno successivo il tasso di disoccupazione scese al 2,5 per cento che è il livello più basso della nostra storia economica. Tale situazione determinò un forte incremento di potere contrattuale delle organizzazioni sindacali, che non solo accelerò la dinamica dei salari a livello delle categorie professionali, ma costrinse gli industriali ad accettare un nuovo sistema di contrattazione collettiva, detta articolata o decentrata. Questo sistema fu essenzialmente uno strumento di controllo sindacale sull’organizzazione del lavoro: non però di un controllo diretto, tale da condizionare le decisioni connesse alle innovazioni tecnologiche, ma soltanto un controllo indiretto, cioè sulle conseguenze negative per i lavoratori prodotte dai muta
{p. 397}menti dell’organizzazione del lavoro (ritmi più intensi, carichi più pesanti, maggiore nocività dell’ambiente, dequalificazione delle mansioni ecc.). Mediante il rinvio della contrattazione al livello aziendale, in ordine ai sistemi di cottimo, ai premi di produzione e alla valutazione delle mansioni, tali conseguenze venivano «monetizzate» in forma di salari aggiuntivi proporzionali agli incrementi di redditività delle singole imprese.
In definitiva, il nuovo modello di relazioni industriali instaurato nel 1962, senza modificare l’assetto istituzionale delle imprese e quindi conservando intatti i poteri imprenditoriali sull’organizzazione della produzione, sottraeva alla determinazione unilaterale delle direzioni aziendali, assoggettandoli invece alla negoziazione con i sindacati, i criteri e la misura della partecipazione dei lavoratori ai benefici economici del progresso tecnologico. Era dunque un modello ancora coerente con la logica dell’economia di mercato, del resto non privo di precedenti già nella contrattazione collettiva del periodo precorporativo. Ma era un modello non vitale: da un lato, perché cercava di risolvere le nuove rivendicazioni dei lavoratori relative al «modo di stare in fabbrica» alla stregua delle tradizionali rivendicazioni economiche (cioè in termini di aumenti salariali), eludendo la questione fondamentale dei diritti dei lavoratori nei luoghi di lavoro; dall’altro perché riconosceva ai sindacati una legittimazione contrattuale anche al livello aziendale, senza però ammettere le loro rappresentanze nei luoghi di lavoro. Quando si accetta di negoziare col sindacato, fuori dalla fabbrica, le conseguenze delle innovazioni tecnologiche, presto o tardi il sindacato pretenderà di entrare nella fabbrica per assumervi un controllo diretto dell’organizzazione del lavoro.

5. Lo statuto dei lavoratori del 1970.

Sono questi i due motivi di fondo della legge 20 maggio 1970, n. 300 (nota col nome di «statuto dei diritti dei lavoratori»), che accoglie le nuove rivendicazioni del movimento dei lavoratori emerse nella grande crisi delle relazioni industriali degli anni 1968-’69, fortemente impregnata dallo spirito {p. 398}della lotta di classe e segnata dalla revoca del consenso operaio all’organizzazione del lavoro secondo i criteri della razionalità capitalistica. La crisi ha determinato una riqualificazione politico-organizzativa dei sindacati e, in successione immediata, un mutamento radicale della politica legislativa dello Stato.
Nel contenuto della legge, complesso e apparentemente disorganico, si possono distinguere due zone: l’una costituita dalle norme («garantistiche») che definiscono e tutelano i diritti dei lavoratori nei luoghi di lavoro; l’altra costituita dalle norme («promozionali») che favoriscono e consolidano la presenza dei sindacati nelle unità produttive. I due gruppi di norme convergono verso un unico obiettivo, nel quale si compendia il significato fondamentale del provvedimento: quello di un intervento sull’organizzazione del lavoro nelle imprese per sottometterla all’esigenza di armonizzazione dei valori dell’efficienza produttiva, di cui è portatore il potere organizzativo dell’imprenditore, con i valori soggettivi di cui è portatore il fattore lavoro. La legge muove da una posizione critica nei confronti dell’ideologia tecnocratica e tende a impedire che il senso del processo evolutivo della moderna società tecnologica si esaurisca nella sua funzione interna di razionalizzazione del progresso, cioè nei valori immediati dell’efficienza, proponendo invece l’imperativo di commisurarlo costantemente a un fine trascendente integrato nella totalità dei valori propri della persona umana.
I due gruppi di norme sopra distinti sviluppano due direttive costituzionali. In primo luogo la direttiva dell’art. 41, comma 2°, valutato come norma di collegamento dei diritti individuali costituzionalmente garantiti col rapporto di lavoro, ossia come norma che autorizza una tutela speciale e privilegiata di tali diritti nei confronti del potere organizzativo del lavoro nell’impresa. In secondo luogo la direttiva dell’art. 46, che svolge il principio di libertà, emergente nel secondo comma dell’art. 41 in antitesi alla struttura autoritaria dell’iniziativa economica, in un’istanza di partecipazione dei lavoratori alle decisioni inerenti all’organizzazione produttiva, destinata a pro{p. 399}muovere, su nuove basi di democrazia industriale, la ricostruzione del consenso al sistema di comando al quale essi sono individualmente assoggettati mediante il contratto di lavoro. Ma quest’ultima direttiva è attuata secondo un concetto di partecipazione e un corrispondente modello operativo totalmente diversi da quelli prefigurati dalla norma costituzionale. Il termine di riferimento storico dell’art. 46 è il modello weimariano dei consigli di azienda, nell’ambito del quale si pensava potessero consolidarsi, una volta rientrati nella legalità, i consigli di gestione costituiti nell’immediato dopoguerra in Italia: cioè un modello di partecipazione organica, ispirato al principio della collaborazione e impostato sul riconoscimento di un interesse comune del datore e dei prestatori di lavoro al raggiungimento dello scopo produttivo dell’impresa. Invece la legge del 1970, nata nella temperie di un improvviso e sconvolgente risveglio della lotta di classe, prolunga il momento contrattuale nella fase esecutiva dei rapporti di lavoro favorendo la costituzione nelle unità produttive di un contropotere dei lavoratori operante, col metodo della contrattazione collettiva, come potere di controllo sull’esercizio della funzione organizzativa dell’imprenditore. Quest’altro modello, il quale tenta di conciliare la lotta di classe con la legalità democratica indirizzando il conflitto verso sbocchi negoziali che consentono l’alternarsi di periodi di tregua, viene solitamente designato con l’espressione, carica di ambiguità, di «partecipazione conflittuale». Esso non istituzionalizza la partecipazione, bensì istituzionalizza il conflitto come mediatore di partecipazione attraverso il metodo sindacale e secondo regole del gioco non formalizzate.
Perciò, mentre nell’art. 46, storicamente interpretato, è latente il principio tradizionale della neutralizzazione sindacale delle imprese, invece la legge del 1970 ha favorito e consolidato l’ingresso dei sindacati nelle unità produttive in funzione di sostegno (e di controllo) delle nuove forme di organizzazione di fabbrica dei lavoratori, espresse nell’assemblea e nei consigli di fabbrica, così che il potere dell’imprenditore, oltre ai limiti formali fissati {p. 400}dalla legge sul piano della disciplina dei rapporti individuali di lavoro, incontra un limite ulteriore, mobile e con contenuti difficilmente prevedibili dalla programmazione aziendale, costituito dalla necessità di confrontarsi e coordinarsi permanentemente, giorno per giorno, con un potere antagonistico.
L’approfondimento del secondo aspetto dell’intervento legislativo, che sostituisce al principio precedente della separazione del rapporto individuale di lavoro dal rapporto collettivo la tendenza a integrare i due rapporti in una «combinazione di processi di subordinazione e di coordinazione», non è compito della presente relazione. L’oggetto di essa è limitato al primo aspetto, rappresentato dalle norme che si propongono «di contribuire a creare un clima di rispetto della dignità e della libertà umana nei luoghi di lavoro, riconducendo l’esercizio dei poteri direttivo e disciplinare dell’imprenditore nel loro giusto alveo e cioè in una stretta finalizzazione allo svolgimento delle attività produttive».

6. I limiti del potere organizzativo e direttivo dell’imprenditore.

Come si argomenta dalla frase ora riferita della relazione ministeriale, la legge ha preso le mosse dal presupposto che nell’ordinamento precedente la rilevanza riconosciuta alle esigenze delle imprese si fosse tradotta nei fatti, al di là delle intenzioni del codice, in una sovrapposizione delle regole dell’organizzazione precostituita dal datore di lavoro alle regole del contratto, vanificando nello svolgimento del rapporto la distinzione tra prestazione lavorativa e persona del lavoratore, che è il principio informatore della concezione del contratto di lavoro come contratto di scambio. La legge si sforza perciò di ricondurre il potere organizzativo dell’imprenditore entro gli argini segnati dall’oggetto e dalla causa del contratto, e a tale scopo definisce i valori di dignità del lavoratore che non possono essere coinvolti nel rapporto di subordinazione, o possono esserlo solo nella misura strettamente indispensabile e con adeguate garanzie, assicurando un assetto più equilibrato degli interessi contrapposti delle {p. 401}parti, e quindi più coerente con la logica egualitaria del contratto.
Il concetto di «dignità del lavoratore» è assunto in senso ampio (ben diverso dalla «dignità sociale» di cui parla l’art. 3 Cost.), determinato in relazione alla condizione umana nei luoghi di lavoro e comprensivo non solo del diritto all’onore e alla riservatezza (che può essere leso da certe forme di esercizio del potere di vigilanza e di controllo dell’imprenditore: artt. 2-6, 8), ma anche del diritto di difesa nel caso di contestazione di infrazioni disciplinari (art. 7), del diritto alla salute (art. 9), del diritto di conservazione e sviluppo delle capacità professionali (art. 13), del diritto allo studio (art. 10) e del diritto all’autonoma programmazione del tempo libero (art. 11). Il mezzo tecnico prescelto per la tutela degli interessi (non patrimoniali) riassunti nel concetto di «dignità del lavoratore» non è sempre il medesimo. Più frequentemente esso consiste nell’imposizione all’imprenditore di divieti che limitano il contenuto o i modi di esercizio del potere direttivo e disciplinare; in qualche caso consiste, invece, nell’attribuzione al lavoratore di una pretesa obbligatoria nei confronti del datore, talvolta ad esercizio individuale (art. 10), talaltra ad esercizio collettivo (artt. 9 e 11) [7]
. Ma limiti indiretti all’autonomia organizzativa dell’imprenditore derivano anche dalle norme che tutelano la «libertà del lavoratore» (art. 1 e art. 14, al quale si ricollegano gli artt. 19 e 26), presidiate dal divieto di atti discriminatori, motivati dalla fede politica o religiosa del prestatore di lavoro oppure dalla sua affiliazione sindacale o dalla partecipazione ad attività sindacali.
Non è opportuno appesantire la relazione scritta con un’esposizione particolareggiata delle norme citate e dell’interpretazione, tutt’altro che concorde, da esse ricevuta nei primi cinque anni di applicazione dello «statuto». Conviene piuttosto tentare di penetrarne il significato si
{p. 402}stematico e di chiarirne la portata sulla concezione del rapporto di lavoro e sul nesso funzionale con l’impresa.
Note
[7] Cfr. Veneziani, in Commentario dello statuto dei lavoratori, diretto da Prosperetti, vol. I, Milano, 1975, p. 278.