Luigi Mengoni
Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c14
Perciò alla maggiore intensità dei limiti imposti all’autonomia contrattuale, sia dalla legge sia dai contratti col
{p. 392}lettivi, essi pure elevati a fonte di diritto oggettivo, corrisponde nel diritto corporativo un rafforzamento dei poteri del datore di lavoro nella qualità di capo dell’impresa, responsabile verso lo Stato «dell’indirizzo della produzione e degli scambi in conformità della legge e delle norme corporative» (art. 2088 c.c.). Da un lato viene meglio garantito l’equilibrio contrattuale delle parti del rapporto di lavoro, specialmente mediante l’introduzione di forme di controllo sindacale sull’assegnazione delle qualifiche e sulla formazione delle tariffe di cottimo, dall’altra la rilevanza giuridica del nesso funzionale con l’organizzazione produttiva opera come canale di trasferimento nel contenuto del rapporto di posizioni di comando e di soggezione non coerenti con la logica del contratto e improntate alla logica della struttura gerarchica in cui il lavoratore, mediante il contratto, è inserito. Per questa via il cosiddetto ius variandi dell’imprenditore, cioè il potere di modificare unilateralmente l’oggetto del contratto trasferendo il lavoratore a mansioni diverse da quelle pattuite, viene configurato dall’art. 2103 come effetto naturale del contratto, indipendente da un patto delle parti e funzionalizzato alle esigenze dell’impresa. Le medesime esigenze sopravvengono nell’art. 2104 a qualificare la diligenza dovuta dal prestatore, commisurandola non solo alla natura della prestazione dovuta, secondo i principi generali delle obbligazioni, ma anche allo scopo unitario dell’organizzazione produttiva, sebbene esso sia di per sé estraneo al vincolo obbligatorio assunto col contratto.
Infine la rilevanza attribuita all’interesse dell’impresa, quale criterio di determinazione degli effetti del contratto di lavoro, si manifesta nell’art. 2106, che configura anche il potere disciplinare come effetto naturale del contratto, indipendente da una esplicita previsione delle parti. Certo la subordinazione, ravvisata come modalità dell’attività promessa dal lavoratore, implica la soggezione alla disciplina del lavoro nell’impresa. Ma altro è la soggezione al potere direttivo dell’imprenditore, di cui il potere di disciplina è una emanazione tipica, e altro la soggezione al potere disciplinare, inteso come potere di reagire alla vio{p. 393}lazione degli obblighi di comportamento del lavoratore con sanzioni e secondo regole diverse da quelle predisposte dal diritto comune per l’inadempimento dei contratti. In questo senso il potere disciplinare è un potere di supremazia speciale che trascende la misura del contratto di scambio, essendo rivolto a sanzionare inadempimenti del lavoratore i quali, pur se irrilevanti secondo i principi comuni (art. 1455 c.c.), in quanto non turbano sensibilmente l’equilibrio contrattuale, sempre assumono rilevanza nella sfera dell’impresa in quanto turbano l’ordine dell’organizzazione. Perciò la dottrina dell’ordinamento precorporativo riteneva necessario, per fondare il potere disciplinare, uno specifico patto delle parti, che normalmente s’intendeva stipulato per relationem alle regole sulle sanzioni disciplinari contenute nel contratto collettivo o, in mancanza, nel regolamento d’impresa, secondo la tecnica, rispettivamente, del contratto normativo o del contratto per adesione.
Solo se la qualificazione causale del contratto di lavoro viene integrata in funzione delle esigenze dell’impresa gestita dal datore, è possibile svolgere un criterio di rilevanza di qualunque inadempimento degli obblighi del lavoratore, assoggettandolo alle sanzioni tipiche dei corpi sociali organizzati, cioè appunto alle sanzioni disciplinari. Questa nuova impostazione, sottostante all’art. 2106 c.c., porta a configurare il potere disciplinare come una posizione giuridica distinta dal potere direttivo e soggetta ad una disciplina autonoma, delegata dalla norma alla contrattazione collettiva. In effetti, i contratti collettivi corporativi elaborarono una notevole regolamentazione, non solo in ordine ai tipi di sanzioni applicabili e alle relative fattispecie, che risultano molto più articolate che nel periodo precedente, ma pure in ordine alle procedure di contestazione delle infrazioni e alle forme di controllo degli abusi, salvo in ogni caso il diritto del lavoratore di ricorrere all’autorità giudiziaria [5]
.
Ciò che mancò in quell’ordinamento fu il riconosci{p. 394}mento di determinati valori della persona del lavoratore non subordinati al potere organizzativo dell’impresa o subordinabili solo entro certi limiti e con adeguati controlli. Quest’altro metodo di disciplina giuridica del potere dell’impresa implica l’idea della democrazia sociale nei luoghi di lavoro, la quale presuppone un regime esterno di democrazia politica. Esponente dell’ordinamento corporativo era invece uno Stato autoritario, che pretendeva dai lavoratori non solo l’esatta osservanza degli obblighi assunti mediante il contratto, ma anche, come «produttori», un impegno costante e globale al servizio dell’interesse superiore della produzione nazionale, garantito da una responsabilità dell’imprenditore verso lo Stato. Questa responsabilità del capo per il comportamento dei suoi subordinati forniva una copertura giuridico-istituzionale alla naturale tendenza del potere organizzativo dell’impresa ad afferrare l’intera persona del prestatore di lavoro.

3. Il primo periodo della Costituzione repubblicana.

Liberate dalle sovrastrutture pubblicistiche dell’ordinamento corporativo, le norme del codice civile, che definiscono i poteri del datore di lavoro nel ruolo di capo dell’impresa, divennero l’espressione delle esigenze di razionalità tecnico-organizzativa proprie dell’impresa operante in una moderna società tecnologica, quale si è rapidamente venuta sviluppando in Italia nel secondo dopoguerra. Nel ventennio successivo alla nuova Costituzione repubblicana la linea politica del diritto del lavoro riprende l’ispirazione tradizionale dell’ultimo Stato liberale. Il precetto costituzionale dell’art. 41, che all’iniziativa economica privata, garantita come strumento di un’economia di libero mercato, impone il limite di compatibilità con la sicurezza, la libertà e la dignità umana, fu interpretato dal legislatore prevalentemente nell’ottica individualistica dell’art. 36, nel quale si riflette la direttiva originaria di tutela del contraente debole sul mercato del lavoro. La frontiera tracciata all’iniziativa economica privata diventa sempre più mobile, le leggi speciali e i contratti collettivi la spostano sempre più avanti, ma in essa l’imprenditore si {p. 395}imbatte soltanto sul mercato, quando si tratta di decidere se assumere lavoratori, chi assumere e a quali condizioni contrattuali assumerlo. Non solo viene sempre più limitata la libertà di determinazione del contenuto del contratto, ma si giunge a comprimere anche la libertà di scelta del prestatore da assumere e perfino, in certi casi, la libertà del datore di decidere se coprire o no un posto di lavoro. Rimane invece immune da interventi legislativi l’altro aspetto della libertà di iniziativa economica, cioè il potere dell’imprenditore sull’organizzazione del lavoro, in accordo, del resto, con la politica contrattuale delle nuove organizzazioni sindacali, la quale si sviluppa sulla base del tradizionale consenso del movimento dei lavoratori all’organizzazione capitalistica del lavoro. Il principio che l’organizzazione del lavoro dipende da criteri oggettivi di razionalità tecnica, la cui applicazione è una prerogativa irrinunciabile dell’imprenditore, e quindi una materia estranea alla contrattazione collettiva a qualsiasi livello, fu una delle idee-forza che guidarono la rapida trasformazione dell’Italia da paese agricolo, con un’industria arretrata, sostenuta da sovvenzioni statali e da rigide protezioni doganali, in un paese industriale avanzato, capace di competere sui mercati internazionali.
Solo in un punto la disciplina del codice civile fu modificata. Il riconoscimento al datore di lavoro di un potere di licenziamento ad nutum, simmetrico al potere di dimissioni del lavoratore (secondo la regola dell’uguaglianza formale delle parti del contratto), rappresentava una vistosa contraddizione in un codice che attribuisce rilevanza giuridica al nesso strumentale del rapporto di lavoro con l’interesse dell’impresa. Tale rilevanza significa che, ferma la libertà dell’imprenditore di scegliere gli obiettivi dell’organizzazione produttiva da lui creata, ed escluso quindi qualsiasi sindacato sullo scopo tecnico dell’organizzazione da lui predeterminato, l’interesse dell’impresa viene assoggettato a una valutazione oggettiva, condotta in relazione alla struttura organizzativa dell’impresa e destinata a fornire una misura di controllo dei motivi di determinati provvedimenti dell’imprenditore nei confronti {p. 396}dei prestatori di lavoro, onde accertare se siano funzionalmente giustificati «rispetto ai bisogni dell’organizzazione, in vista della realizzazione di quel risultato tecnico prestabilito» [6]
. Al contrario, proprio lo strumento più grave per il lavoratore del potere organizzativo dell’imprenditore, cioè il licenziamento, era previsto dall’art. 2118 come contenuto di un libero potere di recesso dal contratto, alla stregua dei puri principi dei contratti di scambio (a durata indeterminata), anziché funzionalizzato alle esigenze dell’impresa, e quindi sottoposto al limite della discrezionalità tecnica. Da questo punto di vista la legge 15 luglio 1966, n. 604, assume il significato di una parziale razionalizzazione del codice, in quanto esige che, ove non ricorrano i presupposti della risoluzione del contratto per inadempimento, il licenziamento sia obiettivamente giustificato dall’interesse dell’impresa. Ma il limite, non essendo presidiato da una sanzione di invalidità del licenziamento ingiustificato, ma solo da un obbligo di indennizzo, si esprimeva pur sempre in termini coerenti con l’economia di mercato.

4. Il nuovo corso delle relazioni industriali dopo il 1962.

Nel 1962 l’Italia era giunta a un grado di sviluppo economico prossimo al pieno impiego delle forze di lavoro: nell’anno successivo il tasso di disoccupazione scese al 2,5 per cento che è il livello più basso della nostra storia economica. Tale situazione determinò un forte incremento di potere contrattuale delle organizzazioni sindacali, che non solo accelerò la dinamica dei salari a livello delle categorie professionali, ma costrinse gli industriali ad accettare un nuovo sistema di contrattazione collettiva, detta articolata o decentrata. Questo sistema fu essenzialmente uno strumento di controllo sindacale sull’organizzazione del lavoro: non però di un controllo diretto, tale da condizionare le decisioni connesse alle innovazioni tecnologiche, ma soltanto un controllo indiretto, cioè sulle conseguenze negative per i lavoratori prodotte dai muta
{p. 397}menti dell’organizzazione del lavoro (ritmi più intensi, carichi più pesanti, maggiore nocività dell’ambiente, dequalificazione delle mansioni ecc.). Mediante il rinvio della contrattazione al livello aziendale, in ordine ai sistemi di cottimo, ai premi di produzione e alla valutazione delle mansioni, tali conseguenze venivano «monetizzate» in forma di salari aggiuntivi proporzionali agli incrementi di redditività delle singole imprese.
Note
[5] Cfr. Veneto, Contrattazione e prassi nei rapporti di lavoro, Bologna, 1974, pp. 240 ss.
[6] Giugni, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, Napoli, 1963, p. 229.