Cecilia Tomassini, Marco Albertini, Carlo Lallo (a cura di)
Avanzare insieme nella società anziana
DOI: 10.1401/9788815413086/c7
La vulnerabilità indica infatti quella carenza di difesa, quella debolezza che nasce dall’impossibilità di soddisfare dei bisogni, vuoi nella relazione con l’ambiente esterno, vuoi nelle relazioni sociali o affettive [Maillard 2011]: una «condizione che appartiene a tutti i viventi, segnata, a seconda delle situazioni, da gradi diversi di debolezza, dipendenza, mancanza di protezione» [Gensabella Furnari 2008]. Una dimensione che appartiene naturalmente alla persona umana. La persona è infatti vulnerabile per definizione, in quanto essere umano. Nella sua materialità, perché esposta al passare del tempo e alle vicissitudini legate alle sofferenze fisiche e psichiche dell’esistenza. Ma anche nella relazione con gli altri [Lévinas 1983], perché è attraverso le relazioni interpersonali che l’uomo soddisfa i suoi bisogni, specie i bisogni più squisitamente relazionali come quelli affettivi, rispetto ai quali la ferita è più intima e dolorosa [3]
.
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In questo senso la vulnerabilità della persona può avere enorme rilevanza nella categoria degli atti di diritto privato, che si sviluppano sul piano delle relazioni individuali, perché la vulnerabilità incide sugli elementi base dell’atto: la capacità, la volontà, l’autonomia [Fusaro 2019a].
E così il giurista si trova a interrogarsi sulla validità di matrimoni celebrati da persone molto anziane e spesso non più lucide o di testamenti che sembrano essere «suggeriti» [Girolami 2016] nel momento della malattia, della vecchiaia, del declino della consapevolezza fisica e affettiva [De Nova 1997; Patti 2014; Bonilini 2007; Cinque 2015; Irti 2023]. Ma il problema investe tanto gli atti personalissimi quanto il contratto [Fusaro 2019b]. Il riferimento è al caso dell’anziano che dona tutti i suoi beni a colui che lo accudisce nella fase della vecchiaia; alla donna che esprime il consenso a un atto di natura patrimoniale perché a ciò indotta da un rapporto di sudditanza psicologica nei confronti del coniuge; alla persona che in un momento di fragilità psicologica si lega a un’associazione religiosa a cui dona tutti i suoi beni; a colui che in una situazione di difficoltà economica e di confusione personale vende la sua casa per una cifra inadeguata al professionista di fiducia che cura i suoi affari.

4.1. Il testamento redatto in età avanzata e le forme di condizionamento di una volontà (talvolta) fragile

Il tema del testamento redatto in condizioni di vulnerabilità incrocia inevitabilmente, anche se non in via esclusiva, quello del progressivo invecchiamento della popolazione. È evidente infatti che l’allungamento della vita media delle persone sposta sempre più in avanti il momento di redazione dell’atto di ultima volontà.
Di per sé ciò non rappresenta una questione avente riflessi sul piano giuridico: l’invecchiamento è un processo del tutto naturale dell’esistenza. Un processo che è fatto di cambiamenti sul piano fisico ed esistenziale ma che, nella società moderna, {p. 157}anche in considerazione della sempre maggiore qualità e capillarità delle cure mediche, può corrispondere a completa autonomia, assenza di patologie, piena capacità di determinarsi. In molti casi inoltre i mutamenti tipici della vecchiaia «possono rappresentare opportunità adattative, di ulteriore esperienza e sviluppo creativo» [Cristini 2015].
Tuttavia, con una certa frequenza, la fase della senescenza, oltre a determinare una serie di mutamenti sul piano fisico e psichico, si accompagna anche a una dimensione patologica: insorgenza di malattie organiche, demenza senile, non-autosufficienza, depressione, Alzheimer. E anche laddove non insorgano vere e proprie patologie cognitive, l’«età fragile» [4]
è talvolta caratterizzata da una serie di mutamenti che portano a un parziale declino della memoria e dell’attività cognitiva in genere.
A ciò si aggiunga una particolare caratteristica che segna la fase della senescenza: l’«affievolimento della consapevolezza affettiva» [5]
. Questo fenomeno è dovuto in parte al moltiplicarsi delle aree di solitudine, e in parte a una specifica dimensione psicologica dell’età avanzata. È stato osservato infatti che negli anziani l’affettività rappresenta un’area di vulnerabilità
per così dire, privilegiata, poiché, pur modulandosi in base alla configurazione di personalità, col passare degli anni è sempre più auto-centrica e auto-referenziale, per cui si accompagna a un’accentuata attenzione ai bisogni personali, con una minor capacità discriminativa nei confronti di chi soddisfa i medesimi [Barbieri e Luzzago 2006].
Accade così che, anche in assenza di un importante decadimento cognitivo e anche laddove non si siano verificati eventi negativi nella vita dell’anziano (come la morte del coniuge, lo spostamento dalla propria casa di abitazione, l’allontanamento dei figli), si determini una significativa alterazione della capacità di costruire o mantenere relazioni interpersonali. L’anziano non è più in grado di «leggere» le relazioni con le altre persone {p. 158}nel quadro della sua storia personale, ma investe in maniera abnorme e del tutto acritica su determinate figure, in assenza di una reale opera di discriminazione tra il comportamento sincero e quello interessato.
Si pone in questo ambito una questione giuridica che può potenzialmente riguardare ogni atto posto in essere dalla persona in tarda età, ma che rileva in primis con riferimento all’atto di ultima volontà. Il problema non riguarda soltanto la capacità di comprensione e di autodeterminazione dell’anziano, ma anche la facilità con cui egli può essere vittima di captazioni, suggestioni, suggerimenti, prevaricazioni.
Non si tratta di costruire una categoria giuridica ad hoc [Perlingieri 1990; Lisella 1989], limitando la capacità di compiere atti giuridici in ragione dell’età avanzata. Tale categoria richiederebbe infatti di definire dal punto di vista giuridico la nozione di anziano [6]
, il che aprirebbe un percorso rischioso e antistorico, destinato ad attestare una situazione di deficienza intellettiva e volitiva, mortificando le attitudini e la capacità di autodeterminarsi della persona in ragione dell’età, servendo l’esclusiva finalità di «tutelare interessi patrimoniali di terzi e in particolare di coloro che aspirano a godere l’eredità dell’anziano» [Bianca 1998]. Si tratta piuttosto di considerare che il progressivo innalzarsi della vita media delle persone fa assumere al fenomeno del testamento redatto dal testatore anziano, vulnerabile e facilmente influenzabile, una proporzione tale da porre una serie di questioni giuridiche, e in particolare quella della validità dell’atto [7]
.{p. 159}

4.2. Dal reato di circonvenzione di incapace alla nozione di incapacità di intendere e volere in ambito civilistico

Il problema, come detto, non è limitato alla redazione del testamento, ma si estende a tutti gli atti posti in essere dall’anziano che, trovandosi in una situazione di vulnerabilità, subisca pressioni esterne (non integranti vere e proprie minacce o raggiri determinanti della volontà) volte a carpirne il consenso al matrimonio, alla donazione, al contratto in genere. Con riferimento a quest’ultimo, occorre innanzitutto verificare se le regole in tema di dolo e di violenza morale siano passibili di un’interpretazione così elastica da permettere l’inclusione di quelle forme più sfumate di raggiro o di minaccia (che comunque siano in grado di determinare al consenso la persona che si trova in una situazione di vulnerabilità), nel novero delle ipotesi di annullabilità del contratto. In realtà, sembra debba essere oggetto di rilettura la nozione di incapacità di intendere e di volere, che in giurisprudenza è definita attraverso un modello che si è via via cristallizzato nel tempo: una grave menomazione delle facoltà intellettive tale da impedire o ostacolare «una seria valutazione dei propri atti e la formazione di una cosciente volontà» [8]
per l’applicazione dell’art. 428; una situazione di assoluta mancanza di «coscienza dei propri atti ovvero della capacità di autodeterminarsi» [9]
per il testamento.
L’impressione è che l’incapacità di fatto venga rappresentata come uno stato della persona, che a sua volta è definito dalla mancata corrispondenza a un modello: quello della persona pienamente razionale. Un modello che nella realtà non esiste [Ferrando 2002], perché superato sul piano psicologico e culturale.
Ma se viene a mancare il modello, allora nemmeno il suo contrapposto può essere definito in termini assoluti. Così l’inca{p. 160}pacità di fatto non può essere rigidamente qualificata come uno stato soggettivo predefinito rispetto all’agire, perché la persona è parte integrante di un insieme di relazioni, è inserita in un contesto che la orienta e la condiziona. In questo senso, la capacità «è la presenza della persona a sé stessa in un contesto dato» [Zatti 2009b]. Nello specifico contesto, le relazioni, i meccanismi di condizionamento e le influenze esterne devono essere valutati non soltanto quali possibili punti di emersione di un vizio della volontà ma anche sul piano della capacità, che non a caso si compone di intelletto e volontà: deve esservi la capacità necessaria per esprimere la volontà, ma al tempo stesso non devono esserci condizionamenti tali da incidere sulla capacità della persona di comprendere e di autodeterminarsi [Callieri, De Vincentiis e Castellani 1973]. Non a caso la capacità di fatto si articola anche in una componente volitiva e in rapporto con la capacità intellettiva.
È possibile individuare una ricaduta applicativa dell’interpretazione qui proposta in punto di coordinamento tra l’art. 428 c.c. e l’art. 643 c.p., sulla circonvenzione di incapace. Il problema è determinato dalla diversità del presupposto soggettivo di cui all’art. 643 c.p. rispetto all’incapacità di intendere e di volere: la norma penale si applica infatti a ogni stato di alterazione psichica, anche a carattere non patologico, che determini una condizione di minore capacità di difesa alla manipolazione altrui. Non essendo tale stato sovrapponibile alla situazione soggettiva individuata nell’art. 428, il contratto (o l’atto) concluso attraverso la circonvenzione potrebbe però non risultare passibile di annullamento.
La giurisprudenza adotta dunque una diversa soluzione: si tratterebbe di un contratto nullo per contrarietà a una norma (imperativa) che ha per scopo la «tutela dell’autonomia privata e della libera esplicazione dell’attività negoziale delle persone in stato di menomazione psichica» [10]
. Ciò produce un effetto paradossale: in sede civile il contratto viene giudicato non annullabile perché manca il presupposto dell’art. 428, ma quando sia individuata la fattispecie di reato, il contratto è addirittura nullo
{p. 161}per contrarietà a una norma imperativa. Il problema è determinato dalla difficoltà di ammettere che forme di abuso, condizionamento o manipolazione del volere possano aver rilievo anche al fine di accertare l’incapacità di intendere e di volere. Finché si assume che l’incapacità vada accertata rispetto a un modello astratto, allora persino l’abuso dell’altrui stato di vulnerabilità accertato in sede penale rimane del tutto estraneo alla regola civilistica. Emerge, in ultima analisi, la necessità di ammettere interpretazioni più elastiche e storicamente più attuali di talune categorie giuridiche, come quella di dolo, captazione, raggiro e, in primis, di incapacità di intendere e di volere [Fusaro 2023]. Interpretazioni in cui si tenga conto delle sfumature dell’individualità umana e di ciò che è mutato nel modo di guardare alla persona e alle sue fragilità.
Note
[3] Una recente indagine distingue la vulnerabilità avente un’origine naturale, nella quale vengono inclusi i minori, gli anziani, le donne, i disabili, gli omosessuali, da una vulnerabilità sociale, che comprende i poveri, i consumatori particolarmente indifesi, i lavoratori vessati, gli immigrati, ecc., vedi Gentili [2019] e Battelli [2019]. Cfr. anche supra, capitolo 1.
[4] Al contempo, nelle società maggiormente sviluppate si accresce l’isolamento della persona anziana, determinata anche dal crescente numero di persone in età avanzata, a fronte di un minore tasso di natalità, vedi Bacciardi [2015].
[5] Cinque [2015] parla di «attenuazione» o «affievolimento» della «consapevolezza affettiva».
[6] Osserva giustamente Dogliotti [1998, 426], che non esiste una nozione giuridica di anziano, come invece esiste quella di minore di età, né avrebbe senso introdurla, perché esistono per esempio «anziani attivi» e «anziani malati cronici» [vedi anche Napolitano 1980].
[7] Quando la fragilità della persona diviene importante, il testamento può essere utilizzato dall’anziano in maniera decisamente inconsapevole o addirittura come mezzo per ottenere le attenzioni delle persone più vicine: «chi ha conoscenza diretta dei casi in cui un anziano redige un testamento alla settimana, favorendo l’ultima persona che gli ha tenuto compagnia, o redige un testamento a favore di chi in quel momento gli è vicino, deve chiedersi se quei testamenti siano veri testamenti, cui affidare la delazione ereditaria» [De Nova 1997].
[8] Cass., 13 novembre 1991, n. 12177, in «Foro italiano», I, 2, 1992, p. 2456, e più recentemente Cass., 18 marzo 2018, n. 7292, in «Diritto e Giustizia online», 2008.
[9] Cass., 4 febbraio 2016, n. 2239, in «Diritto e Giustizia», 2016, 5 febbraio; Cass., 2 ottobre 2015, n. 19767, ibidem, 2015, 5 ottobre; Cass., 5 novembre 1987, n. 8169, in «Massimario del Foro italiano», 1987. Per la giurisprudenza di merito cfr., ex multis, App. Napoli, 1° aprile 2019; Trib. Frosinone, 5 aprile 2018; App. Venezia, 22 maggio 2017; Trib. Livorno, 19 maggio 2016; Trib. Pesaro, 13 aprile 2013; Trib. Roma, 29 aprile 2010; Trib. Salerno, 14 giugno 2005, tutte in «DeJure».
[10] Cass., 27 gennaio 2004, n. 1427, in «Contratti», 2004, pp. 997 ss. In senso analogo Cass., 20 marzo 2017, n. 7081, in «Contratti», 2017, p. 655; Cass., 29 ottobre 1994, n. 8948, in «Massimario del Foro italiano», 1994.