Avanzare insieme nella società anziana
DOI: 10.1401/9788815413086/c7
La vulnerabilità indica infatti
quella carenza di difesa, quella debolezza che nasce dall’impossibilità di soddisfare
dei bisogni, vuoi nella relazione con l’ambiente esterno, vuoi nelle relazioni sociali o
affettive [Maillard 2011]: una «condizione che appartiene a tutti i viventi, segnata, a
seconda delle situazioni, da gradi diversi di debolezza, dipendenza, mancanza di
protezione» [Gensabella Furnari 2008]. Una dimensione che appartiene naturalmente alla
persona umana. La persona è infatti vulnerabile per definizione, in quanto essere umano.
Nella sua materialità, perché esposta al passare del tempo e alle vicissitudini legate
alle sofferenze fisiche e psichiche dell’esistenza. Ma anche nella relazione con gli
altri [Lévinas 1983], perché è attraverso le relazioni interpersonali che l’uomo
soddisfa i suoi bisogni, specie i bisogni più squisitamente relazionali come quelli
affettivi, rispetto ai quali la ferita è più intima e dolorosa
[3]
.
¶{p. 156}
In questo senso la vulnerabilità
della persona può avere enorme rilevanza nella categoria degli atti di diritto privato,
che si sviluppano sul piano delle relazioni individuali, perché la vulnerabilità incide
sugli elementi base dell’atto: la capacità, la volontà, l’autonomia [Fusaro 2019a].
E così il giurista si trova a
interrogarsi sulla validità di matrimoni celebrati da persone molto anziane e spesso non
più lucide o di testamenti che sembrano essere «suggeriti» [Girolami 2016] nel momento
della malattia, della vecchiaia, del declino della consapevolezza fisica e affettiva [De
Nova 1997; Patti 2014; Bonilini 2007; Cinque 2015; Irti 2023]. Ma il problema investe
tanto gli atti personalissimi quanto il contratto [Fusaro 2019b]. Il riferimento è al
caso dell’anziano che dona tutti i suoi beni a colui che lo accudisce nella fase della
vecchiaia; alla donna che esprime il consenso a un atto di natura patrimoniale perché a
ciò indotta da un rapporto di sudditanza psicologica nei confronti del coniuge; alla
persona che in un momento di fragilità psicologica si lega a un’associazione religiosa a
cui dona tutti i suoi beni; a colui che in una situazione di difficoltà economica e di
confusione personale vende la sua casa per una cifra inadeguata al professionista di
fiducia che cura i suoi affari.
4.1. Il testamento redatto in età avanzata e le forme di condizionamento di una volontà (talvolta) fragile
Il tema del testamento redatto
in condizioni di vulnerabilità incrocia inevitabilmente, anche se non in via
esclusiva, quello del progressivo invecchiamento della popolazione. È evidente
infatti che l’allungamento della vita media delle persone sposta sempre più in
avanti il momento di redazione dell’atto di ultima volontà.
Di per sé ciò non rappresenta
una questione avente riflessi sul piano giuridico: l’invecchiamento è un processo
del tutto naturale dell’esistenza. Un processo che è fatto di cambiamenti sul piano
fisico ed esistenziale ma che, nella società moderna, ¶{p. 157}anche
in considerazione della sempre maggiore qualità e capillarità delle cure mediche,
può corrispondere a completa autonomia, assenza di patologie, piena capacità di
determinarsi. In molti casi inoltre i mutamenti tipici della vecchiaia «possono
rappresentare opportunità adattative, di ulteriore esperienza e sviluppo creativo»
[Cristini 2015].
Tuttavia, con una certa
frequenza, la fase della senescenza, oltre a determinare una serie di mutamenti sul
piano fisico e psichico, si accompagna anche a una dimensione patologica: insorgenza
di malattie organiche, demenza senile, non-autosufficienza, depressione, Alzheimer.
E anche laddove non insorgano vere e proprie patologie cognitive, l’«età fragile»
[4]
è talvolta caratterizzata da una serie di mutamenti che portano a un
parziale declino della memoria e dell’attività cognitiva in genere.
A ciò si aggiunga una
particolare caratteristica che segna la fase della senescenza: l’«affievolimento
della consapevolezza affettiva»
[5]
. Questo fenomeno è dovuto in parte al moltiplicarsi delle aree di
solitudine, e in parte a una specifica dimensione psicologica dell’età avanzata. È
stato osservato infatti che negli anziani l’affettività rappresenta un’area di
vulnerabilità
per così dire, privilegiata, poiché, pur modulandosi in base alla configurazione di personalità, col passare degli anni è sempre più auto-centrica e auto-referenziale, per cui si accompagna a un’accentuata attenzione ai bisogni personali, con una minor capacità discriminativa nei confronti di chi soddisfa i medesimi [Barbieri e Luzzago 2006].
Accade così che, anche in
assenza di un importante decadimento cognitivo e anche laddove non si siano
verificati eventi negativi nella vita dell’anziano (come la morte del coniuge, lo
spostamento dalla propria casa di abitazione, l’allontanamento dei figli), si
determini una significativa alterazione della capacità di costruire o mantenere
relazioni interpersonali. L’anziano non è più in grado di «leggere» le relazioni con
le altre persone ¶{p. 158}nel quadro della sua storia personale, ma
investe in maniera abnorme e del tutto acritica su determinate figure, in assenza di
una reale opera di discriminazione tra il comportamento sincero e quello
interessato.
Si pone in questo ambito una
questione giuridica che può potenzialmente riguardare ogni atto posto in essere
dalla persona in tarda età, ma che rileva in primis con
riferimento all’atto di ultima volontà. Il problema non riguarda soltanto la
capacità di comprensione e di autodeterminazione dell’anziano, ma anche la facilità
con cui egli può essere vittima di captazioni, suggestioni, suggerimenti,
prevaricazioni.
Non si tratta di costruire una
categoria giuridica ad hoc [Perlingieri 1990; Lisella 1989],
limitando la capacità di compiere atti giuridici in ragione dell’età avanzata. Tale
categoria richiederebbe infatti di definire dal punto di vista giuridico la nozione
di anziano
[6]
, il che aprirebbe un percorso rischioso e antistorico, destinato ad
attestare una situazione di deficienza intellettiva e volitiva, mortificando le
attitudini e la capacità di autodeterminarsi della persona in ragione dell’età,
servendo l’esclusiva finalità di «tutelare interessi patrimoniali di terzi e in
particolare di coloro che aspirano a godere l’eredità dell’anziano» [Bianca 1998].
Si tratta piuttosto di considerare che il progressivo innalzarsi della vita media
delle persone fa assumere al fenomeno del testamento redatto dal testatore anziano,
vulnerabile e facilmente influenzabile, una proporzione tale da porre una serie di
questioni giuridiche, e in particolare quella della validità dell’atto
[7]
.¶{p. 159}
4.2. Dal reato di circonvenzione di incapace alla nozione di incapacità di intendere e volere in ambito civilistico
Il problema, come detto, non è
limitato alla redazione del testamento, ma si estende a tutti gli atti posti in
essere dall’anziano che, trovandosi in una situazione di vulnerabilità, subisca
pressioni esterne (non integranti vere e proprie minacce o raggiri determinanti
della volontà) volte a carpirne il consenso al matrimonio, alla donazione, al
contratto in genere. Con riferimento a quest’ultimo, occorre innanzitutto verificare
se le regole in tema di dolo e di violenza morale siano passibili di
un’interpretazione così elastica da permettere l’inclusione di quelle forme più
sfumate di raggiro o di minaccia (che comunque siano in grado di determinare al
consenso la persona che si trova in una situazione di vulnerabilità), nel novero
delle ipotesi di annullabilità del contratto. In realtà, sembra debba essere oggetto
di rilettura la nozione di incapacità di intendere e di volere,
che in giurisprudenza è definita attraverso un modello che si è via via
cristallizzato nel tempo: una grave menomazione delle facoltà
intellettive tale da impedire o ostacolare «una seria valutazione dei
propri atti e la formazione di una cosciente volontà»
[8]
per l’applicazione dell’art. 428; una situazione di assoluta
mancanza di «coscienza dei propri atti ovvero
della capacità di autodeterminarsi»
[9]
per il testamento.
L’impressione è che
l’incapacità di fatto venga rappresentata come uno stato della
persona, che a sua volta è definito dalla mancata corrispondenza a un
modello: quello della persona pienamente razionale. Un
modello che nella realtà non esiste [Ferrando 2002], perché superato sul piano
psicologico e culturale.
Ma se viene a mancare il
modello, allora nemmeno il suo contrapposto può essere definito in termini assoluti.
Così l’inca¶{p. 160}pacità di fatto non può essere rigidamente
qualificata come uno stato soggettivo predefinito rispetto all’agire, perché la
persona è parte integrante di un insieme di relazioni, è inserita in un contesto che
la orienta e la condiziona. In questo senso, la capacità «è la presenza della
persona a sé stessa in un contesto dato» [Zatti 2009b]. Nello specifico contesto, le
relazioni, i meccanismi di condizionamento e le influenze esterne devono essere
valutati non soltanto quali possibili punti di emersione di un vizio della volontà
ma anche sul piano della capacità, che non a caso si compone di
intelletto e volontà: deve esservi la
capacità necessaria per esprimere la volontà, ma al tempo stesso non devono esserci
condizionamenti tali da incidere sulla capacità della persona di comprendere e di
autodeterminarsi [Callieri, De Vincentiis e Castellani 1973]. Non a caso la capacità
di fatto si articola anche in una componente volitiva e
in rapporto con la capacità intellettiva.
È possibile individuare una
ricaduta applicativa dell’interpretazione qui proposta in punto di coordinamento tra
l’art. 428 c.c. e l’art. 643 c.p., sulla circonvenzione di incapace. Il problema è
determinato dalla diversità del presupposto soggettivo di cui all’art. 643 c.p.
rispetto all’incapacità di intendere e di volere: la norma penale si applica infatti
a ogni stato di alterazione psichica, anche a carattere non patologico, che
determini una condizione di minore capacità di difesa alla manipolazione altrui. Non
essendo tale stato sovrapponibile alla situazione soggettiva individuata nell’art.
428, il contratto (o l’atto) concluso attraverso la circonvenzione potrebbe però non
risultare passibile di annullamento.
La giurisprudenza adotta dunque
una diversa soluzione: si tratterebbe di un contratto nullo per contrarietà a una
norma (imperativa) che ha per scopo la «tutela dell’autonomia privata e della libera
esplicazione dell’attività negoziale delle persone in stato di menomazione psichica»
[10]
. Ciò produce un effetto paradossale: in sede civile il contratto viene
giudicato non annullabile perché manca il presupposto dell’art. 428, ma quando sia
individuata la fattispecie di reato, il contratto è addirittura nullo
¶{p. 161}per contrarietà a una norma imperativa. Il problema è
determinato dalla difficoltà di ammettere che forme di abuso, condizionamento o
manipolazione del volere possano aver rilievo anche al fine di accertare
l’incapacità di intendere e di volere. Finché si assume che l’incapacità vada
accertata rispetto a un modello astratto, allora persino l’abuso dell’altrui stato
di vulnerabilità accertato in sede penale rimane del tutto estraneo alla regola
civilistica. Emerge, in ultima analisi, la necessità di ammettere interpretazioni
più elastiche e storicamente più attuali di talune categorie giuridiche, come quella
di dolo, captazione, raggiro e, in primis, di incapacità di
intendere e di volere [Fusaro 2023]. Interpretazioni in cui si tenga conto delle
sfumature dell’individualità umana e di ciò che è mutato nel modo di guardare alla
persona e alle sue fragilità.
Note
[3] Una recente indagine distingue la vulnerabilità avente un’origine naturale, nella quale vengono inclusi i minori, gli anziani, le donne, i disabili, gli omosessuali, da una vulnerabilità sociale, che comprende i poveri, i consumatori particolarmente indifesi, i lavoratori vessati, gli immigrati, ecc., vedi Gentili [2019] e Battelli [2019]. Cfr. anche supra, capitolo 1.
[4] Al contempo, nelle società maggiormente sviluppate si accresce l’isolamento della persona anziana, determinata anche dal crescente numero di persone in età avanzata, a fronte di un minore tasso di natalità, vedi Bacciardi [2015].
[5] Cinque [2015] parla di «attenuazione» o «affievolimento» della «consapevolezza affettiva».
[6] Osserva giustamente Dogliotti [1998, 426], che non esiste una nozione giuridica di anziano, come invece esiste quella di minore di età, né avrebbe senso introdurla, perché esistono per esempio «anziani attivi» e «anziani malati cronici» [vedi anche Napolitano 1980].
[7] Quando la fragilità della persona diviene importante, il testamento può essere utilizzato dall’anziano in maniera decisamente inconsapevole o addirittura come mezzo per ottenere le attenzioni delle persone più vicine: «chi ha conoscenza diretta dei casi in cui un anziano redige un testamento alla settimana, favorendo l’ultima persona che gli ha tenuto compagnia, o redige un testamento a favore di chi in quel momento gli è vicino, deve chiedersi se quei testamenti siano veri testamenti, cui affidare la delazione ereditaria» [De Nova 1997].
[8] Cass., 13 novembre 1991, n. 12177, in «Foro italiano», I, 2, 1992, p. 2456, e più recentemente Cass., 18 marzo 2018, n. 7292, in «Diritto e Giustizia online», 2008.
[9] Cass., 4 febbraio 2016, n. 2239, in «Diritto e Giustizia», 2016, 5 febbraio; Cass., 2 ottobre 2015, n. 19767, ibidem, 2015, 5 ottobre; Cass., 5 novembre 1987, n. 8169, in «Massimario del Foro italiano», 1987. Per la giurisprudenza di merito cfr., ex multis, App. Napoli, 1° aprile 2019; Trib. Frosinone, 5 aprile 2018; App. Venezia, 22 maggio 2017; Trib. Livorno, 19 maggio 2016; Trib. Pesaro, 13 aprile 2013; Trib. Roma, 29 aprile 2010; Trib. Salerno, 14 giugno 2005, tutte in «DeJure».
[10] Cass., 27 gennaio 2004, n. 1427, in «Contratti», 2004, pp. 997 ss. In senso analogo Cass., 20 marzo 2017, n. 7081, in «Contratti», 2017, p. 655; Cass., 29 ottobre 1994, n. 8948, in «Massimario del Foro italiano», 1994.