Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/c2
Capitolo secondo La congiura di Moliterno: un progetto anti-napoleonico nella Francia consolare
Abstract
Quando nella primavera del 1800 furono avviate le operazioni militari per la
formazione della Legione italica in vista del ritorno repubblicano nella penisola,
non tutti i rifugiati presenti oltralpe accettarono di buon grado che il relativo
comando fosse affidato al cisalpino Giuseppe Lechi. Divisioni regionali e gelosie
personali fecero sì che i malumori non solo non mancassero, ma addirittura
mettessero in secondo piano le prospettive di una nuova democratizzazione dei
territori italiani. Il passaporto vidimato a Moliterno dall’ambasciatore inglese
Merry non fu il solo documento sequestrato al principe napoletano a Calais, perché
fra le sue carte furono trovate anche diverse lettere che in sede processuale furono
giudicate molto compromettenti, pregiudicando definitivamente la posizione degli
artefici della cospirazione. Nell’articolo con cui nel gennaio 1803 il «Moniteur»
comunicava la scoperta in settembre della congiura di Moliterno si informava che,
insieme a quest’ultimo, a essere arrestato a Calais era stato Belpulsi e non, come
realmente avvenuto, Dorinda Austen. Un particolare apparentemente di poco conto, che
si potrebbe attribuire a un mero errore giornalistico, eppure esso assume una certa
rilevanza se si tiene conto che il giorno prima della pubblicazione della notizia la
donna era stata liberata e condotta sotto scorta a Calais, dove, questa volta per
davvero, si era imbarcata per l’altra sponda della Manica. Ad ogni modo, del gruppo
attivo nella Parigi del 1802 fu Fiore l’unico ad avere un destino diverso. Infatti,
se Moliterno, Belpulsi e Austen, dopo essere tornati in libertà, ripresero a tramare
anche nel 1806, l’avvocato casertano avrebbe concluso il suo confino nella provincia
francese solo nella primavera del 1809, nonostante il suo nome fosse stato l’unico a
non esser comparso sulla stampa francese.
Non mancano persone dell’alta società che sostengono non esservi cosa di peggior gusto che una cospirazione: puzza di giacobinismo. E che c’è di più brutto del giacobinismo senza successo?
1. L’arresto: da Napoli a Calais, fra Parigi e Londra
Quando nella primavera del 1800
furono avviate le operazioni militari per la formazione della Legione italica in vista
del ritorno repubblicano nella penisola, non tutti i rifugiati presenti oltralpe
accettarono di buon grado che il relativo comando fosse affidato al cisalpino Giuseppe
Lechi. Divisioni regionali e gelosie personali fecero sì che i malumori non solo non
mancassero, ma addirittura mettessero in secondo piano le prospettive di una nuova
democratizzazione dei territori italiani. Fra i più scontenti era Girolamo Pignatelli,
noto con il titolo di principe di Moliterno (dal paese lucano di cui era feudatario) e
giunto in Francia da Napoli nel marzo dell’anno precedente, quando, nel pieno
dell’esperienza repubblicana, ebbe dal governo provvisorio l’incarico di recarsi presso
il Direttorio per chiedere formalmente il riconoscimento della Repubblica napoletana.
Le successive vicende militari lo
avevano costretto, malgrado il rifiuto direttoriale di ricevere la delegazione di cui
era componente, a restare in Francia. Qui, nonostante le notizie provenienti dall’altro
lato delle Alpi sul crollo delle «Repubbliche sorelle», sin dall’estate del 1799 aveva
provato ¶{p. 66}a rilanciare i sogni patriottici meridionali chiedendo
di essere nominato a capo delle «troupes françaises qui se trouvent encore dans la
République Romaine, lesquelles unies aux patriotes napolitains et aux romains
formeraient une armée qui servirait de barrière à celle des Austro-Russes»
[2]
. Anche per questo, quando nella primavera successiva la scelta di affidare
il comando della Legione italica ricadde su Lechi, la sua delusione fu grande e la
reazione molto dura, tanto che, rifugiatosi nella provincia dordognese di Mareuil,
rifiutò di sottostare all’ordine di arruolarsi impartitogli dal ministro della guerra
Louis Berthier
[3]
. La sua situazione non migliorò nemmeno nelle settimane successive, quando
la nomina al dicastero della guerra di Lazare Carnot (il grande manovratore delle
operazioni militari repubblicane in seno al Comitato di Salute Pubblica nel cruciale
anno II)
[4]
lo avrebbe portato a vedersi ribadire l’ordine di arruolarsi. Per
sottrarsene, in autunno decise di intraprendere la via di Firenze, dove soggiornò per
circa un anno prima di far nuovamente ritorno a Parigi nell’ottobre 1801
[5]
.
Eppure, in quel primo anno della
stagione consolare, anche in considerazione dei suoi trascorsi politici, le speranze di
ottenere ruoli di responsabilità erano state per lui molto alte. Subito dopo il 18
brumaio, infatti, aveva provato a sfruttare quella che egli stesso definiva l’«heureuse
révolution qui vient de s’opérer en France» per rilanciare la sua posizione di fronte al
nuovo esecutivo francese, al quale già il 21 novembre 1799 faceva pervenire una lunga
auto-presentazione. Del resto, lo scenario dischiusosi con la
¶{p. 67}svolta bonapartista, nel quale in Francia prendeva corpo una
generale politica di rassemblement, autorizzava a concepire sogni
di nuove funzioni anche e soprattutto per chi, come lui, a Napoli era stato a lungo un
fedele ufficiale borbonico prima di essere nominato capo militare nei difficili giorni
dell’anarchia intercorsi fra la fuga in Sicilia della famiglia reale nel dicembre 1798 e
la proclamazione della Repubblica napoletana avvenuta il 21 gennaio. Proprio questo suo
ruolo, fondamentale nel garantire ordine nella città partenopea durante il vuoto di
potere creatosi dopo la partenza dei Borbone e utile nel favorire l’ingresso in Napoli
delle truppe francesi guidate dal generale Jean-Étienne Championnet, gli era valso la
nomina fra i 25 componenti del governo provvisorio
[6]
. All’interno degli apparati rivoluzionari, dunque, egli aveva rappresentato
l’ala legata alla storica nobiltà napoletana, il cui sostegno era stato considerato
necessario per ampliare le basi sociali della neonata Repubblica. Anche per questo, in
quelle prime settimane della Napoli democratizzata era stato alquanto inviso alla
corrente patriottica, la quale, per favorirne l’allontanamento dai luoghi decisionali,
già in febbraio gli aveva affidato il compito di recarsi a Parigi allo scopo di ottenere
dal Direttorio il riconoscimento della Repubblica, non mancando tuttavia di affiancargli
una deputazione composta anche da uomini considerati più fidati
[7]
.
La svolta di brumaio, dunque,
rilanciava le aspirazioni di un simile profilo politico e al tempo stesso permetteva di
attribuire le responsabilità del fallimento repubblicano nella penisola sia a quel
Direttorio che si era rifiutato di sostenere le «Repubbliche sorelle», sia al clima di
divisione interna che aveva caratterizzato la stagione rivoluzionaria. Non a caso, nella
citata memoria scritta già agli albori del ¶{p. 68}Consolato, Moliterno
aveva cura di sottolineare come, al suo arrivo a Parigi nella primavera precedente, «des
raisons politiques que j’ignore et que je respecte ne permirent pas au Directoire
français d’accueillir nos demandes», con la conseguenza che «son refus replongea ma
patrie dans les horreurs». Di lì, sarebbe cominciata per la Repubblica napoletana una
fase in cui «le fanatisme, l’incertitude et surtout le trouble et l’anarchie d’un
gouvernement qui n’avait eu ni base solide, ni appui, firent plus que les armes
Anglo-Russes pour le retour du roi à Naples»
[8]
.
Se gli ultimi mesi del Direttorio
avevano segnato per lui un periodo di sostanziale isolamento, nel nuovo clima del dopo
brumaio proprio la sua volontà di non sottostare alle fazioni in lotta sarebbe tornata
utile, perché fattore giudicato politicamente spendibile. Infatti, egli sottolineò a
lungo la sua condizione di uomo «proscrit par tous les partis», seppur nel complesso
senza particolare successo, dato che, come avrebbe ammesso in un’altra sua memoria
redatta nel novembre 1800, «après la bataille de Marengo, je reçus une simple lettre qui
me permet de porter le titre de général de Division, mais sans brevet»
[9]
. Alla delusione per l’atteggiamento direttoriale nei confronti
dell’esperienza repubblicana napoletana e all’altrettanto grande amarezza per il
seguente trattamento riservatogli dal governo consolare, si aggiunse, nel corso del
soggiorno fiorentino, l’insoddisfazione per gli esiti delle trattative diplomatiche che,
svoltesi proprio nella città di Dante, portarono nel marzo 1801 alla ratifica del
trattato di pace fra Parigi e Napoli, in seguito al quale il suo nome veniva escluso
dalla lista degli amnistiati e le sue ricchezze in patria sequestrate.
In questo scenario, tornato
nuovamente a Parigi nell’autunno di quello stesso anno, egli, ormai compromesso agli
occhi della Corte di Napoli ed emarginato dal Consolato francese, cominciava a concepire
«strani» propositi e proce¶{p. 69}deva a un progressivo avvicinamento al
governo inglese, ossia al principale referente delle scelte politiche della prima e al
grande nemico militare del secondo. Un’operazione, questa, certo complessa, ma non poco
facilitata dalla mediazione, anche linguistica, garantita dalla sua compagna,
l’irlandese Dorinda Austen, la quale, dopo esser giunta a Napoli al seguito del marito
(l’ufficiale inglese Newnham), lo aveva abbandonato per avviare una relazione con il
nobile napoletano, che avrebbe poi accompagnato nel corso dei suoi successivi
spostamenti.
Proprio durante uno di questi comuni
movimenti, il 19 settembre 1802 la coppia fu fermata dalla polizia francese a Calais,
nel cui porto si sarebbe dovuta imbarcare per raggiungere Londra. A quel punto, dalle
coste della Manica entrambi furono condotti nel carcere parigino del Temple, dove in
quei giorni erano stati reclusi altri due esuli napoletani accusati di essere loro
complici, ossia l’avvocato casertano Domenico Fiore e il capo-battaglione molisano
Antonio Belpulsi. Questi ultimi, tuttavia, avevano un profilo in parte diverso rispetto
a quello del principe napoletano, in quanto rientravano in pieno fra gli esuli
repubblicani giunti in Francia nell’estate del 1799
[10]
.
Ma cosa era successo da indurre la
polizia francese a effettuare questi arresti? In che modo si era giunti a conoscenza dei
movimenti di tali rifugiati? E soprattutto, perché gli inquirenti giudicavano così
pericolosi i propositi di un ristretto gruppo di stranieri nel complesso piuttosto
emarginati?
Ad informare le autorità di
sicurezza era stato, per il tramite del ministro degli esteri Talleyrand, l’ambasciatore
¶{p. 70}napoletano Del Gallo, il quale, da poco giunto a Parigi, aveva
attivato una fitta rete di informatori che, assoldati a pagamento fra la stessa
emigrazione napoletana, avevano il compito di metterlo a conoscenza delle iniziative di
tale eterogenea comunità. Fra questi vi era il principe Santangelo Imperiale, il quale,
avvicinato dal gruppo guidato da Moliterno, aveva inizialmente finto interesse per poi
riferire il tutto all’ambasciatore e in tal modo contribuire a sventare le trame
cospirative. Si trattava di progetti tutt’altro che pacifici sul piano militare e
alquanto rilevanti su quello politico: la loro, infatti, era una vera e propria
cospirazione che si proponeva – per riprendere le parole del consigliere di Stato
Antoine Thibaudeau, a cui fu affidato il coordinamento delle indagini – di «délivrer au
gouvernement anglais le Royaume de Naples pour devenir partie des États de S.M.
britannique ou pour y établir un nouveau gouvernement sous la protection de l’Angleterre»
[11]
.
Note
[1] Stendhal, Il rosso e il nero, Torino, Einaudi, 1946, p. 294.
[2] AMG, Shat, 16/YD, dr. 257, Lettera di Moliterno (Parigi, 1 termidoro VII: 19/07/1799).
[3] «J’ai reçu une lettre par laquelle vous m’intimez de m’adresser au Général Lechi pour vous faire parvenir mes demandes, je ne le connais pas et je ne suis pas venu en France pour dépendre d’un Italien, je ne m’adresse avec confiance qu’à la France et je ne veux avoir rapport qu’à un Ministre français». AMG, Shat, 16/YD, dr. 257, Lettera di Moliterno a Berthier (Mareuil, 7 germinale VIII: 28/03/1800).
[4] Per la biografia di Carnot si rimanda al classico M. Reinhard, Le grand Carnot: 1753-1823, Paris, Hachette, 1994.
[5] AMG, Shat, 16/YD, dr. 257.
[6] A.M. Rao, La Repubblica napoletana del 1799, in G. Galasso e R. Romeo (a cura di), Storia del Mezzogiorno, vol. 4, Il Mezzogiorno dagli Angioini ai Borboni, Roma, Edizioni del Sole, 1986, pp. 471-539.
[7] M. Battaglini, La Repubblica napoletana. Origini, nascita, struttura, Roma, Bonacci, 1992, vol. 2, p. 96. Anche Benedetto Croce ha sottolineato come Moliterno fosse «tutt’altro che d’animo gallofilo»: B. Croce, Frammenti di vita di Girolamo Pignatelli principe di Moliterno, in «ASPN», 28, 1903, pp. 761-779.
[8] AMG, Shat, 16/YD, dr. 257, Memoria di Moliterno (Mareuil, 30 brumaio VIII: 21/11/1799).
[9] AMG, Shat, 16/YD, dr. 257, Memoria di Moliterno (Parigi, 23 brumaio IX: 14/11/1800).
[10] Il più importante studio su tale vicenda è B. Croce, La Rivoluzione napoletana del 1799. Biografie, racconti e ricerche, Bari, Laterza, 1912, pp. 384-391, 412-423. Più recentemente, cfr. P. Conte, An Anti-French Conspiracy among the Neapolitan Exiles in Paris during the Consulate: Prince Pignatelli’s Attempt to «Deliver the Kingdom of Naples to the English Government», in C. Brice (a cura di), Exile and the Circulation of Political Practices, Cambridge, Cambridge Scholars, 2020, pp. 93-106; L. Di Mauro, Le prince Girolamo Pignatelli di Moliterno, une perspective pour l’étude du sectarisme politique dans l’Italie napoléonienne, tesi di laurea sostenuta all’Université de Paris 1, 2007.
[11] ANF, AF/IV, cart. 1302, Rapport aux Consuls de la République (Parigi, s.d.).