Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/c11
Capitolo undicesimo Nella Francia di Luigi XVIII: un réseau tutt’altro che estinto
Abstract
Nell’ottobre del 1815, la polizia parigina segnalava l’arrivo in città di due
ex ufficiali napoleonici, descritti come «uniquement occupés d’achats de chevaux et
de voitures». Si trattava del piemontese Rossetti e del napoletano Caracciolo,
entrambi stabilitisi all’hotel des Princes, sito in quella rue de la Loi che già
agli albori del secolo era stata fra le strade più frequentate dagli esuli
peninsulari. Tuttavia, nonostante le loro legittime professioni, i due furono
espulsi a stretto giro con motivazioni che esulavano dalle loro responsabilità
individuali e che riguardavano piuttosto valutazioni legate al loro passato e al
nuovo contesto politico. Fra coloro i quali facevano ritorno in Francia agli albori
della Restaurazione vi era anche quell’Antonio Buttura da cui queste pagine hanno
preso le mosse e che, giunto oltralpe come esule, aveva concepito sin dagli albori
del secolo «le dessein de [s]’y établir». E nonostante proprio la circostanza del
suo allontanamento ostasse al requisito dei dieci anni consecutivi di permanenza
oltralpe, il Ministero della giustizia approvava la richiesta in considerazione del
lodevole rapporto redatto dalla Prefettura della Seine, che, dopo averne ricordato
tanto i servizi diplomatici quanto i lavori letterari, lo descriveva come meritevole
della «bienveillance du gouvernement». Marzo 1821: mentre in Piemonte prendeva corpo
la rivoluzione che avrebbe momentaneamente portato il reggente Carlo Alberto a
concedere una nuova Costituzione e mentre nel Regno di Napoli l’invasione austriaca
segnava il dissolvimento delle rivendicazioni di libertà scoppiate l’estate
precedente, a Parigi una delle animatrici dei salotti letterari del tempo, Émilie
Roland, scriveva all’ex generale napoleonico Claude Marie Meunier per commentare le
notizie provenienti dall’altro lato delle Alpi. dalle segrete tecniche di
corrispondenza ai concreti protagonisti di quelle trame, dalle informazioni
conservate negli schedari di polizia al carattere indipendentista e costituzionale
che animò tali rivendicazioni, appare evidente la continuità che legò i movimenti
degli albori degli anni Venti a quanto aveva preso corpo sin dal Triennio per poi
riemergere a far data dal 181481. E in questo scenario, il lungo contatto che, anche
grazie al prolungato soggiorno oltralpe degli esuli del 1799, la penisola aveva
instaurato con la Francia sin dai tempi della rivoluzione fu a dir poco
cruciale.
Erano tutti insieme, vicini, e alcuni non si riconobbero, altri non si erano mai conosciuti, e certe cose rimasero per sempre ignote, altre attesero per maturarsi una nuova occasione, un nuovo incontro.
1. Chi arriva, chi resta
Nell’ottobre del 1815, la polizia
parigina segnalava l’arrivo in città di due ex ufficiali napoleonici, descritti come
«uniquement occupés d’achats de chevaux et de voitures». Si trattava del piemontese
Rossetti e del napoletano Caracciolo, entrambi stabilitisi all’hotel des Princes, sito
in quella rue de la Loi che già agli albori del secolo era stata fra le strade più
frequentate dagli esuli peninsulari. Tuttavia, nonostante le loro legittime professioni,
i due furono espulsi a stretto giro con motivazioni che esulavano dalle loro
responsabilità individuali e che riguardavano piuttosto valutazioni legate al loro
passato e al nuovo contesto politico. A pesare sul destino dei due era soprattutto un
rapporto che già a metà settembre, nel segnalarne l’arrivo da Tolone, li descriveva come
pericolosi sostenitori di Murat, il tutto proprio nelle settimane in cui quest’ultimo
era alle prese con la disperata spedizione di Pizzo Calabro
[2]
.
Dunque, se da un lato la politica
borbonica si dimostrava sostanzialmente favorevole a concedere la naturalizzazione a
uomini ormai da tempo residenti in Francia, dall’altro la
¶{p. 366}tendenza era altresì quella di favorire l’allontanamento degli
italiani giunti solo di recente, soprattutto se appartenenti alle file dell’esercito.
Non a caso, nell’estate del 1816, quando undici ufficiali italiani chiedevano al governo
francese di essere finanziati per sostenere il viaggio verso Le Havre, da dove si
sarebbero dovuti imbarcare alla volta degli Stati-Uniti, il ministro della polizia Élie
Decazes si affrettava ad approvare, dicendosi convinto che «ce déplacement ne puisse
avoir d’inconvénient» e «faciliterait au contraire à ces étrangers les moyens de
s’éloigner de France». Tuttavia, va detto che i militari in questione, una volta
radunatisi a Le Havre, allarmarono non poco le istituzioni transalpine, in quanto
tardarono la partenza e fecero scalpore per i loro comportamenti con la popolazione
locale. Infatti, ancora in settembre – ossia oltre un mese prima della loro effettiva
partenza per New Orleans – il commissario speciale della città normanna segnalava come
questi non solo «ne s’occupent nullement de leur départ pour les États-Unis, quoique les
occasionnes soient journalières», ma poi addirittura avessero «formé quelques rapports
avec des gens suspects par leurs opinions»
[3]
.
Insomma, per quanto il contesto
internazionale (e in particolare l’uscita degli Stati peninsulari dalla sfera
d’influenza francese) rendeva sempre più complessa la mobilità italiana oltralpe, nuovi
arrivi in Francia non furono del tutto interrotti. Se il caso delle numerose richieste
di naturalizzazione sta ad attestare come ancora forte fosse la volontà di restare
oltralpe per diversi emigranti peninsulari, gli esempi degli ufficiali murattiani
arrivati a Parigi nell’ottobre 1815 mostrano come ai tempi prendesse corpo anche una
nuova emigrazione. Si tratta di un flusso difficilmente quantificabile e comunque
quantitativamente non considerevole, ma che, ad ogni modo, risulta degno d’attenzione,
perché in fondo – come ha mostrato a suo tempo Salvatore Carbone
[4]
– la stagione della Restaurazione portò a un incremento
¶{p. 367}dei rifugiati italiani in Francia
[5]
. Un incremento, questo, che certo avrebbe trovato il suo apice con l’arrivo
di nuovi flussi migratori seguiti al fallimento delle rivoluzioni costituzionali del
1820-1821, ma che comunque cominciò, anche grazie all’appoggio fornito dalla tutt’altro
che marginale presenza italiana consolidatasi nei primi quindici anni del secolo,
proprio nel 1814-1815, allorquando non pochi furono i cittadini della penisola che, per
questioni di opportunità politica, varcarono la frontiera in direzione transalpina,
finendo con lo stabilirsi nella Francia di Luigi XVIII pur di non restare in patria a
dipendere da governi contro i quali avevano a lungo operato.
Ad esempio, il bergamasco Gianni
Assolari sarebbe stato descritto come «réfugié de 1815» quando, qualche anno più tardi,
il titolare della locanda di rue Saint Guillaume presso la quale alloggiava lo denunciò
alla polizia nella convinzione che questi desse all’esterno «la plus mauvaise idée de
cette maison en raison de son libéralisme»: a suo dire, infatti, l’ospite italiano
professava «les principes les plus dangereux» affermando «hautement» di esser stato
espulso a causa della «part qu’il a pris aux conjurations de son pays»
[6]
. Ed ancora, quando nella primavera del 1819 l’ex luogotenente napoletano
Giuseppe Zenardi giungeva a Parigi per questioni mediche, la polizia si affrettava a
metterlo sotto sorveglianza nella convinzione che «les principes politiques de cet
officier général devaient appeler sur lui l’attention de l’autorité»: infatti,
l’ambasciatore napoletano Fabrizio Ruffo, principe di Castelcicala si era premunito di
far sapere che «cet individu a été en une certaine manière exilé des États du roi mon
maître pour délit d’abus d’autorité»
[7]
. Discorso simile anche per i sei ufficiali sardi che nell’estate del 1820 si
stabilivano a Perpignano dopo aver disertato dall’esercito piemontese, in quanto la
Prefettura del Var non nascondeva la propria ¶{p. 368}preoccupazione di
fronte all’eventualità che «un grand nombre de déserteurs ne s’introduise encore en France»
[8]
.
Ma in quegli anni a giungere nei
territori dell’Esagono, e in particolare a Parigi, erano anche personaggi qui noti, cioè
uomini che in Francia erano approdati per la prima volta come esuli alla fine del secolo
precedente e che poi avevano fatto ritorno in patria quando le mutate condizioni
contingenti avevano permesso loro di collaborare con l’amministrazione napoleonica. È il
caso di quel Pietro Piranesi che, dopo la partecipazione alla Repubblica romana del
1798, durante il primo decennio del XIX secolo aveva animato sulle rive della Senna le
iniziative artistiche dell’omonima calcografia gestita insieme al fratello Francesco
[9]
. Successivamente, nel settembre 1809, a seguito dell’occupazione francese di
Roma, aveva lasciato Parigi (dove il fratello era prematuramente scomparso solo qualche
mese più tardi) per recarsi in patria a svolgere le funzioni di segretario generale
della Prefettura del Tevere e poi di commissario generale della polizia capitolina.
Tuttavia, nel 1815, al momento della ricomposizione dello Stato pontificio, optava per
un nuovo ritorno in Francia, dove avrebbe poi trascorso il resto della propria vita. Un
soggiorno, il suo secondo a Parigi, che se da un lato fu caratterizzato dalla nascita di
tre figli (avuti con una donna francese con cui si era sposato a Roma nel 1813),
dall’altro, non permettendogli di svolgere ruoli amministrativi a causa dei trascorsi
napoleonici, fu dedicato ad attività, quali l’insegnamento della lingua italiana e la
curatela di antologie letterarie, che già in passato avevano costituito per i rifugiati
peninsulari non solo un’importante fonte di sopravvivenza, ma anche la principale
modalità per difendere le prerogative identitarie del proprio paese.
Infatti, nel 1819, oltre a
realizzare una Grammaire italienne semplifiée et reduite, poi
ristampata a più riprese per circa due decenni, dava avvio a una raccolta antologica in
versi, Le bellezze della poesia italiana, che, sempre grazie al
¶{p. 369}supporto dell’editore Théophile Barrios, egli avrebbe portato
avanti anche nei primi anni Venti attraverso analoghe operazioni dedicate a prosa,
epistole e novelle
[10]
. Ancora nel 1832, poi, dedicava al tema linguistico ulteriori sforzi
occupandosi della continuazione del Dictionnaire français-italien et
italien-français lasciato incompiuto dall’amico Buttura, deceduto solo
l’anno prima
[11]
. In quegli anni, del resto, consolidava anche la sua posizione sociale,
prima diventando traduttore ufficiale presso il tribunale parigino e poi, sotto la
«Monarchia di luglio», ottenendo l’incarico di professore di italiano presso la famiglia
reale. Per questo, nel 1836 poteva finalmente ricevere, sempre nella sua abitazione
parigina di rue Neuve des Petits-Champs, la tanto ambita naturalizzazione francese
[12]
.
Insomma, con l’avvio della
Restaurazione, e dunque ancor prima del 1821, la tutt’altro che inesistente mobilità
politica in direzione francese si rivelava non poco ispirata – sia per quanto riguarda i
concreti nomi dei suoi protagonisti, sia a proposito delle motivazioni politiche alla
base – da esperienze e legami maturati nel quindicennio precedente. D’altronde, non
appare certo marginale che, seppur con maggiori difficoltà, al tempo continuassero a
soggiornare in Francia anche quei rifugiati giunti oltralpe sin dagli albori del secolo.
Se si è detto di Ennio Quirino Visconti, che grazie al prestigio conseguito come
conservatore al Musée Central in quegli anni ottenne la naturalizzazione e pubblicò la
seconda parte (quella romana) dell’Iconographie ancienne, altri
esempi sono quelli del piemontese Carlo Botta e del napoletano Carlo Lauberg: il primo,
de
¶{p. 370}putato al Corpo legislativo e storico di questioni
rivoluzionarie durante l’Impero, agli albori della Restaurazione veniva nominato rettore
all’Università di Rouen; mentre il secondo, in passato farmacista militare e dal 1813
Ispettore generale di sanità in sostituzione del celebre Antoine Parmentier, dopo il
1815 continuava, nonostante una lunga attesa per l’ottenimento della naturalizzazione,
le altolocate frequentazioni parigine. Figura meno prestigiosa, ma dal percorso simile,
era quella di Annibale Giordano, che proprio con Lauberg aveva avviato alla politica
un’intera generazione di studenti attraverso la scuola di chimica fondata a Napoli nei
primi anni Novanta e che in Francia era poi stato sfiorato dalle indagini per la
congiura di Moliterno del 1802 salvo poi stabilirsi a Troyes ed essere naturalizzato sin
dai primi mesi della Restaurazione.
Note
[1] B. Pasternak, Il dottor Zivago, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 132.
[2] ANF, F/7, cart. 6651, Rapport de la Préfecture de Paris (Paris, 30/10/1815).
[3] ANF, F/7, cart. 9816.
[4] S. Carbone, I rifugiati italiani in Francia (1815-1830), Roma, Isri, 1962.
[5] D. Diaz, Un asile pour tous les peuples? Exilés et réfugiés étrangers en France au cours du premier XIXe siècle, Paris, Armand Colin, 2014, pp. 43-52.
[6] ANF, F/7, cart. 6936, dr. 10415.
[7] ANF, F/7, cart. 6894.
[8] ANF, F/7, cart. 9798, Rapport de la Préfecture du Var (Draguignan, 8/06/1820).
[9] Vedi infra, pp. 198-209.
[10] Grammaire italienne, simplifiée et réduite à 20 leçons, avec des thèmes, des dialogues et un petit recueil de traits d’histoire en italien, Paris, Barrois, 1819; Le Bellezze della poesia italiana, tratte dai più celebri poeti italiani, Parigi, Barrois, 1819; Bellezze della prosa italiana, tratte dai più celebri autori antichi e moderni, Parigi, Barrois, 1821; Bellezze dello stile epistolare, tratte dai più celebri autori antichi e moderni, Parigi, Barrois, 1822; Bellezze delle novelle tratte dai più celebri autori antichi e moderni, Parigi, Barrois, 1823.
[11] Dictionnaire français-italien et italien-français, par A. Buttura et continué par P. Piranesi, Paris, Lefèvre, 1832.
[12] ANF, BB/11, cart. 397/B, dr. 7152.