Paolo Conte
Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/c10

Capitolo decimo Uno studio sulle naturalizzazioni degli italiani agli albori della Restaurazione

Abstract
Dopo il crollo dell’Impero, la vera questione per le cancellerie europee (e per il nuovo governo francese) era la regolamentazione non tanto dei confini dei paesi sconvolti dal torrente rivoluzionario-napoleonico, quanto della nazionalità dei cittadini stranieri residenti oltralpe. Infatti, se già il Trattato di Parigi del 30 maggio 1814 aveva imposto alla Francia un ritorno ai confini della fase precedente il 1792, più incerta restava la situazione per gli uomini e le donne provenienti dagli ormai soppressi dipartimenti francesi oltreconfine, ossia da quei territori a lungo parte integrante dell’Impero, ma nel frattempo ritornati sotto la giurisdizione delle vecchie monarchie. Al di là dei dati quantitativi, lo studio dei dossier di naturalizzazione permette di effettuare ulteriori riflessioni anche, più nello specifico, sulle modalità con cui furono prima concepite e poi gestite le domande, ossia sui fattori giudicati dai singoli petizionari come maggiormente meritori di essere valorizzati e sui criteri usati nelle relative valutazioni dalle istituzioni ministeriali. Se da un lato l’alta percentuale di naturalizzazioni accordate sul totale delle domande effettuate autorizza a considerare la politica delle restaurate istituzioni transalpine decisamente propensa all’inserimento del personale straniero nelle proprie strutture, dall’altro un simile dato non deve indurre a sminuire la complessità di quei processi decisionali, che spesso, anche quando si conclusero favorevolmente, richiesero per il loro compimento un periodo piuttosto consistente. Diversa, ma comunque legata a questioni relative al profilo personale del petizionario, era la causa del rifiuto impartito a Guglielmo Cerise, giacobino della prima ora nel Piemonte degli anni Novanta poi arruolatosi anch’egli nell’esercito napoleonico.
E dire che tutte queste cose sono successe nella mia casa, in un quartiere dove non passa mai un cane! Parola di donna onesta, è un sogno. Perché, vedi, abbiamo visto Luigi XVI con l’accidente che gli è toccato, abbiamo visto cadere l’Imperatore, l’abbiamo visto tornare e cadere di nuovo: tutto questo era nell’ordine delle cose possibili; mentre non ci sono alternative alle pensioni famigliari: si può fare a meno del re, mangiare però bisogna sempre.
Honoré de Balzac [1]

1. Quadro normativo e dati quantitativi

Dopo il crollo dell’Impero, la vera questione per le cancellerie europee (e per il nuovo governo francese) era la regolamentazione non tanto dei confini dei paesi sconvolti dal torrente rivoluzionario-napoleonico, quanto della nazionalità dei cittadini stranieri residenti oltralpe. Infatti, se già il Trattato di Parigi del 30 maggio 1814 aveva imposto alla Francia un ritorno ai confini della fase precedente il 1792, più incerta restava la situazione per gli uomini e le donne provenienti dagli ormai soppressi dipartimenti francesi oltreconfine, ossia da quei territori a lungo parte integrante dell’Impero, ma nel frattempo ritornati sotto la giurisdizione delle vecchie monarchie. Insomma, a tener banco nei dibattiti di quelle settimane era, più che la questione delle nuove frontiere, quella dei «vecchi francesi». Occorreva, {p. 328}cioè, stabilire non solo e non tanto le caratteristiche del nuovo assetto territoriale della Francia uscita sconvolta dal crollo napoleonico, ma fissare i requisiti per cui ci si potesse considerare suoi cittadini, ossia – per riprendere le parole di Patrick Weil – determinare «qu’est-ce qu’un Français» nel nuovo equilibrio geopolitico europeo [2]
.
Si trattava di una questione dai connotati molteplici e tutti di estrema rilevanza, perché riguardava il destino di migliaia di uomini la cui esistenza in quegli anni era stata sconvolta dall’avanzata francese e perché da essa passavano scelte cruciali per il futuro assetto della monarchia restaurata. Innanzitutto, essa aveva un peso non da poco sul piano socio-amministrativo, in quanto l’incidenza che negli anni precedenti i cosiddetti «nuovi stranieri» avevano assunto sia nella produzione economica, sia nel funzionamento dell’apparato statale era tale da non poter essere di punto in bianco azzerata. Il discorso era delicato anche sotto il profilo diplomatico, perché dare protezione a individui appartenenti ad altre nazioni sarebbe potuto essere percepito dalle cancellerie europee come una sorta di sottrazione delle ricchezze dei propri paesi e quindi entrare in conflitto con la nuova strategia di pacificazione che la monarchia borbonica si era prefissata. Infine, il tema era ancor più delicato da una prospettiva politica, perché in fondo gli uomini in questione erano entrati in contatto con la Francia negli anni della Repubblica prima e dell’Impero poi: dunque, se una loro netta estromissione da ruoli di responsabilità poteva alimentare paure di disordini pubblici, altrettanto sentito era il timore della continuazione di una presenza sostanzialmente connotatasi per l’adesione alle precedenti istituzioni.
Del resto, i provvedimenti di quelle settimane non aiutavano a chiarire la situazione, in quanto se l’articolo 17 di quel Trattato di Parigi che aveva rappresentato il primo grande caso di denaturalizzazione collettiva riconosceva ai cittadini dei territori sottoposti al cambio di sovranità la possibilità, nell’arco di sei anni, di emigrare in un paese di {p. 329}proprio gradimento, l’ordinanza emanata da Luigi XVIII il giorno stesso dell’approvazione della Carta costituzionale precisava che «aucun étranger ne pourra siéger, à compter de ce jour, ni dans la chambre des pairs, ni dans celle des députés». Per questo, a stretto giro si procedette a una prima grande naturalizzazione per il personale parlamentare proveniente dai territori annessi che, però, non mancò di suscitare diverse polemiche, causate tanto dalla circostanza per cui un simile provvedimento permetteva a diversi deputati di avere un incarico sia a Parigi che in patria, quanto dal fatto che alcuni di essi ne furono esclusi. Cosicché, già nel giugno 1814, fu contestato il duplice ruolo del magistrato ginevrino Jean Pictet-Diodati, reo di sedere al tempo stesso sia nella Camera francese in qualità di rappresentante dell’ex dipartimento del Léman, sia nel neonato Consiglio della natìa Ginevra [3]
. Nelle settimane successive, poi, cominciarono a levarsi le prime proteste di quei parlamentari che non avevano ottenuto la cittadinanza, fra i quali spiccava il piemontese Felice Giovanni San Martino della Motta, giunto in Francia esattamente dieci anni prima in qualità di senatore. Fra giugno e gennaio, infatti, questi inviò ben quattro petizioni per protestare contro il fatto che il re avesse «accueilli favorablement les demandes de presque tous les Sénateurs étrangers», mentre «trois seuls n’ont pas fixé l’attention de V.M. et le soussigné est de ce nombre» [4]
.
Sempre in quell’estate, un altro ginevrino, l’avvocato Joseph Kohler, presentava alla Camera dei Pari una petizione volta a chiedere il riconoscimento dello status di cittadino francese per tutti quegli abitanti dei vecchi dipartimenti disposti a fissare il proprio domicilio nei territori del Regno [5]
. Per quanto respinta, una simile proposta ebbe il merito di estendere la questione della naturalizzazione al di là del personale parlamentare e, dunque, di aprire il dibattito sulla non facile situazione in cui erano venuti a trovarsi gli stranieri residenti in Francia provenienti dai vecchi dipartimenti. Di {p. 330}lì a poco, tali discussioni portarono alla ratifica, il 14 ottobre, della legge «relative à la naturalisation des habitants des départements qui avaient eté réunis à la France depuis 1791», il cui primo articolo stabiliva:
Tous les habitants des départements qui avaient été réunis au territoire de la France depuis 1791 et qui, en vertu de cette réunion se sont établis sur le territoire actuel de France et y ont résidé sans interruption depuis dix années et depuis l’âge de vingt et un ans, sont censés avoir fait la déclaration exigée par l’article 3 de la loi du 22 frimaire an VIII, à charge par eux de déclarer, dans le délai de trois mois à dater de la publication des présentes, qu’ils persistent dans la volonté de se fixer en France.
Ils obtiendront à cet effet, de Nous, des lettres de déclaration de naturalité et pourront jouir, dès ce moment, des droits de citoyen français [6]
.
Se questo articolo regolamentava la naturalizzazione in quel determinato momento, quello successivo prevedeva la possibilità di ottenere tale riconoscimento – sempre previo raggiungimento dei medesimi requisiti – anche a coloro i quali avrebbero raggiunto i dieci anni di residenza nel periodo successivo. La legge, poi, era completata da un terzo e ultimo articolo nel quale si definivano le condizioni per l’ottenimento non della naturalizzazione, ma dell’ammissione al domicilio, la quale consentiva l’installazione nei territori francesi senza tuttavia assicurare un vero e proprio cambio di nazionalità e dunque garantendo il godimento dei soli diritti civili. Infine, è importante evidenziare come il legislatore si premunisse di assicurarsi un certo margine di manovra, dato che nel testo si aggiungeva che ci si riservava, «lorsque nous le jugerons convenable», il rilascio degli attestati anche prima dei dieci anni richiesti: un’aggiunta, questa, tutt’altro che marginale, perché poneva le basi per una gestione delle domande determinata non solo e non tanto da requisiti giuridici, ma anche da valutazioni più prettamente politiche.{p. 331}
Sta di fatto che la logica legislativa fu di gran lunga quella di garantire il riconoscimento della naturalizzazione affinché tanto il personale operante nell’amministrazione e nell’esercito, quanto quello attivo nel commercio potesse prolungare le proprie attività nei territori francesi. Del resto, anche quando il requisito dei dieci anni di residenza non era raggiunto, la possibilità della naturalizzazione non restava del tutto preclusa, dato che l’ammissione al domicilio permetteva comunque la prosecuzione del soggiorno in Francia consentendo poi di effettuare a tempo debito l’ulteriore richiesta [7]
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Proprio sul meccanismo della dichiarazione del singolo individuo occorre qui soffermarsi, perché esso costituisce uno dei principali elementi di continuità con la stagione precedente. La legge, infatti, s’ispirava in maniera evidente alla Costituzione dell’anno VIII, la quale per l’ottenimento della cittadinanza francese aveva stabilito le medesime condizioni e che, a sua volta, si era ispirata, pur aumentando di tre anni la durata minima di residenza, alla Costituzione del 1795, dalla quale aveva soprattutto attinto il principio della necessità di un’esplicita dichiarazione da parte del diretto interessato attestante la volontà di divenire francese. Era cessato, così, il meccanismo della «naturalizzazione automatica» che si era innescato ancor prima, cioè con la Costituzione del 1793, il cui articolo 4, non poco alimentato dalle impellenti necessità di quegli anni di estendere il corpo di leva, aveva previsto per tutti gli stranieri dimoranti in Francia da almeno un anno l’automatica ammissione alla cittadinanza. Certo, rispetto alla Costituzione direttoriale e a quella consolare, nel 1814 un cambiamento importante era pur subentrato, ossia l’approvazione di quel Code Civile che all’articolo 7 del titolo primo aveva introdotto una netta distinzione fra la qualità di «cittadino» (da fissarsi per via costituzionale) e quella di «francese» (definita invece dal Codice), obbligando a trattare il tema per via legislativa e non costituzionale. Tuttavia, nel nuovo ordine restava
{p. 332}comunque il principio, stabilito dall’obbligo dell’esplicita dichiarazione, per cui la nazionalità a cui appartenere fosse da concepirsi in un’ottica liberale, ossia quale diritto legato alla persona, cioè risultante – posto il rispetto di determinate condizioni – dalla volontà del singolo e non da esigenze sovra-individuali [8]
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Note
[1] H. de Balzac, Il padre Goriot, Milano, Feltrinelli, 2016, p. 182.
[2] P. Weil, Qu’est-ce qu’un Français? Histoire de la nationalité française depuis la Révolution, Paris, Gallimard, 2005.
[3] «Archives Parlamentaires» (31/03/1814-1/10/1814), pp. 45-46.
[4] ANF, BB/11, cart. 146/A, dr. 1026.
[5] «Archives Parlamentaires» (31/03/1814-1/10/1814), pp. 205-206.
[6] Loi du 14 octobre 1814 relative à la naturalisation des habitants des départements qui avaient été réunis à la France depuis 1791.
[7] G. Noiriel, Le creuset français. Histoire de l’immigration (XIXe-XXe siècles), Paris, Édition du Seuil, 1988.
[8] Weil, Qu’est-ce qu’un Français?, cit., pp. 23-63.