Paolo Conte
Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/c10
Per quanto riguarda il resto, a fronte di una generale disperazione territoriale che faceva registrare in ben 35 dipartimenti metropolitani una presenza di italiani inferiore all’1% (per un totale di circa il 21%) [12]
, oltre a Parigi l’altro grande polo d’attrazione era costituito, come prevedibile, {p. 341}dalla zona del sud-est, quella geograficamente più vicina alla penisola. Qui, tuttavia, più che i dipartimenti alpini, a primeggiare erano quelli della Costa Azzurra, ossia le Bouches-du-Rhône (13,3%) e il Var (10,8%), seguiti dal più interno Isère (7,3%). Anche in questa zona, la concentrazione urbana era pressoché totale, in quanto i principali
{p. 342}centri di residenza erano di gran lunga i capoluoghi dei dipartimenti, ossia Marsiglia per le Bouches-du-Rhône, Tolone per il Var e Grenoble per l’Isère. Se non stupisce che nella Costa Azzurra prevalesse la migrazione ligure e nel triangolo Lione-Grenoble-Chambéry quella di provenienza piemontese, sorprende di più la cifra nel complesso modesta dei dipartimenti alpini (Alpes-Maritimes, Basses-Alpes e Hautes-Alpes, che insieme raggiungevano il 4%). Tale cifra si spiega in parte con la circostanza per cui fossero soprattutto le mete costiere a rappresentare il luogo di soggiorno più duraturo, come tra l’altro testimoniato dal buon dato dell’Hérault (3,2%) e della Corsica (4%), seppur va detto, a proposito di quest’ultima, che tale percentuale, per quanto rilevante, risulta in fondo non elevatissima se si tiene conto della storia e della posizione dell’isola, a testimonianza di come quella emigrazione tendesse a indirizzarsi principalmente nei centri dell’Esagono.
Fig. 10.5. Dislocazione territoriale: Seine: 19,7%; Bouches-du-Rhône: 13,3%; Var: 10,8%; Isère: 7,3%; Corse: 4%; Rhône: 3,2%; Hérault: 3,2%; Mont-Blanc: 2,8%; Bas-Rhin: 1,8%; Alpes-Maritimes: 1,7%; Nord: 1,3%; Moselle: 1,3%; Indre-et-Loire: 1,2%; Seine-et-Oise: 1,2%; Lot-et-Garonne: 1,2%; Hautes-Alpes: 1,2%; Basses-Alpes: 1,1%; Ain: 1,1%; Doubs: 1,1%; Altro (meno dell’1%): 21%.
Si ringrazia Francesco Caggiano Nepi per la realizzazione della carta.
Interessante, infine, anche l’analisi delle categorie professionali di tali individui, dalla quale emerge l’assoluta prevalenza dei soldati, che raggiungevano il 55% dei casi. Certo, un così alto numero di militari induce a rivedere al ribasso la presenza italiana in Francia negli anni napoleonici, dato che la loro condizione imponeva continue trasferte in tutt’Europa, ma resta comunque significativo che, pur avendo viaggiato in diversi paesi, dopo il crollo dell’Impero essi optassero per la possibilità della naturalizzazione in Francia anziché per quella del ritorno in patria, perché ciò mostra come gli anni appena trascorsi fossero serviti a rendere talmente forte il rapporto con il paese per il quale ci si era arruolati da non voler più interromperlo. Inoltre, proprio tale circostanza, nel confermare l’assoluta centralità dell’esercito nel consolidamento di uno spirito francofilo, attesta come dopo il ritorno di Luigi XVIII i servizi militari fossero pienamente considerati quali fattori di merito anche qualora prestati sotto il precedente ordine, tant’è che nelle domande la partecipazione a campagne napoleoniche, ben lungi dall’essere taciuta, era molto rivendicata: ovviamente nessun riferimento era fatto alla specifica persona di Napoleone e si preferiva presentare il proprio trascorso come un {p. 343}servizio reso alla nazione francese, ma sta di fatto che un simile dato prova come la nuova classe dirigente assurta al potere con la Restaurazione tendesse nel complesso a favorire il riconoscimento della naturalizzazione per un personale che aveva combattuto per la Francia e del quale giudicava preferibile assicurarsi la fedeltà.
Dunque, all’indomani del 1815, la leva dei cittadini stranieri continuava a essere, proprio come era accaduto negli anni napoleonici, il principale strumento per assicurarsi il consenso (o quantomeno per gestire il dissenso), oltre che una delle modalità più comode per incrementare le armate. Tuttavia, occorre precisare che nello status di soldato spesso rientravano anche altre categorie professionali quali quelle dei medici e degli ingegneri, con la conseguenza che tali competenze trovavano più possibilità di realizzazione nei ranghi dell’esercito che nelle libere professioni. La bassa percentuale di una categoria come quella dei medici (3%) – categoria che comunque richiedeva specifiche conoscenze e che quindi non poteva far registrare numeri molto alti – va letta in questa chiave, ossia con la consapevolezza che un’altra parte importante e non quantificabile di tale personale era registrata nella classe dei militari. Discorso simile anche per quanto riguarda il personale amministrativo, che con il 16,7% costituiva la seconda grande categoria professionale dei naturalizzati e che al proprio interno comprendeva diverse tipologie di lavoratori: dai funzionari operanti nelle Prefetture e nelle dogane, alle professioni tecniche come geometri e ingegneri del corpo di Ponti e strade. Seguivano poi i commercianti (10,3%) e ancor più distanziati i pescatori (6,4%): se queste due categorie risultavano per ovvie ragioni concentrate nei dipartimenti delle Bouches-du-Rhône e del Var, una discreta percentuale era fatta registrare a Parigi dalle professioni intellettuali (cioè scrittori, artisti, studenti ed editori-librai). Scarno era anche il numero di coloro i quali svolgevano incarichi politico-diplomatici (1,6%) e degli uomini di religione (1%): i primi anch’essi decisamente concentrati nella capitale e i secondi in gran parte cattolici (per quanto non mancassero anche alcuni rabbini). Infine, piuttosto esigua si rivelava la presenza {p. 344}di artigiani e lavoratori manuali (2,6%), tanto più se la si rapporta a quella fatta registrare da altri gruppi nazionali del tempo, come tedeschi e belgi, nei quali invece una simile manodopera era decisamente più numerosa [13]
.
Fig. 10.6. Categorie professionali (in percentuale).
Insomma, è fondamentale evidenziare come, a differenza dei cittadini di altri paesi che furono naturalizzati in quello stesso periodo, per quanto riguarda gli italiani se piuttosto scarsa fu la presenza di artigiani e nel complesso non elevatissima quella dei commercianti, davvero imponente risulta quella degli uomini operanti negli organi statali (in primis l’esercito e poi l’amministrazione): il tutto a testimonianza di un contatto, quello con la Francia napoleonica, che era avvenuto e si era consolidato non tanto mediante singole attività produttive, ma soprattutto nelle e attraverso le istituzioni dello Stato.

2. Qualche spunto di riflessione per una lettura socio-politica

Al di là dei dati quantitativi, lo studio dei dossier di naturalizzazione permette di effettuare ulteriori riflessioni anche, più nello specifico, sulle modalità con cui furono prima concepite e poi gestite le domande, ossia sui fattori {p. 345}giudicati dai singoli petizionari come maggiormente meritori di essere valorizzati e sui criteri usati nelle relative valutazioni dalle istituzioni ministeriali. Se si è detto della consistente sottolineatura della partecipazione a campagne militari nelle file dell’esercito francese da parte dei soldati (poi altrettanto lesti a evidenziare le ferite di guerra e i periodi di prigionia), occorre aggiungere come le dichiarazioni insistevano su due elementi particolari, entrambi considerati utili ad attestare l’avvenuta integrazione nella società francese.
Il primo era di natura privata, ossia il matrimonio contratto con una donna francese ed eventualmente il concepimento di figli durante il soggiorno oltralpe, seppur va precisato a proposito di quest’ultimo aspetto che per oltre i due terzi il rilievo era dato ai casi di prole nata da una donna francese, mentre inferiori erano le indicazioni di figli avuti sì in Francia, ma con donne italiane. In un caso come nell’altro, risulta in un certo senso ribadita la constatazione circa la scarsa attenzione alla situazione delle donne, le quali non solo nella pratica non sottomisero domande di naturalizzazione nonostante da un punto di vista normativo nulla ostava a tal proposito (dato che la legge si rivolgeva a «tous les habitants»), ma poi erano essenzialmente concepite come strumento di procreazione e poco o nulla si diceva di loro particolari abilità e competenze.
Il secondo elemento, invece, aveva connotati più politici e consisteva nell’esser stati insigniti di specifici titoli e onorificenze. In particolare, qui merita qualche riflessione il riferimento alla Legion d’onore, non solo perché esso era di gran lunga il più frequente, ma anche perché tale ordine, introdotto nel 1802, era a lungo stato considerato un titolo prettamente napoleonico. Tale circostanza, pertanto, costituisce una prova significativa di come la politica della nuova classe dirigente tendesse a coinvolgere il più possibile il personale distintosi nella stagione precedente: per uomini di tal genere ci si dimostrava nel complesso disposti a chiudere un occhio circa la passata militanza e a subordinare l’eventuale timore causato dai trascorsi napoleonici all’interesse di non disperderne le capacità.
Una simile osservazione trova poi conferma anche nella {p. 346}gestione di altri casi, come quelli degli uomini che avevano avviato in Francia iniziative commerciali di successo. Ad esempio, alla famiglia Marini, installatasi a Marsiglia nel 1796, la naturalizzazione veniva concessa proprio in virtù dei brillanti risultati conseguiti nei traffici con il Levante [14]
. Ancor più emblematica era la situazione dei negozianti Giuseppe Perasso e Gian Francesco Re, perché dalla natia Genova i due si erano trasferiti non in Francia ma a Tunisi, dove avevano poi fuso le loro iniziative «en un seul établissement qui y existe encore aujourd’hui sous la protection de France»: la loro naturalizzazione, dunque, era dovuta non tanto al loro concreto soggiorno oltralpe, quanto alle attività commerciali sull’altra sponda del Mediterraneo, giudicate «très satisfaisantes» dal Console francese [15]
.
Ma a essere particolarmente apprezzate dalla classe dirigente di Luigi XVIII erano soprattutto le domande di coloro i quali si erano contraddistinti nel mondo artistico e culturale. Era il caso, come detto, del romano Ennio Quirino Visconti, il quale, grazie alle prestigiose funzioni di conservatore al Museo del Louvre aveva fatto dimenticare la sua vicinanza agli indirizzi culturali napoleonici e aveva raggiunto una celebrità tale che i funzionari ministeriali ritenevano addirittura inutile effettuare ricerche sul suo conto [16]
. Discorso simile anche per il musicista parmigiano Ferdinando Paër, descritto come «compositeur distingué» e di cui si comunicava che la reputazione acquisita in Francia «dispense d’entrer dans beaucoup de détails à son égard». In questo caso, poi, particolarmente apprezzate erano le frequentazioni avviate nella società francese, dato che a suo favore non solo era evocato il ruolo d’insegnante di musica presso la duchessa di Berry, ma poi si sosteneva che «livré tout entier à l’amour de son art, il est recherché et accueilli par les personnes les plus distinguées de la capitale» [17]
. Da
{p. 347}questo punto di vista, non era certo una coincidenza che simili personalità risiedessero a Parigi, in quanto la capitale continuava a essere un indiscutibile luogo di attrazione per il mondo culturale del tempo. Fra esse vi era il milanese Gaetano Boldoni, giunto in Francia nel lontano 1781 e messosi in luce sin dai tempi della rivoluzione per le sue competenze linguistiche poste al servizio di importanti istituzioni statali: infatti, il rapporto che motivava l’approvazione della sua domanda riferiva che «après avoir été employé pendant 22 ans au bulletin des lois comme traducteur du gouvernement, il est maintenant interprète assermenté près la cour de cassation et professeur de langue italienne à l’Athénée royal» [18]
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Note
[12] I dipartimenti in questione erano: Aisne, Ardèche, Ardennes, Aude, Aveyron, Basses-Pyrénées, Charente-Inférieure, Deux-Sévres, Drôme, Eure, Finistère, Gard, Gers, Gironde, Haute-Garonne, Haute-Vienne, Haut-Rhin, Ille-et-Vilaine, Indre, Loire, Loiret, Loir-et-Cher, Maine-et-Loire, Marne, Meurthe, Meuse, Morbihan, Pas-de-Calais, Pyrénéés-Orientales, Seine-et-Loire, Seine-Infèrieure, Tarn, Tarn-et-Garonne, Yonne, Vaucluse.
[13] Dietrich-Chénel e Varnier, Intégration d’étrangers en France par naturalisation, cit., vol. 1, pp. 93-100, 139-150.
[14] Si trattava del padre Abraham, classe 1740, e dei due figli David e Giuseppe, tutti nati a Padova e di fede ebraica: ANF, BB/11, cart. 101/A, dr. 4013.
[15] ANF, BB/11, cart. 112/A, dr. 1135.
[16] Sul punto vedi infra, pp. 287-288.
[17] ANF, BB/11, cart. 123/A, dr. 6183.
[18] ANF, BB/11, cart. 100/A, dr. 3479.