Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/c10
Per quanto riguarda il resto, a
fronte di una generale disperazione territoriale che faceva registrare in ben 35
dipartimenti metropolitani una presenza di italiani inferiore all’1% (per un totale di
circa il 21%)
[12]
, oltre a Parigi l’altro grande polo d’attrazione era costituito, come
prevedibile, {p. 341}dalla zona del sud-est, quella geograficamente più
vicina alla penisola. Qui, tuttavia, più che i dipartimenti alpini, a primeggiare erano
quelli della Costa Azzurra, ossia le Bouches-du-Rhône (13,3%) e il Var (10,8%), seguiti
dal più interno Isère (7,3%). Anche in questa zona, la concentrazione urbana era
pressoché totale, in quanto i principali
¶{p. 342}centri di residenza
erano di gran lunga i capoluoghi dei dipartimenti, ossia Marsiglia per le
Bouches-du-Rhône, Tolone per il Var e Grenoble per l’Isère. Se non stupisce che nella
Costa Azzurra prevalesse la migrazione ligure e nel triangolo Lione-Grenoble-Chambéry
quella di provenienza piemontese, sorprende di più la cifra nel complesso modesta dei
dipartimenti alpini (Alpes-Maritimes, Basses-Alpes e Hautes-Alpes, che insieme
raggiungevano il 4%). Tale cifra si spiega in parte con la circostanza per cui fossero
soprattutto le mete costiere a rappresentare il luogo di soggiorno più duraturo, come
tra l’altro testimoniato dal buon dato dell’Hérault (3,2%) e della Corsica (4%), seppur
va detto, a proposito di quest’ultima, che tale percentuale, per quanto rilevante,
risulta in fondo non elevatissima se si tiene conto della storia e della posizione
dell’isola, a testimonianza di come quella emigrazione tendesse a indirizzarsi
principalmente nei centri dell’Esagono.
Interessante, infine, anche
l’analisi delle categorie professionali di tali individui, dalla quale emerge l’assoluta
prevalenza dei soldati, che raggiungevano il 55% dei casi. Certo, un così alto numero di
militari induce a rivedere al ribasso la presenza italiana in Francia negli anni
napoleonici, dato che la loro condizione imponeva continue trasferte in tutt’Europa, ma
resta comunque significativo che, pur avendo viaggiato in diversi paesi, dopo il crollo
dell’Impero essi optassero per la possibilità della naturalizzazione in Francia anziché
per quella del ritorno in patria, perché ciò mostra come gli anni appena trascorsi
fossero serviti a rendere talmente forte il rapporto con il paese per il quale ci si era
arruolati da non voler più interromperlo. Inoltre, proprio tale circostanza, nel
confermare l’assoluta centralità dell’esercito nel consolidamento di uno spirito
francofilo, attesta come dopo il ritorno di Luigi XVIII i servizi militari fossero
pienamente considerati quali fattori di merito anche qualora prestati sotto il
precedente ordine, tant’è che nelle domande la partecipazione a campagne napoleoniche,
ben lungi dall’essere taciuta, era molto rivendicata: ovviamente nessun riferimento era
fatto alla specifica persona di Napoleone e si preferiva presentare il proprio trascorso
come un ¶{p. 343}servizio reso alla nazione francese, ma sta di fatto
che un simile dato prova come la nuova classe dirigente assurta al potere con la
Restaurazione tendesse nel complesso a favorire il riconoscimento della naturalizzazione
per un personale che aveva combattuto per la Francia e del quale giudicava preferibile
assicurarsi la fedeltà.
Dunque, all’indomani del 1815, la
leva dei cittadini stranieri continuava a essere, proprio come era accaduto negli anni
napoleonici, il principale strumento per assicurarsi il consenso (o quantomeno per
gestire il dissenso), oltre che una delle modalità più comode per incrementare le
armate. Tuttavia, occorre precisare che nello status di soldato spesso rientravano anche
altre categorie professionali quali quelle dei medici e degli ingegneri, con la
conseguenza che tali competenze trovavano più possibilità di realizzazione nei ranghi
dell’esercito che nelle libere professioni. La bassa percentuale di una categoria come
quella dei medici (3%) – categoria che comunque richiedeva specifiche conoscenze e che
quindi non poteva far registrare numeri molto alti – va letta in questa chiave, ossia
con la consapevolezza che un’altra parte importante e non quantificabile di tale
personale era registrata nella classe dei militari. Discorso simile anche per quanto
riguarda il personale amministrativo, che con il 16,7% costituiva la seconda grande
categoria professionale dei naturalizzati e che al proprio interno comprendeva diverse
tipologie di lavoratori: dai funzionari operanti nelle Prefetture e nelle dogane, alle
professioni tecniche come geometri e ingegneri del corpo di Ponti e strade. Seguivano
poi i commercianti (10,3%) e ancor più distanziati i pescatori (6,4%): se queste due
categorie risultavano per ovvie ragioni concentrate nei dipartimenti delle
Bouches-du-Rhône e del Var, una discreta percentuale era fatta registrare a Parigi dalle
professioni intellettuali (cioè scrittori, artisti, studenti ed editori-librai). Scarno
era anche il numero di coloro i quali svolgevano incarichi politico-diplomatici (1,6%) e
degli uomini di religione (1%): i primi anch’essi decisamente concentrati nella capitale
e i secondi in gran parte cattolici (per quanto non mancassero anche alcuni rabbini).
Infine, piuttosto esigua si rivelava la presenza ¶{p. 344}di artigiani e
lavoratori manuali (2,6%), tanto più se la si rapporta a quella fatta registrare da
altri gruppi nazionali del tempo, come tedeschi e belgi, nei quali invece una simile
manodopera era decisamente più numerosa
[13]
.
Insomma, è fondamentale evidenziare
come, a differenza dei cittadini di altri paesi che furono naturalizzati in quello
stesso periodo, per quanto riguarda gli italiani se piuttosto scarsa fu la presenza di
artigiani e nel complesso non elevatissima quella dei commercianti, davvero imponente
risulta quella degli uomini operanti negli organi statali (in
primis l’esercito e poi l’amministrazione): il tutto a testimonianza di
un contatto, quello con la Francia napoleonica, che era avvenuto e si era consolidato
non tanto mediante singole attività produttive, ma soprattutto
nelle e attraverso le istituzioni dello
Stato.
2. Qualche spunto di riflessione per una lettura socio-politica
Al di là dei dati quantitativi, lo
studio dei dossier di naturalizzazione permette di effettuare ulteriori riflessioni
anche, più nello specifico, sulle modalità con cui furono prima concepite e poi gestite
le domande, ossia sui fattori ¶{p. 345}giudicati dai singoli petizionari
come maggiormente meritori di essere valorizzati e sui criteri usati nelle relative
valutazioni dalle istituzioni ministeriali. Se si è detto della consistente
sottolineatura della partecipazione a campagne militari nelle file dell’esercito
francese da parte dei soldati (poi altrettanto lesti a evidenziare le ferite di guerra e
i periodi di prigionia), occorre aggiungere come le dichiarazioni insistevano su due
elementi particolari, entrambi considerati utili ad attestare l’avvenuta integrazione
nella società francese.
Il primo era di natura privata,
ossia il matrimonio contratto con una donna francese ed eventualmente il concepimento di
figli durante il soggiorno oltralpe, seppur va precisato a proposito di quest’ultimo
aspetto che per oltre i due terzi il rilievo era dato ai casi di prole nata da una donna
francese, mentre inferiori erano le indicazioni di figli avuti sì in Francia, ma con
donne italiane. In un caso come nell’altro, risulta in un certo senso ribadita la
constatazione circa la scarsa attenzione alla situazione delle donne, le quali non solo
nella pratica non sottomisero domande di naturalizzazione nonostante da un punto di
vista normativo nulla ostava a tal proposito (dato che la legge si rivolgeva a «tous les
habitants»), ma poi erano essenzialmente concepite come strumento di procreazione e poco
o nulla si diceva di loro particolari abilità e competenze.
Il secondo elemento, invece, aveva
connotati più politici e consisteva nell’esser stati insigniti di specifici titoli e
onorificenze. In particolare, qui merita qualche riflessione il riferimento alla Legion
d’onore, non solo perché esso era di gran lunga il più frequente, ma anche perché tale
ordine, introdotto nel 1802, era a lungo stato considerato un titolo prettamente
napoleonico. Tale circostanza, pertanto, costituisce una prova significativa di come la
politica della nuova classe dirigente tendesse a coinvolgere il più possibile il
personale distintosi nella stagione precedente: per uomini di tal genere ci si
dimostrava nel complesso disposti a chiudere un occhio circa la passata militanza e a
subordinare l’eventuale timore causato dai trascorsi napoleonici all’interesse di non
disperderne le capacità.
Una simile osservazione trova poi
conferma anche nella ¶{p. 346}gestione di altri casi, come quelli degli
uomini che avevano avviato in Francia iniziative commerciali di successo. Ad esempio,
alla famiglia Marini, installatasi a Marsiglia nel 1796, la naturalizzazione veniva
concessa proprio in virtù dei brillanti risultati conseguiti nei traffici con il Levante
[14]
. Ancor più emblematica era la situazione dei negozianti Giuseppe Perasso e
Gian Francesco Re, perché dalla natia Genova i due si erano trasferiti non in Francia ma
a Tunisi, dove avevano poi fuso le loro iniziative «en un seul établissement qui y
existe encore aujourd’hui sous la protection de France»: la loro naturalizzazione,
dunque, era dovuta non tanto al loro concreto soggiorno oltralpe, quanto alle attività
commerciali sull’altra sponda del Mediterraneo, giudicate «très satisfaisantes» dal
Console francese
[15]
.
Ma a essere particolarmente
apprezzate dalla classe dirigente di Luigi XVIII erano soprattutto le domande di coloro
i quali si erano contraddistinti nel mondo artistico e culturale. Era il caso, come
detto, del romano Ennio Quirino Visconti, il quale, grazie alle prestigiose funzioni di
conservatore al Museo del Louvre aveva fatto dimenticare la sua vicinanza agli indirizzi
culturali napoleonici e aveva raggiunto una celebrità tale che i funzionari ministeriali
ritenevano addirittura inutile effettuare ricerche sul suo conto
[16]
. Discorso simile anche per il musicista parmigiano Ferdinando Paër,
descritto come «compositeur distingué» e di cui si comunicava che la reputazione
acquisita in Francia «dispense d’entrer dans beaucoup de détails à son égard». In questo
caso, poi, particolarmente apprezzate erano le frequentazioni avviate nella società
francese, dato che a suo favore non solo era evocato il ruolo d’insegnante di musica
presso la duchessa di Berry, ma poi si sosteneva che «livré tout entier à l’amour de son
art, il est recherché et accueilli par les personnes les plus distinguées de la capitale»
[17]
. Da
¶{p. 347}questo punto di vista, non era certo una
coincidenza che simili personalità risiedessero a Parigi, in quanto la capitale
continuava a essere un indiscutibile luogo di attrazione per il mondo culturale del
tempo. Fra esse vi era il milanese Gaetano Boldoni, giunto in Francia nel lontano 1781 e
messosi in luce sin dai tempi della rivoluzione per le sue competenze linguistiche poste
al servizio di importanti istituzioni statali: infatti, il rapporto che motivava
l’approvazione della sua domanda riferiva che «après avoir été employé pendant 22 ans au
bulletin des lois comme traducteur du gouvernement, il est maintenant interprète
assermenté près la cour de cassation et professeur de langue italienne à l’Athénée royal»
[18]
.
Note
[12] I dipartimenti in questione erano: Aisne, Ardèche, Ardennes, Aude, Aveyron, Basses-Pyrénées, Charente-Inférieure, Deux-Sévres, Drôme, Eure, Finistère, Gard, Gers, Gironde, Haute-Garonne, Haute-Vienne, Haut-Rhin, Ille-et-Vilaine, Indre, Loire, Loiret, Loir-et-Cher, Maine-et-Loire, Marne, Meurthe, Meuse, Morbihan, Pas-de-Calais, Pyrénéés-Orientales, Seine-et-Loire, Seine-Infèrieure, Tarn, Tarn-et-Garonne, Yonne, Vaucluse.
[13] Dietrich-Chénel e Varnier, Intégration d’étrangers en France par naturalisation, cit., vol. 1, pp. 93-100, 139-150.
[14] Si trattava del padre Abraham, classe 1740, e dei due figli David e Giuseppe, tutti nati a Padova e di fede ebraica: ANF, BB/11, cart. 101/A, dr. 4013.
[15] ANF, BB/11, cart. 112/A, dr. 1135.
[16] Sul punto vedi infra, pp. 287-288.
[17] ANF, BB/11, cart. 123/A, dr. 6183.
[18] ANF, BB/11, cart. 100/A, dr. 3479.