Paolo Conte
Da esuli a francesi
DOI: 10.1401/9788815413031/c10
Proprio sul meccanismo della dichiarazione del singolo individuo occorre qui soffermarsi, perché esso costituisce uno dei principali elementi di continuità con la stagione precedente. La legge, infatti, s’ispirava in maniera evidente alla Costituzione dell’anno VIII, la quale per l’ottenimento della cittadinanza francese aveva stabilito le medesime condizioni e che, a sua volta, si era ispirata, pur aumentando di tre anni la durata minima di residenza, alla Costituzione del 1795, dalla quale aveva soprattutto attinto il principio della necessità di un’esplicita dichiarazione da parte del diretto interessato attestante la volontà di divenire francese. Era cessato, così, il meccanismo della «naturalizzazione automatica» che si era innescato ancor prima, cioè con la Costituzione del 1793, il cui articolo 4, non poco alimentato dalle impellenti necessità di quegli anni di estendere il corpo di leva, aveva previsto per tutti gli stranieri dimoranti in Francia da almeno un anno l’automatica ammissione alla cittadinanza. Certo, rispetto alla Costituzione direttoriale e a quella consolare, nel 1814 un cambiamento importante era pur subentrato, ossia l’approvazione di quel Code Civile che all’articolo 7 del titolo primo aveva introdotto una netta distinzione fra la qualità di «cittadino» (da fissarsi per via costituzionale) e quella di «francese» (definita invece dal Codice), obbligando a trattare il tema per via legislativa e non costituzionale. Tuttavia, nel nuovo ordine restava
{p. 332}comunque il principio, stabilito dall’obbligo dell’esplicita dichiarazione, per cui la nazionalità a cui appartenere fosse da concepirsi in un’ottica liberale, ossia quale diritto legato alla persona, cioè risultante – posto il rispetto di determinate condizioni – dalla volontà del singolo e non da esigenze sovra-individuali [8]
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Per quel che riguarda questo studio, poi, è fondamentale sottolineare come la legge – che pur formalmente non si rivolgeva indistintamente a tutti, ma solo agli «habitants des départements» – fu applicata, a dispetto del suo stesso titolo, pure ad altri stranieri. Essa, cioè, servì concretamente a definire l’acquisizione della nazionalità non solo per gli individui nati negli ex dipartimenti (quali quelli piemontesi o quelli dei Paesi Bassi), ma anche per i cittadini provenienti da paesi che in quegli anni erano stati formalmente indipendenti (come gli alleati Regno di Napoli e Regno d’Italia o, addirittura, come lo storico nemico Inghilterra). E soprattutto, va precisato che la legge regolamentava la naturalizzazione non per tutti i cittadini dei territori annessi all’Impero, ma solo per coloro i quali «en vertu de cette réunion, se sont établis sur le territoire actuel de France»: essa, cioè, più che stimolare una migrazione successiva, puntava a regolamentare, nel nuovo ordine, un contatto già verificatosi nella stagione precedente.
Tutto ciò permette di comprendere perché l’attenzione alle naturalizzazioni degli albori della Restaurazione risulta utile anche in una ricerca volta ad analizzare l’emigrazione italiana in Francia negli anni napoleonici. Infatti, lo studio di tali domande (conservate nel fondo BB/11 degli Archives Nationales) costituisce uno strumento straordinario per reperire ulteriori informazioni sull’emigrazione in direzione francese degli anni precedenti, dato che i dossier contengono per ogni singolo petizionario, oltre alla citata dichiarazione, anche incartamenti vari (come rapporti ministeriali e lettere di raccomandazione) molto utili a ottenere notizie riguardanti il soggiorno di tali uomini nella Francia rivoluzionario-napoleonica, quali l’anno di arrivo, la città di residenza {p. 333}e l’evoluzione della carriera. Pertanto, un simile studio non solo permette di effettuare una generale mappatura circa la provenienza geografica, i tratti socio-professionali e la dislocazione territoriale di una parte consistente della popolazione straniera residente in Francia agli inizi della Restaurazione, ma consente anche di ottenere nuove informazioni sui protagonisti di quella mobilità, ossia di meglio conoscere le motivazioni dell’avvio del loro soggiorno oltralpe e le caratteristiche della continuazione della loro presenza. Certo, resta opportuno puntualizzare come tale studio non sia esaustivo, perché esso si fonda non sugli elenchi ministeriali degli arrivi, bensì sulle volontarie dichiarazioni dei singoli richiedenti, i quali non costituivano l’intera comunità italiana emigrata oltralpe in quegli anni: tuttavia, esso ci è comunque sembrato molto utile per conoscere, anche da un punto di vista quantitativo, quell’emigrazione.
Infatti, già il primo e più evidente dato che emerge dall’analisi di tali fonti, ossia quello relativo alla consistenza numerica dei dossier inerenti gli italiani, è di per sé alquanto significativo: furono ben 1.601 i cittadini nati nei territori della penisola che, a far data dal 1814 fino a tutto il 1820, chiesero ufficialmente la naturalizzazione francese. Si tratta di una cifra rilevante che, seppur ancora lontana dai numeri dell’emigrazione di massa della Terza Repubblica francese, conferma la consistenza della presenza italiana nella Francia dei primi due decenni del secolo, in quanto tale presenza costituiva circa il 20% del totale degli stranieri naturalizzati in quegli anni, i quali furono nel complesso poco più di 8.000 [9]
. Colpisce, poi, la pressoché totale assenza di donne, dato che le uniche petizionarie furono 4 sorelle native di Genova, la cui domanda, tra l’altro, fu sottoposta dal nonno materno, essendo queste rimaste orfane del padre [10]
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La procedura prendeva avvio a seguito dell’esplicita dichiarazione del diretto interessato, raramente accompagnata da certificati di nascita e di solito effettuata nella Mairie del comune di residenza seguendo la formula attraverso la quale lo straniero si autoproclamava «attaché à la France, qui est la seule patrie qu’il connaisse aujourd’hui et désirant s’y fixer définitivement». Seguiva la ricerca amministrativa gestita dal Ministero della giustizia e finalizzata ad attestare il duraturo soggiorno in Francia dell’interessato, la sua professione ed eventuali controindicazioni.
Delle domande italiane circa il 21% fu rigettato, mentre i dossier restanti, quelli conclusisi con l’approvazione, ottennero il riconoscimento della naturalizzazione per il 71% e quello della più modesta ammissione a domicilio per l’8%. Dalla distribuzione cronologica delle domande emerge come sin dai primi tempi della presenza della restaurata monarchia borbonica un numero alto di italiani avesse già raggiunto i dieci anni di residenza richiesti, dato che a una prima fase in cui le domande furono molto consistenti seguì, a partire dal 1818, una seconda caratterizzata da una generale riduzione. A tale evoluzione occorre poi aggiungere che nel 1814 le domande, pur cominciando da fine giugno, si intensificarono solo dalla seconda metà di ottobre (ossia a seguito della promulgazione della citata legge del 14 del mese), mentre nel 1815 un arco di tempo piuttosto consistente, quello che vide il ritorno al potere di Napoleone, fu caratterizzato dalla netta interruzione di tali domande, dato che per la fase compresa fra il 20 marzo e il 30 giugno si contano solo 21 dichiarazioni.
I ragguagli che emergono dalla distribuzione cronologica dell’apertura dei dossier trovano ulteriore conferma dalle indicazioni risultanti dall’anno di arrivo, le quali, indicate per il 70% dei casi nei singoli incartamenti, forniscono le informazioni più rilevanti di questo studio, ossia quelle che meglio permettono di avere un quadro della cronologia di tale emigrazione. Delle domande in cui è stato possibile reperire l’anno di arrivo, le percentuali annue restano piuttosto basse per la fase precedente la Rivoluzione (0,4% per gli ultimi tre lustri dell’ancien régime per un totale di poco inferiore {p. 335}al 6%), così come per la stagione che va dalla presa della Bastiglia al 1795 (0,9%), seppur quest’ultima segni comunque un primo significativo aumento. Il vero incremento si fa registrare in corrispondenza del Triennio (2,5% nel 1796 e 4,3% nel 1797 e nel 1798), per poi toccare i punti più alti in coincidenza con la stagione dell’esilio: infatti, sia il 1799 che il 1800, ossia gli anni del grande flusso dei rifugiati politici in Francia, fanno registrare una percentuale dell’8,9%.
Fig. 10.1. Cronologia delle dichiarazioni.
Insomma, degli italiani che nel primo quinquennio della Restaurazione chiesero la naturalizzazione un totale di poco inferiore al 18% era giunto in Francia nei mesi tragici della fuga forzata seguita al crollo delle «Repubbliche sorelle». Certo, non per forza tutti questi arrivi erano causati da motivi politici, ma il dato ci sembra comunque rilevante, perché esso attesta – ex post e in una prospettiva quantitativa – come non sempre l’esilio politico si fosse concluso con il rientro in patria. Una simile percentuale, pertanto, induce a retrodatare a tale fase le condivisibili affermazioni di Delphine Diaz sulla tendenza, registratasi in Francia lungo tutto il corso della prima metà del XIX secolo, alla «pérennisation du séjour d’exil», ossia alla «installation durable dans le pays d’asile» [11]
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Gli arrivi continuarono a restare alti per tutta la stagione del Consolato, durante la quale si passò dal 6,2% annuo nel biennio 1801-1802, all’8,1% nel biennio successivo, ossia quello che seguiva l’annessione del Piemonte e che dunque vedeva un esodo significativo dei cittadini provenienti da tali zone, i quali – come visto nei rapporti della spia Hus – erano giunti in Francia non da esuli, ma come «nuovi francesi» che approfittavano della svolta istituzionale del proprio paese per cercare oltralpe nuove prospettive di vita. Infine, per completare il quadro va detto che se dal 1807 si avviava una progressiva flessione, la percentuale riprendeva a salire nei mesi successivi al crollo dell’Impero: una simile circostanza attesta non solo come quella svolta segnasse una ripresa delle rotte verso la Francia, ma soprattutto come la nuova mobilità si accompagnasse a una maggiore richiesta di ottenere la naturalizzazione, seppur facendo leva non tanto sulla duratura presenza nei territori transalpini, quanto sullo storico soggiorno nei dipartimenti annessi. Ad esempio, nell’ottobre 1815, una decina di pescatori giunti dalla costa ligure solo un anno e mezzo prima (ossia nel maggio 1814) otteneva di potersi installare a Saint-Tropez, seppur in tal caso fu accordata loro solo l’ammissione a domicilio.
In generale, comunque, se si considera che lo studio ha preso in considerazione esclusivamente le richieste di
{p. 337}naturalizzazione effettuate fino al 1820, risulta tutt’altro che marginale la percentuale di italiani giunti nei territori francesi dopo il 1810, ossia di coloro i quali effettuarono la dichiarazione pur non avendo trascorso i dieci anni di residenza necessari. Ed a tal riguardo va detto, a conferma di come il rispetto dei vincoli legislativi fosse gestito in maniera molto elastica, che la risposta sarebbe stata fondamentalmente positiva, perché per tali domande i rifiuti ammontano al 10%, a fronte del citato 21% totale. Rispetto ai dati generali, tuttavia, vi era una significativa differenza dovuta al fatto che la percentuale di ammissioni a domicilio aumentava sensibilmente. Da ciò deriva una duplice conseguenza: da un lato, l’ammissione al domicilio fu utilizzata, proprio come nel caso dei pescatori liguri, soprattutto per regolare situazioni alle quali, invece, la naturalizzazione proprio non poteva essere applicata; dall’altro, la politica dello Stato francese si dimostrò nel complesso piuttosto aperta ad accogliere casi di emigrazione recente dovuti a ragioni economico-produttive, mentre non di natura burocratica furono i principali motivi dei rifiuti.
Note
[8] Weil, Qu’est-ce qu’un Français?, cit., pp. 23-63.
[9] Sulle naturalizzazioni di altri gruppi nazionali nella Francia di quegli anni si veda K. Dietrich-Chénel e M.-H. Varnier, Intégration d’étrangers en France par naturalisation ou admission à domicile de 1790-1814 au 10 mai 1871, tesi di dottorato sostenuta all’Université de Provence Aix-Marseille 1, 1994.
[10] ANF, BB/11, cart. 153/B, dr. 9186.
[11] D. Diaz, Un asile pour tous les peuples? Exilés et réfugiés étrangers en France au cours du premier XIXe siècle, Paris, Armand Colin, 2014, p. 175.