Lavinia Bifulco, Maria Dodaro (a cura di)
Quale welfare dopo la pandemia?
DOI: 10.1401/9788815412003/c11
Tra il 2000 e il 2004 in Europa si è registrato un rapido aumento dell’età media in cui i giovani tendevano a lasciare la casa dei genitori. Questo diffuso rinvio è legato ai crescenti livelli di precarietà del lavoro che caratterizza tutti i paesi. L’aumento è stato particolarmente significativo in Italia, Spagna e Grecia, paesi che nello stesso periodo hanno registrato la crescita più elevata di disoccupazione giovanile. Nel 2021 l’età media stimata in cui i giovani hanno smesso di vivere con uno o più genitori è di 26,5 anni [Eurostat 2022]. In Italia i giovani lasciano la casa dei genitori in media intorno ai 30 anni. Tradizionalmente i giovani italiani sono tra gli ultimi a lasciare la casa dei genitori e le politiche volte a favorire questa transizione sono state scarse e incentrate principalmente sulla promozione della proprietà. Questa situazione è molto comune nella maggior parte dei paesi dell’Europa centro-orientale e meridionale, dove la famiglia e le reti sociali tradizionalmente forniscono supporto materiale ed emotivo per far fronte alla precarietà del lavoro e ai rischi di esclusione sociale. La decisione di trasferirsi dalla casa dei genitori è legata all’autonomia economica, ma quest’ultima non rappresenta l’unica determinante. Un mix di preferenze personali, norme culturali e sociali, circostanze economiche e fattori istituzionali contribuisce alle singole scelte. A livello macro, le istituzioni e le politiche possono avere un impatto di mitigazione sugli effetti negativi della disoccupazione e della precarietà del lavoro rispetto all’autonomia abitativa. Per quanto riguarda le politiche di welfare per i giovani, nonostante le differenze tra gli Stati, dalla crisi finanziaria «diversi governi hanno attuato {p. 198}tagli di bilancio alle prestazioni assistenziali per i giovani, trasferendo la responsabilità e il ruolo degli ammortizzatori sociali ai genitori e alle famiglie» [FEANTSA e Fondation Abbé Pierre 2021, 32, traduzione mia]. In questo quadro acquisiscono importanza dimensioni di livello meso, come la famiglia e i network sociali. Nei paesi dove i giovani tendono ad andarsene più tardi, la famiglia è un attore fondamentale nell’offerta di welfare e il sostegno dei genitori è di fondamentale importanza per l’accesso all’alloggio. Da un lato, una permanenza più lunga nella casa familiare consente ai giovani di risparmiare tempo, denaro e fatica nel loro percorso verso l’indipendenza. Dall’altro, il sostegno può assumere la forma di un trasferimento intergenerazionale di ricchezza, che può compensare la mancanza di lavoro e di reddito. Un altro dominio di vincoli strutturali che gioca un ruolo nella transizione ritardata verso l’età adulta è quello relativo alle caratteristiche dei sistemi abitativi. La finanziarizzazione della casa ha portato a un aumento vertiginoso dei prezzi, soprattutto nelle grandi aree urbane, con impatti disomogenei sulla vita delle famiglie. Dopo il 2008, le istituzioni finanziarie hanno introdotto vincoli all’accesso al credito, che incidono sull’accesso alla proprietà della casa, soprattutto per alcune categorie come i giovani. Inoltre, i giovani si trovano spesso ad affrontare peggiori condizioni abitative. Come evidenzia il rapporto di FEANTSA e Fondation Abbé Pierre relativo al periodo pandemico, «quando possono accedere a un alloggio, sono costretti a vivere il lockdown in condizioni pessime, sperimentando il sovraffollamento e/o la povertà energetica» [ibidem, 33, traduzione mia]. Nel 2019 il 23,5% dei giovani tra 15 e 29 anni viveva in condizioni di sovraffollamento rispetto al 15,6% della popolazione totale. La coabitazione rappresenta una strategia contro l’aumento dei costi, degli oneri di accesso all’alloggio e l’insufficiente offerta di alloggi adeguati, piuttosto che una libera scelta, spesso frutto di rappresentazioni romanticizzate dal discorso pubblico. Soprattutto nelle grandi aree metropolitane, i piccoli appartamenti non sono sufficienti a coprire la domanda abitativa di alcune categorie sociali il cui numero sta aumentando (famiglie unipersonali, studenti),
{p. 199}producendo così concorrenza per lo stesso tipo di offerta. Inoltre, lo spostamento di parti crescenti del patrimonio residenziale verso il turismo e le locazioni a breve termine aggrava ulteriormente questa carenza. I giovani che non possono contare sul sostegno familiare sono spesso quelli che soffrono di più in questa competizione a causa dei fattori che ho fin qui discusso. Così come la precarietà lavorativa rischia di diventare una condizione permanente, lo stesso rischio riguarda l’home sharing: «mentre questa è considerata una fase normale della vita, che consente ai giovani di condividere le spese abitative, di imparare dalle esperienze di spazi di vita condivisi e di evitare di isolarsi socialmente, può anche essere una trappola se non è una scelta fatta di propria spontanea volontà» [ibidem, 43, traduzione mia]. La stessa ambivalenza caratterizza l’utilizzo dei contratti di affitto a tempo determinato. Nei discorsi pubblici spesso i giovani sono descritti come professionisti flessibili le cui esigenze e aspirazioni di mobilità professionale sono ostacolate dall’eccessiva regolamentazione del mercato e dell’offerta abitativa. Tuttavia, la diffusione di contratti di affitto temporaneo rischia di aumentare la loro precarietà perché, soprattutto in situazioni già vulnerabili, può sfociare in una pretestuale contrazione dei diritti di locazione e di tutela.

5. L’attivazione nelle nuove politiche abitative per i giovani

Negli ultimi venti anni circa, le politiche abitative hanno subito rilevanti cambiamenti coerentemente con il ridisegno dei sistemi europei di protezione sociale avviato negli anni Ottanta [Bifulco 2017]. Nei nuovi assetti di welfare, l’offerta di servizi e l’attuazione delle politiche pubbliche sono state aperte alle organizzazioni private. Inoltre, l’attivazione dei cittadini è diventata fondamentale per accedere ad alcune opportunità di welfare [Dodaro e Costarelli 2021]. Ai cittadini viene sempre più affidata la responsabilità di occuparsi attivamente della propria protezione sociale (autoresponsabilizzazione) (Bifulco e Dodaro, supra). La richiesta di una maggiore responsabilità individuale è intesa anche come {p. 200}impegno attivo per il benessere delle comunità locali, in particolare dei quartieri emarginati [Newman e Tonkens 2011]. Il welfare abitativo per i giovani è un ambito in cui questa strategia è più spesso promossa. Come già sottolineato, i giovani si indirizzano principalmente verso il settore degli affitti privati e di solito non sono un target prioritario nell’edilizia sociale. In questo contesto, molte organizzazioni stanno sperimentando soluzioni innovative per offrire alloggi più convenienti ai giovani. Queste sperimentazioni riguardano diversi aspetti della definizione e dell’attuazione delle politiche (governance, finanziamento, definizione degli obiettivi, caratteristiche dell’offerta ecc.). In particolare, la ridefinizione dei tradizionali criteri di assegnazione e delle condizioni della locazione è una delle strategie utilizzate per aumentare le opportunità per i giovani di accedere ad alloggi pubblici e sociali. È il caso, ad esempio, di alcuni nuovi progetti ispirati alla figura del residente attivo. In questi casi, gli interventi abitativi forniscono soluzioni a breve termine a giovani che si impegnano in lavori di comunità in quartieri vulnerabili. I giovani residenti attivi possono accedere ad alloggi a condizioni di prezzo vantaggiose se soddisfano requisiti specifici e si impegnano formalmente a contribuire al benessere delle comunità (condizionalità). La figura del residente attivo è costruita socialmente facendo riferimento a un insieme sfaccettato di caratteristiche personali: capacità collaborative e relazionali; socievolezza, apertura e capacità di adattamento; desiderio di essere coinvolto e contribuire al benessere della sua comunità e dei suoi vicini. Questi tratti personali sono solitamente mescolati a criteri oggettivi che definiscono il bisogno per accedere al patrimonio abitativo sociale. Valutati i requisiti di accesso, al futuro abitante viene chiesto di impegnarsi attivamente per contribuire al benessere della comunità in cui andrà a vivere. Questi compiti sono spesso parte integrante del contratto che definisce formalmente i suoi rapporti con il gestore del progetto abitativo. L’attivazione gioca sia a livello individuale che collettivo. Ai cittadini viene chiesto di impegnarsi attivamente nella ricerca di una soluzione al proprio bisogno abitativo attraverso la valorizzazione delle {p. 201}proprie risorse e competenze relazionali. Questo significa saperle riconoscere, sapere come promuoverle presso gli operatori che hanno in carico la selezione e come utilizzarle in contesti e situazioni che potrebbero essere diversi da quelli in cui sono state apprese e praticate. Nella pratica delle abilità collaborative [Sennett 2012] in contesti vulnerabili, il capitale umano e sociale del residente attivo dovrebbe essere rafforzato e migliorato, funzionando così come fattore preventivo nell’affrontare le potenziali difficoltà della vita. Allo stesso tempo, al residente attivo è richiesto di essere responsabile nei confronti della comunità circostante, prendendosi cura sia degli spazi fisici che delle relazioni tra i vicini. Queste «nuove forme di social mix del nuovo millennio» [Costarelli 2017, 99] non sono esenti da rischi ed effetti collaterali. Soprattutto in quei contesti in cui lo stock di edilizia popolare e sociale è scarso, contribuiscono a ridurre ulteriormente lo stock disponibile per i più poveri attraverso l’assegnazione di appartamenti a specifiche categorie di beneficiari o valorizzando determinati tipi di abilità e risorse personali ritenute più efficaci per l’integrazione personale e l’inclusione sociale. Inoltre, l’utilizzo di criteri di ammissibilità come la motivazione, le attitudini e capacità personali nella selezione dei potenziali residenti traccia nuove linee di demarcazione e rende le politiche abitative più selettive nella distribuzione dei diritti assistenziali sulla base di criteri soggetti ad elevata discrezionalità. Il social mix basato sull’attivazione dei beneficiari rischia di sfociare in un ulteriore meccanismo di esclusione di chi ha meno risorse. I tratti della personalità non sono più neutri nell’accesso al welfare, ma acquisiscono così uno statuto sociale e politico che contribuisce a definire le condizioni nelle quali la cittadinanza può e deve essere esercitata.

6. Conclusioni

In un contesto consolidato di estrema scarsità di risorse pubbliche per le politiche abitative e di attestazione dei livelli di disuguaglianza su valori elevati, occorre sostenere con forza {p. 202}che la casa pubblica in affitto sia considerata una priorità nelle agende politiche nazionali e regionali. Questo vuol dire impegnarsi a trovare e dedicare risorse per l’ampliamento e la ristrutturazione del patrimonio pubblico per evitare che rimanga colpevolmente vuoto di fronte a una domanda pressante e sempre più ampia. Più in generale si auspica un ripensamento rispetto all’attuale assenza di politiche e fondi di supporto all’abitare pubblico e sociale nell’ordinario bilancio dello Stato. Rispetto all’utilizzo di alcuni strumenti e strategie di policy come la condizionalità e l’attivazione nell’accesso al welfare abitativo, occorre tenere viva e attenta la riflessione affinché non diventino ulteriori strumenti di selezione verso l’alto dei beneficiari, a fronte di risorse abitative già scarse e una tendenza alla prioritarizzazione e alla targhettizzazione nell’accesso alle risorse abitative sociali, che rischiano di escludere nuovamente i più vulnerabili. Infine, preme evidenziare quanto sia rilevante per la sua efficacia sociale che il welfare abitativo sia integrato in un sistema pubblico di protezione sociale che contribuisca a mitigare gli effetti negativi di altri accadimenti della vita (ad esempio, la precarietà lavorativa, la malattia ecc.) che influiscono sulla possibilità di accedere a, e mantenere, una casa dignitosa.

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Note