Quale welfare dopo la pandemia?
DOI: 10.1401/9788815412003/c11
Poggio e Boreiko [2018] utilizzano la
seguente distinzione per classificare diverse tipologie di offerta riconducibili al
comparto dell’edilizia sociale italiana: il patrimonio di edilizia residenziale
popolare, l’offerta messa a disposizione attraverso il sistema integrato dei fondi (SIF)
[4]
e lo stock afferente alle organizzazioni del Terzo settore. Il primo è
costituito da alloggi finanziati dal governo e costruiti dai comuni o dalle agenzie di
edilizia popolare. Dopo la Seconda guerra mondiale è stato sviluppato un piano nazionale
di edilizia sociale (Piano INA-Casa), seguito negli anni Sessanta dall’istituzione di un
fondo (Gescal) alimentato da un contributo obbligatorio da parte dei lavoratori e dei
loro datori di lavoro. L’obiettivo dei programmi era duplice: affrontare la carenza di
alloggi, soprattutto nelle aree urbane dove arrivavano persone provenienti da altre
parti d’Italia per lavorare nell’industria, promuovendo allo stesso tempo il settore
delle costruzioni. Per quanto riguarda il target, la visione dei piani era più vicina
all’approccio universalistico alla politica abitativa di quanto non lo sia oggi: mirava,
cioè, ad affrontare la domanda abitativa di ampie fasce della popolazione. Dagli anni
Novanta lo stock pubblico si è ridotto a causa della progressiva vendita di abitazioni e
alla sostanziale riduzione di (stabili) finanziamenti pubblici per la realizzazione di
nuove case popolari. Inoltre, lo stock pubblico è stato interessato da un processo di
residualizzazione. L’assegnazione di alloggi popolari a famiglie a basso reddito e
vulnerabili è più coerente con il modello abitativo residuale, al quale si è
successivamente orientato quello italiano. L’intervento pubblico si rivolge solo a
quelle famiglie i cui bisogni abitativi non trovano soluzione nel mercato.
Paradossalmente, la maggiore efficacia di tali politiche nel raggiungere la popolazione
target aumenta la residualizzazione e si scontra con la crescente carenza di
finanziamento
¶{p. 194}e gestione del patrimonio di edilizia popolare. I
canoni degli alloggi popolari sono parametrati alla condizione economica degli
inquilini. Poiché si tratta per lo più di famiglie a basso reddito, gli affitti sono
fissati a livelli molto bassi. Pur perseguendo obiettivi di giustizia sociale, questo
sistema produce problemi di sostenibilità finanziaria per i proprietari in assenza di un
sistema solido di sostegno pubblico alle famiglie a basso reddito o disoccupate
[ibidem]. Inoltre, le politiche di austerità post-crisi hanno
ulteriormente ridotto la spesa pubblica nel welfare in generale, producendo un circolo
vizioso di aumento dei bisogni e diminuzione delle risorse. I bilanci traballanti delle
agenzie pubbliche per la casa incidono sulla possibilità di ripristinare appartamenti
vuoti, lasciandoli inutilizzati per lungo tempo e aumentando il rischio di occupazione.
Il limitato turnover degli inquilini e le difficoltà di riassegnazione degli alloggi
vuoti si scontrano con l’ampia domanda abitativa in attesa nelle graduatorie pubbliche
[5]
e con l’espansione della domanda abitativa.
I riferimenti all’ampliamento e alla
diversificazione della domanda abitativa caratterizzano il nuovo Piano nazionale casa 2008
[6]
. Il cosiddetto housing sociale, la principale linea di
azione promossa dal piano, è destinato a chi non può sostenere i costi del mercato
privato né può accedere all’edilizia residenziale pubblica (la cosiddetta «fascia
grigia»). L’offerta abitativa è realizzata attraverso le risorse di fondi immobiliari
pubblico-privati, originati da un’esperienza pilota nella città di Milano [Dagnes e
Salento 2022]. Il meccanismo mira a utilizzare risorse pubbliche per attrarre fondi
privati nell’ambito dell’edilizia sociale, proponendosi di generare un effetto
moltiplicatore rispetto allo stock da costruire. L’offerta così messa a disposizione è
un mix di usi e titoli di godimento: appartamenti, attività commerciali e servizi da una
parte; dall’altra appartamenti in affitto a lungo termine, ma anche in vendita o in
patto di futura vendita nell’ambito ¶{p. 195}di convenzioni comunali. La
diversificazione dell’offerta mira a contribuire alla sostenibilità economica e sociale
delle iniziative. Gli affitti sono più alti rispetto all’edilizia popolare, ma
dovrebbero essere inferiori rispetto al mercato privato. Pertanto, i criteri di
assegnazione sono diversi rispetto all’edilizia residenziale pubblica in quanto il
target è diverso e le iniziative devono garantire ritorni agli investitori. L’ultima
categoria identificata dagli autori si riferisce all’offerta di alloggi a prezzi
accessibili messi a disposizione dal settore non profit, cooperative, associazioni, enti
di beneficenza tradizionali ecc. Alcune di queste organizzazioni sono anche investitori
nei fondi immobiliari locali all’interno del sistema SIF (ad esempio in Toscana). In
altri casi non forniscono direttamente l’alloggio, ma gestiscono i complessi abitativi
lavorando per le società che hanno realizzato le iniziative, portando nel settore
immobiliare la loro esperienza, spesso innovativa, di integrazione con la dimensione
sociale delle politiche abitative. Tuttavia, il quadro complessivo risente delle
tradizionali debolezze del settore non profit italiano, molto frammentato e scarsamente
coordinato nel rapporto con gli attori pubblici [Bricocoli e Coppola 2013].
I cambiamenti che hanno
caratterizzato le politiche abitative italiane sono coerenti con le più ampie
trasformazioni avvenute nell’erogazione dei servizi di welfare a livello europeo:
devoluzione e riorganizzazione dei livelli di governo; diffusione di principi e modelli
market-oriented (Bifulco e Dodaro, supra)
e riduzione dei costi; cambiamenti nel ruolo dei beneficiari. In Italia, a seguito della
riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001, c’è stato uno spostamento di
competenze dallo stato centrale alle Regioni. Alle Regioni spettano i compiti di
indirizzo, programmazione e «definizione delle regole di gestione e finanziamento»
[Petsimeris 2018, 270, traduzione mia], mentre è assegnata alle amministrazioni locali
la responsabilità di progettare gli interventi. Questo spostamento ha sicuramente
contribuito alla frammentazione delle politiche abitative in un paese già caratterizzato
da profonde disuguaglianze territoriali e da scarso coordinamento tra i diversi livelli
di governo e governance. La redistribuzione dei poteri pubblici non
è ¶{p. 196}stata accompagnata da una sufficiente redistribuzione delle
risorse finanziarie e, anche quando le risorse sono state fornite in un contesto
generale di tagli di bilancio, non sono state sufficienti a coprire le esigenze. In un
tale scenario, la competenza delle istituzioni locali a raccogliere e a organizzare
risorse e competenze diverse è diventata fondamentale per affrontare il ridimensionato
impegno degli attori pubblici. Il coinvolgimento di organizzazioni provenienti dal
settore privato è stato sostenuto anche da discorsi sulla presunta maggiore efficienza
nel rispondere ai problemi sociali [Bifulco 2017]. Lo sviluppo del sistema dei fondi è
stato sostenuto da questi nuovi accordi tra attori pubblici e privati e dal
coinvolgimento operativo del settore privato, in particolare delle organizzazioni non
profit. Inoltre, l’idea di housing sociale promossa da queste
iniziative è supportata da una riconcettualizzazione dell’abitare e delle politiche
abitative in un senso più ampio rispetto al passato: il loro scopo non è più solo quello
di costruire o fornire nuovi alloggi a prezzi accessibili, quanto di affrontare una
questione abitativa più complessa che si mescola con temi legati all’inclusione sociale
e a nuovi bisogni relazionali [Ascoli e Bronzini 2018]. Il ruolo crescente svolto da
organizzazioni private nell’attuazione delle politiche ha favorito un cambiamento nello
stile di gestione. Il nuovo modello promosso attraverso l’housing
sociale è indicato come gestione sociale integrata, dove l’accento è posto
sull’interconnessione tra i diversi aspetti della gestione abitativa (tecnici, sociali e
finanziari) all’interno della quale la componente sociale gioca un ruolo fondamentale.
Questa si riferisce principalmente al ruolo attivo dei residenti nel miglioramento del
benessere della comunità. Criteri non standard di assegnazione e selezione dei residenti
vengono introdotti per individuare persone e nuclei familiari propensi e con competenze
utili a svolgere un ruolo attivo nella gestione.
Il quadro che ho qui ricostruito non
è certamente esaustivo della storia e dello stato attuale delle politiche abitative in
Italia; piuttosto mira a fornire i principali tratti istituzionali, culturali e storici
entro cui si sviluppano iniziative a livello locale o rivolte a target specifici. Nel
para¶{p. 197}grafo successivo mi concentro sui fattori che hanno portato
sempre più ampiamente a parlare delle difficoltà abitative vissute dalle giovani
generazioni, sia a livello europeo, che in paesi come l’Italia dove i giovani soffrono
da più lungo tempo per la scarsità di politiche che sostengano la loro autonomia
abitativa.
4. Giovani e autonomia abitativa
Tra il 2000 e il 2004 in Europa si è
registrato un rapido aumento dell’età media in cui i giovani tendevano a lasciare la
casa dei genitori. Questo diffuso rinvio è legato ai crescenti livelli di precarietà del
lavoro che caratterizza tutti i paesi. L’aumento è stato particolarmente significativo
in Italia, Spagna e Grecia, paesi che nello stesso periodo hanno registrato la crescita
più elevata di disoccupazione giovanile. Nel 2021 l’età media stimata in cui i giovani
hanno smesso di vivere con uno o più genitori è di 26,5 anni [Eurostat 2022]. In Italia
i giovani lasciano la casa dei genitori in media intorno ai 30 anni. Tradizionalmente i
giovani italiani sono tra gli ultimi a lasciare la casa dei genitori e le politiche
volte a favorire questa transizione sono state scarse e incentrate principalmente sulla
promozione della proprietà. Questa situazione è molto comune nella maggior parte dei
paesi dell’Europa centro-orientale e meridionale, dove la famiglia e le reti sociali
tradizionalmente forniscono supporto materiale ed emotivo per far fronte alla precarietà
del lavoro e ai rischi di esclusione sociale. La decisione di trasferirsi dalla casa dei
genitori è legata all’autonomia economica, ma quest’ultima non rappresenta l’unica
determinante. Un mix di preferenze personali, norme culturali e sociali, circostanze
economiche e fattori istituzionali contribuisce alle singole scelte. A livello macro, le
istituzioni e le politiche possono avere un impatto di mitigazione sugli effetti
negativi della disoccupazione e della precarietà del lavoro rispetto all’autonomia
abitativa. Per quanto riguarda le politiche di welfare per i giovani, nonostante le
differenze tra gli Stati, dalla crisi finanziaria «diversi governi hanno attuato
¶{p. 198}tagli di bilancio alle prestazioni assistenziali per i giovani,
trasferendo la responsabilità e il ruolo degli ammortizzatori sociali ai genitori e alle
famiglie» [FEANTSA e Fondation Abbé Pierre 2021, 32, traduzione mia]. In questo quadro
acquisiscono importanza dimensioni di livello meso, come la famiglia e i network
sociali. Nei paesi dove i giovani tendono ad andarsene più tardi, la famiglia è un
attore fondamentale nell’offerta di welfare e il sostegno dei genitori è di fondamentale
importanza per l’accesso all’alloggio. Da un lato, una permanenza più lunga nella casa
familiare consente ai giovani di risparmiare tempo, denaro e fatica nel loro percorso
verso l’indipendenza. Dall’altro, il sostegno può assumere la forma di un trasferimento
intergenerazionale di ricchezza, che può compensare la mancanza di lavoro e di reddito.
Un altro dominio di vincoli strutturali che gioca un ruolo nella transizione ritardata
verso l’età adulta è quello relativo alle caratteristiche dei sistemi abitativi. La
finanziarizzazione della casa ha portato a un aumento vertiginoso dei prezzi,
soprattutto nelle grandi aree urbane, con impatti disomogenei sulla vita delle famiglie.
Dopo il 2008, le istituzioni finanziarie hanno introdotto vincoli all’accesso al
credito, che incidono sull’accesso alla proprietà della casa, soprattutto per alcune
categorie come i giovani. Inoltre, i giovani si trovano spesso ad affrontare peggiori
condizioni abitative. Come evidenzia il rapporto di FEANTSA e Fondation Abbé Pierre
relativo al periodo pandemico, «quando possono accedere a un alloggio, sono costretti a
vivere il lockdown in condizioni pessime, sperimentando il sovraffollamento e/o la
povertà energetica» [ibidem, 33, traduzione mia]. Nel 2019 il 23,5%
dei giovani tra 15 e 29 anni viveva in condizioni di sovraffollamento rispetto al 15,6%
della popolazione totale. La coabitazione rappresenta una strategia contro l’aumento dei
costi, degli oneri di accesso all’alloggio e l’insufficiente offerta di alloggi
adeguati, piuttosto che una libera scelta, spesso frutto di rappresentazioni
romanticizzate dal discorso pubblico. Soprattutto nelle grandi aree metropolitane, i
piccoli appartamenti non sono sufficienti a coprire la domanda abitativa di alcune
categorie sociali il cui numero sta aumentando (famiglie unipersonali, studenti),
¶{p. 199}producendo così concorrenza per lo stesso tipo di offerta.
Inoltre, lo spostamento di parti crescenti del patrimonio residenziale verso il turismo
e le locazioni a breve termine aggrava ulteriormente questa carenza. I giovani che non
possono contare sul sostegno familiare sono spesso quelli che soffrono di più in questa
competizione a causa dei fattori che ho fin qui discusso. Così come la precarietà
lavorativa rischia di diventare una condizione permanente, lo stesso rischio riguarda
l’home sharing: «mentre questa è considerata una fase normale
della vita, che consente ai giovani di condividere le spese abitative, di imparare dalle
esperienze di spazi di vita condivisi e di evitare di isolarsi socialmente, può anche
essere una trappola se non è una scelta fatta di propria spontanea volontà»
[ibidem, 43, traduzione mia]. La stessa ambivalenza
caratterizza l’utilizzo dei contratti di affitto a tempo determinato. Nei discorsi
pubblici spesso i giovani sono descritti come professionisti flessibili le cui esigenze
e aspirazioni di mobilità professionale sono ostacolate dall’eccessiva regolamentazione
del mercato e dell’offerta abitativa. Tuttavia, la diffusione di contratti di affitto
temporaneo rischia di aumentare la loro precarietà perché, soprattutto in situazioni già
vulnerabili, può sfociare in una pretestuale contrazione dei diritti di locazione e di
tutela.
Note
[4] Questo segmento di stock è indicato come housing sociale in italiano, spesso impropriamente equiparato al social housing nella sua comprensione europea.
[5] «Le stime pre-Covid, oggi certamente peggiorate, indicano in 650 mila le domande di alloggi ERP in attesa nelle graduatorie dei Comuni» [Forum Disuguaglianze e Diversità 2021, 1].
[6] L. 112/2008, art. 11; d.p.c.m. 16 luglio 2009.