Alessandro Sicora, Silvia Fargion (a cura di)
Costruzioni di genitorialità su terreni incerti
DOI: 10.1401/9788815411365/c4
Spesso gli assistenti sociali si raccontano a partire dalla descrizione del servizio, e del contesto organizzativo e istituzionale in cui operano, a volte citandone anche le leggi istitutive. L’agire professionale è quindi rappresentato come inscritto nella cornice dei ruoli, delle funzioni e dei compiti attribuiti, come parte di un sistema, in un rapporto di reciproca dipendenza. L’idea che esistano due mandati differenti (professionale e istituzionale) non è quindi immediata ma emerge solo quando il disallineamento tra ciò che l’assistente sociale ritiene sarebbe necessario e i vincoli posti dal sistema si fa troppo
{p. 106}ampio e impermeabile ai cambiamenti: è a questo punto che i due mandati vengono percepiti come differenti e in tensione.
Rispetto ai mandati mi sento in affanno. Il mio ruolo è definire la rete di sostegno e la progettazione di azioni singole per i progetti individuali… ma esistono delle enormi distanze tra ciò che mi è chiesto di fare, ciò che posso fare e ciò che penso dovrei fare.
A fronte della tensione e del contrasto, il richiamo alla dimensione professionale si ancora alle motivazioni etiche e politiche, in cui gli assistenti sociali si posizionano come professionisti a tutela dei diritti:
(…) abbiamo un mandato sociale e deontologico che fa riferimento alla carta internazionale dei diritti dell’uomo, cioè quindi è eticamente molto orientato… Poi c’è anche un dibattito silente dentro la comunità professionale, per cui tu puoi avere le tue credenze politiche… ma la deontologia nel nostro lavoro è molto netta e chiara, non è che lasci molte interpretazioni, cioè l’assistente sociale tutela i diritti delle persone e combatte le disuguaglianze sociali.
Non è solo un richiamo ideale generale, ma anche un impegno concreto nel cercare nella massima misura di lavorare al meglio, malgrado e a discapito delle difficoltà poste dal sistema. E malgrado le risorse scarse, malgrado l’elevato carico di lavoro, malgrado le équipe sguarnite e investite di più funzioni eterogenee, malgrado le resistenze della politica.
Abbiamo fatto anche quest’anno il corso di sensibilizzazione non avendo tante difficoltà ma con più scetticismo; quindi, è più faticoso, però noi andiamo avanti perché non sono sola… perché già sono crollata rispetto ai carichi di lavoro…
Ciò che dà forza è il rapporto con i colleghi, con i quali ci si confronta e si condividono dubbi e strategie. Il lavoro di rete e le alleanze con i colleghi sono i modi con cui si mettono in atto pratiche di resistenza e si cerca di reagire per far funzionare al meglio il sistema, piegando le regole alle esigenze delle persone. Un’assistente sociale, che lavora con le persone migranti, spiega chiaramente una delle strade:
(…) significa che se io ho un mandato che mi schiaccia rispetto a quello che posso o non posso fare, lavorare con uno psicoterapeuta mi dà la possibilità di intervenire. (…) Perché dove io, carte alla mano, non posso agire, lo psicoterapeuta può evidenziare una vulnerabilità e a quel punto con la vulnerabilità, lavori con l’avvocato, l’avvocato fa un’istanza di richiesta e allora io posso intervenire.
L’esempio è emblematico del lavoro di espansione e piegamento delle regole già descritto da alcune studiose canadesi a proposito dell’attività di responsabili di servizi e operatori, impegnati a reagire e resistere alle derive {p. 107}managerialiste e neoliberali dei servizi di welfare [Weinberg e Taylor 2014; Weinberg e Banks 2019; Aronson e Smith 2010].
Il tema della tensione tra mandati appare più complesso nelle separazioni conflittuali, dove oltre al contrasto tra i bisogni delle persone e le risorse possibili, gli assistenti sociali sentono la difficoltà di essere da un lato impegnati a rispondere ai mandati del tribunale, con le istanze di monitoraggio e controllo, e dall’altro alle aspettative contrastanti di due genitori in conflitto.

2.3.2. Linee di demarcazione tra «interno ed esterno» e tra servizi

Il riferimento ai colleghi mette in luce l’importanza del rapporto con l’équipe e della posizione nella rete dei servizi. Nel descrivere complessità e tensioni tra mandati, gli operatori fanno infatti emergere una differenza tra un mondo interno, fatto dai colleghi e responsabili, dall’équipe, dalle regole e dalle dinamiche interne del servizio, e un mondo esterno, costituito dalla rete degli altri servizi con cui l’assistente sociale interagisce. L’interno è il più delle volte raccontato come un luogo positivo, in cui si gioca il proprio riconoscimento di ruolo, si definiscono, si aggiustano e si negoziano le posizioni specifiche, anche grazie a relazioni che si sviluppano nel tempo. Nelle discussioni in équipe spesso si dibattono le diverse idee rispetto ai problemi e come affrontarli, ma si precisano anche le diverse responsabilità decisionali. L’essere un luogo fondamentale per affrontare la complessità dell’intervento è segnalato in particolare dagli operatori impegnati nelle separazioni conflittuali. In questo caso, l’équipe è la possibilità di mantenere uno sguardo neutrale e concentrarsi sui bambini:
Sono l’ancora che permette di ridare lucidità, che aiuta a non cadere dentro alle dinamiche del conflitto.
Se l’interno è presentato come luogo sicuro, il rapporto con la rete degli altri servizi non lo è altrettanto. Al di là di un diffuso apprezzamento della collaborazione, appare una distanza tra servizi pubblici e servizi privati e nel rapporto con i servizi per la tutela minorile. I servizi del terzo settore si autorappresentano più attenti alle persone, meno vincolati da regole e responsabilità istituzionali ma con uno spazio di azione più limitato. Il servizio pubblico è visto talvolta in contrapposizione, come un soggetto che ha responsabilità e possibilità politiche, che dovrebbe avere una prospettiva più ampia e intervenire sulla prevenzione, ma non lo fa, restando chiuso in una funzione burocratica e senza respiro.
Per contro, si riconosce che «il pubblico ha maggiori obblighi e responsabilità», in particolare riguardo ai servizi per la tutela minorile. Gli assistenti sociali che si occupano di famiglie migranti o in povertà descrivono {p. 108}la problematicità delle decisioni relative al difficile snodo della segnalazione all’autorità giudiziaria [Bertotti 2016] e sembrano attribuire ai servizi pubblici una maggiore responsabilità in merito.
Quindi rispetto al contesto interno sono abbastanza serena… Rispetto al contesto esterno, la difficoltà sta nel fatto che le situazioni un po’ più complesse poi passano a un certo punto a un altro servizio sociale e tutela minori, quindi alle volte… partecipo alle decisioni delle UVM… non ho l’ultima parola, nel senso che la decisione poi spetta ad un altro servizio e non nego che alle volte ci sono state situazioni in cui io mi sarei comportata diversamente.
In diversi esempi simili, al servizio per la tutela minorile viene lasciato il compito di decidere: l’esistenza di diverse opinioni sembra non trovare uno spazio di discussione e il disaccordo viene gestito solo circoscrivendo il perimetro delle proprie competenze decisionali. In tal modo si conferma il rischio paventato da Olivetti Manoukian [2015] di scindere la responsabilità sul benessere dei bambini e lasciare che un solo servizio ne abbia la delega solitaria.

2.3.3. Fare i conti con la propria e la altrui immagine e con i pregiudizi

Un terzo filone di riflessioni riguarda le rappresentazioni che gli assistenti sociali hanno di sé e l’immagine che, secondo gli assistenti sociali, le persone hanno di loro e i relativi pregiudizi. Interpellati su «come ti descriveresti», gli assistenti sociali si raccontano rispetto a un proprio ideale, che solitamente riguarda la relazione con le persone intrecciato con alcune caratteristiche personali. Molti si tratteggiano come professionisti «amanti della prossimità», e interessati alla relazione con le persone, mentre i tratti di carattere sono i più vari: dall’essere rispettosi e attenti alla delicatezza delle cose, all’essere tenaci e determinati. Molti, per esempio nelle separazioni altamente conflittuali, descrivono la fatica di stare in situazioni costantemente attraversate dal contrasto.
Riguardo invece all’idea che le persone hanno di loro, gli assistenti sociali sanno di avere un’immagine tendenzialmente negativa, con cui fanno i conti. Sanno che è un’immagine che suscita diffidenza, vuoi perché dagli assistenti sociali dipende l’erogazione di risorse, vuoi perché, in presenza di bambini, se ne teme l’atteggiamento giudicante e le possibilità di intervento del tribunale:
(…) le assistenti sociali vengono viste a volte come delle figure negative. A me succedeva quasi sempre che la prima reazione è «No assistente sociale!» poi mi conoscono, mi faccio conoscere, instauro un rapporto con loro che va ben oltre ad essere solo l’assistente sociale… devi fargli superare l’etichetta di assistente sociale come la figura professionale che magari deve giudicarti il rapporto con i tuoi figli.{p. 109}
Nel racconto degli assistenti sociali impegnati nelle separazioni conflittuali, sono presentati come una minaccia e «uno spauracchio», «la peggior cosa che possa accadere» e il rapporto con i genitori è descritto come faticoso, per il sentirsi costantemente chiamati a dover dare ragione e torto.
Facendo i conti con tali rappresentazioni di ruolo negative, gli assistenti sociali descrivono il loro sforzo di ripresentarsi e ridefinirsi. Per alcuni si traduce in una «spiegazione più accurata del ruolo», mentre per altri significa investire nella relazione e «instaurare un rapporto e farsi conoscere». La stessa assistente sociale di cui sopra, così descrive questo impegno:
Secondo me la differenza la fai quando tu ti metti in ascolto… se tu ti interfacci con una famiglia migrante e ti interfacci con l’atteggiamento di un operatore sociale italiano, con una nostra cultura di appartenenza, con i nostri servizi omologati e standardizzati e non ti metti in qualche modo in ascolto, finisci per fare l’erogatore finanziario, cioè quello che magari facilita l’ingresso in una scuola, a far avere il buono libro o il buono palestra ecc. (…) La cosa cambia molto quando veramente cerchi di capire chi c’è dietro quella persona, che storia c’è, che vissuto c’è, da dove viene, che storia porta, che bagaglio porta, che difficoltà ha, ma anche che potenzialità ha…
Entrare in relazione, prestare attenzione alle risorse, mettersi in ascolto e sostenere i processi di comprensione, sono proposte come strade maestre, che permettono di ridurre le distanze e trovare i punti di contatto. Quando lo sforzo di superare la diffidenza ha successo, il rapporto con le persone si fa più intenso e gli assistenti sociali si confrontano con un nuovo posizionamento, diventando oggetto di aspettative e richieste, «quasi fossimo onnipotenti».
Loro si aspettano che risolva qualsiasi cosa (…). Ho sempre cercato di dare il massimo perché sentivo che loro si fidavano di me… Loro pensano che io sia onnipotente, ma in realtà non ho le risorse per rispondere ad ogni richiesta. Quando non posso soddisfare tutte le loro richieste sento che li sto deludendo.
Non poter rispondere è fonte di frustrazione e timore di deludere, nonché di quell’angoscia morale che nasce dal percepire l’impossibilità di rispondere a bisogni vitali ed essenziali. Diversi assistenti sociali raccontano il loro riposizionamento di fronte a queste richieste, domandandosi quanto sia giusto o meno sostituirsi, o quanto accettare o meno la delega ad agire, con i rischi di creare dipendenza. Per gli assistenti sociali impegnati nelle separazioni conflittuali, lo sforzo è quello di restare fuori dal conflitto ed evitare di schierarsi.
Infine, intessuto nei discorsi sulla propria e altrui immagine, emerge con frequenza il tema del pregiudizio. Pregiudizio che in parte deriva dall’abitudine a «incasellare» i problemi in categorie predefinite senza entrare in una relazione che consenta di approfondirli. {p. 110}
Noi abbiamo un po’ la tendenza di prendere tutto e sistemarlo nei contenitori che già abbiamo. È un risparmio energetico, è un risparmio culturale, è per noi facilitante ma nei fatti non ci consente di entrare in relazione con gli altri e di capire cosa portano…
Pregiudizio che in parte nasce dal non conoscere e dalla mancanza di informazioni e formazione, per esempio rispetto alle tematiche della genitorialità delle famiglie omosessuali: informarsi è fondamentale non solo per ridurre i propri pregiudizi ed «essere più liberi» ma anche per fare un’azione culturale.
Se tu conosci il tema, conosci il linguaggio e non sei pregiudizievole o comunque conosci il tuo pregiudizio, ti senti serena e tranquilla nell’istruttoria, non fai fatica a leggere la situazione perché sei libera, sei tranquilla…
Per tutti gli assistenti sociali, in tutti gli ambiti, la formazione è considerata un’importante risorsa che aiuta a rivedere i propri quadri di lettura e a trovare gli strumenti per gestire situazioni complesse.
Il pregiudizio appare inoltre come un fatto sociale e uno stigma che investe anche gli operatori che lavorano con le persone in difficoltà. Un’assistente sociale così descrive il senso di tristezza e solitudine nel percepire il pregiudizio della propria rete, a cui decide di reagire invitando le persone migranti a portare la loro testimonianza nelle occasioni pubbliche:
(…) quando ho iniziato a lavorare… venivo etichettata come quella che si occupava degli stranieri, cioè lo straniero era zozzo, era brutto, portava malattie… a me queste cose pesavano, mi pesavano tantissimo, ti dico la verità a livello proprio di professionista, mi sentivo sola… Ecco, ho provato una solitudine infinita… ho rotto questo pregiudizio: quando noi facevamo dei convegni ho cercato di portare loro a parlare, erano loro che parlavano di quello che loro avevano vissuto.
In conclusione, gli assistenti sociali mostrano in diversi modi la complessità della loro posizione. Tra mandati diversi, spesso contrastanti, con divari tra bisogni e risorse in un terreno fortemente impregnato di aspetti affettivi ed emotivi, e attraversato da giudizi morali molto forti. Giudizi morali che appaiono implicitamente e rispetto ai quali si sente la necessità di nuove conoscenze che permettano di aprirsi alle prospettive differenti delle persone, e nel nostro caso specifico, dei genitori.

3. L’«approccio del posizionamento» per cogliere l’esperienza di madri e padri

Nel paragrafo precedente si è messa in luce la complessità della posizione degli assistenti sociali e quanto sia complicato entrare in contatto, accogliere e dare spazio all’esperienza dei genitori che il servizio sociale si trova ad af
{p. 111}fiancare. Del resto, le barriere a un ascolto delle prospettive di madri e padri in difficoltà non riguardano solo il servizio sociale.