Sergio Brillante
«Anche là è Roma»
DOI: 10.1401/9788815410559/c1
Inoltre, nel giudizio di Bonghi, non poteva mancare un senso di disprezzo per il «popolo invasore» ed è da questo sentimento che prende le mosse una valutazione della posizione dell’Italia nei confronti dell’Abissinia non condotta da un unico lato. Nel momento in cui si fa oppressore di altri, il popolo italiano, che ha sperimentato tale «condizione di violazione di diritti», non compie opera positiva, tanto più se ai danni di un paese che in realtà ha un’identità e una coscienza nazionali già sviluppate [44]
. Questa era, secondo Bonghi, la condizione dell’Abissinia, garantita tanto dalla sua storia, quanto dalla sua organizzazione politica. Già nelle conferenze sulla storia greca era, in effetti, emersa esplicitamente l’idea che l’Africa sarà stata anche una «massa informe e […] immaneggevole», resistente ai tentativi degli esploratori moderni di penetrarne i recessi a causa «del suo clima e de’ suoi selvaggi», e del tutto priva di un ruolo nella storia umana, ma «l’Egitto, l’Etiopia, e qualche punto della spiaggia settentrionale bagnata dal Mediterraneo» erano invece aree ricche di storia, in contatto con Greci e Romani (p. 30). Si vede bene quanto il pregiudizio classicistico, secondo cui l’unica storia antica è quella greco-romana, agisca in queste considerazioni – e del resto esprimeva le medesime idee anche un grande studioso di lingue africane quale Ignazio Guidi [45]
–, ma è comunque degna di nota l’ammissione del ruolo storico della regione etiopica, poiché da essa discende una considerazione di quel paese più alta rispetto a quella che avevano i sostenitori della politica coloniale italiana. Peraltro, spostandosi sul piano dell’attualità, bisognava riconoscere che l’Abissinia era un paese dotato di un governo riconosciuto dalla comunità internazionale ed era pertanto contrario al diritto coloniale lo stabilirsi in paesi che godessero di un tale statuto. Nell’intento di sottolineare questo stato di cose, Bonghi chiese persino che l’Italia inviasse parole di pubblico cordoglio per la morte del re abissino Yohannes
{p. 47}IV, un «uomo che è morto combattendo per la sua fede e per la patria sua» [46]
.
Infine, il concorso del criterio storico e di quello politico spinsero Bonghi a porsi su una strada troppo raramente imboccata nel dibattito coloniale italiano, riconoscendo l’esistenza di una moltitudine di civiltà differenti e affermando l’idea dell’incomparabilità di culture diverse. L’8 maggio 1889, dopo aver insistito sul forte «sentimento di nazionalità» dell’Abissinia, chiese di intavolare dei negoziati di pace con quel paese affermando:
Badate, o signori che noi ci siamo andati a collocare in un posto dove vivono e ci faranno guerra le due razze più guerriere dell’Africa. Quelle razze non sono selvagge, ma hanno una civiltà diversa dalla nostra, tutta loro propria; sono razze che voi non ridurrete mai alla nostra civiltà perché ne hanno un tipo affatto diverso dal nostro. Non sono selvaggi gli Abissini e gli Arabi: sono gente coraggiosa, persuasa, convinta di un complesso di idee morali che vivono in mezzo a loro da secoli. L’Abissinia ha compiuta una grande azione nella storia dell’Africa e persino di Europa, inquantoché ha impedito alla razza maomettana di occupare l’Africa tutta quanta. La razza araba ha prodotto dal suo canto un grande movimento di civiltà in Europa e anche oggi, nel centro dell’Africa, viene producendo questo effetto, col ridurre al maomettanismo, sistema religioso superiore, tutte le razze africane idolatre che si trovano in una condizione spirituale inferiore [47]
.
È di questo complesso di convinzioni che si nutre l’anticolonialismo di Bonghi. Si tratta di una posizione che non condanna in assoluto la possibilità di procacciarsi delle colonie, ma che tende a dare valore a un esame della situazione reale, lasciando anche un piccolo spazio alla valutazione del carattere e della cultura del paese da colonizzare. Nel caso specifico dell’Abissinia, Bonghi giudicava quindi inattuabile e, di fatto inattuato, quel processo di «riversamento di civiltà» che solo avrebbe potuto legittimare l’azione coloniale. {p. 48}Egli sostenne quindi che non fosse opportuno proseguire la campagna abissina.

3.3. Bonghi e Dogali

Visto quanto detto, si capisce che Bonghi restasse piuttosto freddo rispetto all’esuberanza retorica suscitata dall’episodio di Dogali. Non che non lesse anche lui quell’evento come una sconfitta gloriosa, ma ne parlò senza troppa enfasi e, apparentemente, senza mai rievocare gli episodi classici allora più in voga. L’8 febbraio, ad esempio, propose alla Camera di mandare un telegramma «di plauso al valore, e di conforto alle fatiche degli ufficiali o soldati, che in lontane e nemiche regioni, difendono l’onore, la potenza e la bandiera d’Italia» [48]
. L’idea fu approvata, ma si accusò l’oratore di essere arrivato un po’ in ritardo. Altri deputati si vantarono di aver proposto medesima risoluzione appena saputo della sconfitta, cioè prima di conoscere il telegramma di Genè, nella certezza che l’esercito italiano avesse agito nella maniera più valorosa. In un testo giornalistico più tardo, Bonghi ricordò poi la cerimonia per i caduti svoltasi a Napoli, confessando di non avervi partecipato personalmente e sottolineando soprattutto la coesione del corpo nazionale, unito nel commosso tributo [49]
. Poi, il 30 maggio, già abbandonava ogni esaltazione retorica del conflitto per concentrarsi sull’aspetto politico della questione. Chiedeva quindi al governo che si facesse chiarezza sui fatti per sapere di chi fosse la responsabilità di aver «così poco e così male muniti di armi quei 500 soldati che perirono a Dogali» [50]
. Pochi giorni dopo ancora, faceva solo veloce riferimento alla battaglia, concentrandosi unicamente sulle ripercussioni nazionali dell’evento («il primo fatto forse della nostra storia recente rispetto al quale nel paese, almeno sul principio, dal più estremo clericale al più estremo radicale, non vi sia {p. 49}stato dissenso di sorta») [51]
, e nel 1889 la derubricava ormai al rango di «piccola sconfitta» [52]
. La stessa lettera a «L’Opinione» in cui si chiedeva l’erezione di un monumento era in fin dei conti molto breve, oltre che scritta non a titolo esclusivamente personale, ma a nome dell’Associazione della Stampa.
Eppure, Bonghi non poté portare alle estreme conseguenze questi suoi giudizi sull’azione coloniale italiana nella prassi politica. Prima del 1887, peraltro coerentemente con quanto espresso da altri politici della destra [53]
, si era dichiarato contrario all’occupazione di Massaua e aveva chiesto più volte maggiore trasparenza sugli intenti che con tale atto voleva perseguire l’Italia. L’episodio di Dogali, però, aveva ormai mutato il discorso coloniale italiano, apportandovi se non proprio l’idea della vendetta – pure largamente circolante – almeno quella della necessità della difesa dell’orgoglio nazionale. Ritirare le truppe dall’Abissinia dopo le sconfitte subite sarebbe equivalso a un’ammissione di sconfitta e ciò si scontrava in Bonghi con il suo orgoglio patriottico e la sua costante preoccupazione di affermare in Europa le glorie italiane. Egli si pose quindi fra quanti, come anche Ferdinando Martini [54]
, proponevano di restare a Massaua senza però concepire il piano di una nuova invasione verso l’interno; il mantenimento delle posizioni sarebbe stato sufficiente allo scopo [55]
.
Inoltre, questo non fu l’unico suo atto a sostegno della presenza in Africa. Oltre a sostenere la politica coloniale italiana tramite la sua attività di deputato, Bonghi contri{p. 50}buì, infatti, anche ad alimentare la diffusa euforia coloniale seguita alla disfatta di Dogali accettando l’invito a scrivere le due epigrafi che ornano l’obelisco romano, unitamente all’elenco dei nomi dei caduti:
A dì 26 gennaio 1887 / 548 italiani / assaliti improvviso nel deserto di Dogali / da molte migliaia di abissini / lontano lontano dai cari loro / non esitarono, non trepidarono, non si arrestarono / col nome d’Italia nel cuore / e non pensosi di altro che di onorarlo / sostarono, combatterono, morirono / suggellando con sangue versato in comune / l’unità recente dell’antica patria.
Qui nel nome di Roma / che ricorda eroismi non numerabili / e infinite battaglie / il Municipio / e cittadini d’ogni parte d’Italia / tennero a dovere / elevare di tanta virtù / un monumento perenne [56]
.
Nel momento delle celebrazioni, Bonghi non poté, né forse volle, rinunciare ad avere un posto di rilievo visto il suo ruolo pubblico, pur dovendo così contraddire alcune di quelle che erano state le sue posizioni più caratteristiche nel dibattito sull’espansione italiana in Africa. L’orgoglio nazionale e la volontà di aderire a un momento comune di rafforzamento dell’identità italiana, uniti alla sua convinzione della «necessità» del processo coloniale, lo portarono non solo a votare la continuazione dell’intervento militare, ma anche a esaltare le gesta compiute in piena violazione delle sue idee sullo scarso splendore della storia romana e della sua volontà di segnare una discontinuità rispetto a quel passato. Non solo, infatti, il monumento era un autentico obelisco egiziano, ma nell’epigrafe non mancava un riferimento a «Roma che ricorda eroismi non numerabili e infinite battaglie». La Roma antica e la moderna, accomunate dall’eroismo bellico, si sovrapponevano fino a coincidere. {p. 51}

4. Due diverse voci critiche: Carducci e Ghisleri

Fra i personaggi d’eccezione che si vollero in un primo momento coinvolgere nelle celebrazioni romane per i caduti vi fu anche Carducci, il quale, di fronte alla richiesta di pronunciare un discorso in occasione dell’inaugurazione dell’obelisco, rispose in maniera recisamente negativa. Nella sua lettera di rifiuto, il poeta lamentò proprio l’eccessivo «sfogo di memorie classiche» fatto in quei giorni e riprese il procedimento retorico dell’incomparabilità delle Termopili con Dogali, ma per risolverlo a tutto svantaggio dell’esercito italiano, mettendo in chiaro il carattere difensivo dell’episodio militare antico e parlando dei caduti come «vittime di una spedizione inconsulta che furono tratte sprovvedutamente in un agguato» [57]
.
Tale lettera è considerata una delle più forti posizioni pubbliche assunte al tempo contro il colonialismo, certo più in considerazione dell’autorità dello scrivente che per la forza dei concetti espressi. Il poeta non poteva in effetti riuscire efficace nella sua denuncia visto che le sue posizioni sul colonialismo furono di fatto ambivalenti. È noto, infatti, il suo inno alla guerra su Adua in un discorso tenuto durante una serata della Croce Rossa per i feriti delle battaglie africane, pubblicato sui giornali il giorno stesso in cui si seppe della terribile sconfitta [58]
.
La posizione critica assunta di fronte all’episodio di Dogali non è quindi il frutto di una meditata convinzione, ma piuttosto l’esito delle circostanze. In una lettera a Ugo Brilli del 29 marzo 1887, Carducci infatti rendeva conto del suo atteggiamento, ricordando la sua avversione a Depretis, capo del governo ai tempi di Dogali, e il disprezzo che provava per il ruolo preponderante assunto dai riti ecclesiastici nelle manifestazioni di cordoglio per i caduti. In quella sede rievocava inoltre con fastidio appunto quegli inconsulti «sfoghi di memorie classiche». «Quante epigrafi
{p. 52}avete fatto – scrive –, quanti versi, quanti discorsi perché cinquecento contadini, non potendo scappare, sono morti. Avete parlato di Leonida, canaglia!» [59]
. Il poeta che tanto aveva sfruttato l’immaginario classico nei suoi componimenti poetici [60]
non poteva tollerare di vedere una materia tanto nobile trattata così volgarmente da avvocati, preti e modesti insegnanti di provincia; la canaille.
Note
[44] Cfr. ibidem, p. 680 (8 maggio 1889).
[45] I. Guidi, I popoli e le lingue di Abissinia, in «Nuova Antologia», 91, 1887, pp. 478-491.
[46] Bonghi, Discorsi, pp. 673-674. Cfr. ibidem, p. 608.
[47] Ibidem, p. 677.
[48] APCD, 8 febbraio 1887, p. 2165.
[49] «Il Piccolo. Giornale di Napoli», XX, 1887, n. 59.
[50] APCD, 30 maggio 1887, p. 3070.
[51] Bonghi, Discorsi, p. 545 (2 giugno 1887).
[52] Id., Il discorso dell’onorevole Crispi, cit.; cfr. anche Id., The Italians in Africa, cit., p. 94 in cui peraltro si specifica che il corpo d’armata coinvolto era di soli «some three hundred men».
[53] P. Carusi, L’anticolonialismo della destra nell’età crispina, in Ballini e Pecorari (a cura di), Alla ricerca delle colonie (1876-1896), cit., pp. 349-368.
[54] Cfr. G. Rochat, Il colonialismo italiano, Torino, Loescher, 1973, pp. 42-44.
[55] Cfr. Bonghi, Discorsi, pp. 549 e 769. Cfr. Maturi, Bonghi e i problemi di politica estera, cit., p. XXXIII.
[56] Iscrizioni di Ruggero Bonghi, in «Nuova Antologia», 153, 1897, pp. 385-398 (a p. 395 si ricorda un’altra iscrizione bonghiana in onore dei caduti di Dogali, posta a Corato, priva di riferimenti classici significativi).
[57] Lettera del 15 maggio 1887, pubblicata originariamente su «il Resto del Carlino» del 19 maggio (= OEN, vol. XXVIII, pp. 296-299).
[58] OEN, vol. VII, pp. 474-475.
[59] G. Carducci, Lettere, vol. XVI: 1886-1888, Bologna, Zanichelli, 1953, pp. 126-129.
[60] Cfr. M.T. Marabini Moevs, Fra marmo pario e archeologia. L’antichità nella vita e nell’opera di Giosuè Carducci, Bologna, Cappelli, 1971; L. Braccesi, Archeologia e poesia 1861-1911. Carducci – Pascoli – D’Annunzio, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2011; L. Fournier-Finocchiaro, Antiquité et poésie civile chez Carducci et Pascoli, in «Rassegna Europea di Letteratura Italiana», 37, 2011, pp. 97-111; D. Proietti, «E so legger di greco e di latino». Carducci per l’«idealità superiore greca e romana» nella scuola e nella cultura della Nuova Italia, in Cerasuolo et al. (a cura di), La tradizione classica e l’Unità d’Italia, cit., pp. 499-522; L. Fournier-Finocchiaro, Il mito di Roma di Carducci, tra patrimonio italiano e latinità, in A. Vranceanu Pagliardini e A. Pagliardini (a cura di), (De)scrivere Roma nell’Ottocento, Berlin-Bern, Lang, 2020, pp. 25-37.