Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c1
L’illusione non durò molto più a lungo di quanto
fossero durati gli echi al libro di F. Pollock e i dibattiti sull’automazione. Ormai si
parlava in Italia di «miracolo economico». Non so se da allora sia venuta diffondendosi
quella percezione di una vita oramai «affrancata
¶{p. 34}dalla durezza»,
di cui parla G. Sartori
[98]
. Si è però dovuto constatare da allora che l’amore per il lavoro non è poi
diventato così naturale come pensava il socialismo dell’800, né così abitudinariamente
accetto, nonostante un secolo di industrialismo abbia fatto del
lavoro «l’elemento ordinatore essenziale della società», quale P. Naville ritiene sia
stato sempre
[99]
. Anzi, rispetto al modo come le lucciole dell’automazione avevano illuminato
l’idea di lavoro — mezzo secolo dopo che l’ingegner Taylor aveva cominciato a
frantumarlo scientificamente — si è finito col giudicarne perfino innaturale la realtà,
e proprio per quel lavoro industriale che l’automazione doveva avvantaggiare
[100]
.
Da allora, quegli scienziati-stregoni che sono i
sociologi e gli psicologi sono stati sempre più sistematicamente chiamati a spiegare e
curare l’insoddisfazione e il disadattamento al lavoro, che gli espedienti tipo
«relazioni umane» avevano appena potuto tamponare. Fra le scoperte c’è stata quella che
a motivare il lavoratore continuano a essere i «fattori igienici»,
piuttosto che i «fattori motivanti», cioè che
quando le condizioni di lavoro e di paga si confrontano con il contesto sociale,
finiscono per contare più di quanto dentro il contesto aziendale pesi il senso di
realizzazione e di identificazione nel lavoro. Educatori come F. Balbo hanno riproposto
il messaggio di San Giacomo affermando che «il lavoro non è umano se non potenzia la
persona singola»
[101]
. Studiosi come F. Herzberg, cercando di interpretare la faccia positiva del
lavoro in base alle potenzialità dell’uomo, hanno pertanto proposto che fossero
altrimenti impiegate le risorse umane nella produzione; ma gli esperimenti fatti per
ridisegnare il lavoro industriale hanno in genere deluso ricercatori e
managers che vi si erano applicati
[102]
.
Si è anche notato che il rapporto con il lavoro
funziona come una pila, per cui nelle fabbriche nuove delle zone in espansione o nei
paesi in via di industrializzazione, esso viene accettato con piena partecipazione per
tutto un periodo. Ma questa partecipazione non dura in eterno perché il rapporto dopo un
po’ si dete¶{p. 35}riora, secondo un ciclo che è funzione del contesto
ambientale, dalla sub-cultura locale alla formazione sociale. Dopo, la pila va in
qualche modo ricaricata. Bisogna gratificare il lavoro: si monetizza e si
istituzionalizza maggiormente il suo contributo, si alleviano o riqualificano le
prestazioni, si sposta la distribuzione tra tempo di lavoro e di non lavoro. Ma a quel
punto rivendicazioni e conflitti hanno già spoetizzato l’immagine, che l’ideologia del
lavoro e anche lo spettro della disoccupazione, non riescono più a restaurare
pienamente. È successo in Germania, sta succedendo in Giappone, succederà anche in
Thailandia. E si è capito che la cosa non riguarda soltanto le catene di montaggio né è
destinata a rimanere circoscritta agli operai, come molti segnali di insofferenza o di
distacco son venuti dicendo.
Che il lavoro sia in preda a un «malessere
generale» (come lo definisce il cosiddetto rapporto Maldague)
[103]
lo riconoscono del resto, con crescente preoccupazione, organizzazioni
economiche internazionali come l’OCDE e il BIT. In sostanza si è affacciato alla storia
dell’industrializzazione un fenomeno di cui prima degli anni ’60 non si aveva sentore:
il declino delle motivazioni intrinseche a quel lavoro industriale
che è centrale di tutta questa nostra epoca. E con gli anni ’70 questo declino si è
venuto accentuando anche per la crisi di credibilità incontrata dal capitalismo
occidentale, che presenta una macchina dello sviluppo logora; e dal socialismo
realizzato, che mostra un’immagine deteriorata del potere.
Se qui da noi i due massimi sistemi incontrano
queste difficoltà, il Lavoro non può che subirne ripercussioni ulteriori, giacché esso è
profondamente connaturato a queste formazioni storico-sociali, che l’hanno posto alla
base e all’apice delle rispettive costruzioni. Non siamo al crollo, questo è pacifico:
ogni epoca storica finisce col darsi una propria concezione del lavoro. Noi ci stiamo
adesso allontanando da quella che sta dietro di noi. Il fenomeno si può già osservare
con distacco. In sostanza si tratta di questo: almeno in Occidente, viene in crisi
l’ideologia del lavoro che si è formata ipostatiz¶{p. 36}zandone la
positività. Ed è logico che rimanga più scottato chi ne fa maggior uso.
A questo punto, dopo essersi ripetuti che
l’origine reale della crisi sta nell’inoccupazione in massa di questi anni, per come
smoscia qualsivoglia retorica sul lavoro; che l’assembly
line, mandando in frantumi il lavoro concreto, ha reso vana la
scolarizzazione di massa; e che il «consumismo» incuneato nel tempo libero ha fatto il
resto avendo valorizzato il non-lavoro
[104]
(ma potremmo anche aggiungere lo scempio ecologico e il rischio nucleare,
con i quali il dominio dell’uomo sulla natura sta cambiando di segno); dopo avere
ricordato insomma gli elementi fattuali della crisi, conviene tornare a riflettere sulle
sue componenti concettuali.
Personalmente, annetto una responsabilità primaria
alle conseguenze di quell’approccio ideologico che continua a contrassegnare
l’attenzione del movimento operaio per la categoria ed il problema del lavoro. Un
esempio banalissimo circa le conseguenze pratiche: non essere ancora riusciti, sindacati
e sinistra, a storicizzare il modello sempre acquietante ma non eterno del lavoro a
tempo pieno, cioè di una vita lavorativa che inizia dopo le scuole e si svolge su tutto
l’orario giornaliero per tutti i giorni feriali della settimana in tutti i mesi
lavorativi dell’anno, fino alla pensione.
Ma questo perché? Perché quella a cui il movimento
operaio continua a riferirsi è un’ideologia del lavoro. È proprio questa circostanza che
complica le cose, già non facili. Ora, un’ideologia può diventare molto più di un blocco
di idee. Ma può anche ridursi a meno di un’idea soltanto. Ecco dov’è il rischio di un
approccio acritico, fideistico e retorico quale si continua ad usare verso la faccia
positiva del lavoro. È un’idea questa — l’abbiam già detto — che può venire condivisa
come ovvia oppure rigettata come dubbia. Oggi comunque mi pare chiaro che non è
un’idea-forza, e ripeterla non lo diventa di sicuro.
Per questo lascia stupefatti e un po’ inteneriti
la fiduciosa intramontabile sicurezza con cui viene viceversa portata e maneggiata.
Infatti si deve poi dipendere ¶{p. 37}dai sociologi, che con quella loro
ottica, con quei linguaggi così ostici, hanno però cercato di studiare il problema del
lavoro. Dopo Engels e Marx — e non voglio certo dire agli stessi fini — sono quelli che
ce ne hanno fatto sapere di più. Sul lavoro com’è, ci ha detto più cose una bieca
ricerca sull’operaio affluente di dieci saggi intelligentissimi
sulle teorie dell’alienazione. Basti dire che dopo la batosta elettorale subita dalla
CGIL alla Fiat nel 1955, S. Leonardi ci illuminò con la sua famosa relazione
[105]
— e tutto sommato bisogna essergliene grati ancora adesso — traducendo per
noi lo schema col quale il lavoro operaio era stato analizzato da A. Touraine, della cui
«influenza spesso “strisciante” e non riconosciuta dai diretti interessati» parla A.
Pichierri
[106]
. Purtroppo nessuna influenza esercitò per molti anni, fin quasi alle porte
del biennio rosso 1968-69, l’opera più prosaicamente vera su quel che Marx aveva
chiamato il lavoro «astratto», nel suo crudo grigiore: The Man on the Assembly
Line
[107]
. I più curiosi, dopo aver spremuto tutto dai Problemi umani del
macchinismo industriale, s’interrogavano con G.
Friedmann su dove va il lavoro umano
[108]
, e intanto soffrivano per la toccante Condizione
operaia della Simone Weil
[109]
. Ma intorno al lavoro c’era sempre un sentore di positività perduta e
un’aspirazione a ricuperarla, a ripristinarla
[110]
. Del resto, in un paese a disoccupazione endemica, e dove un Piano del
lavoro poteva diventare strategia di tutto il movimento operaio
[111]
, era inevitabile che di questo bene raro, il lavoro, restasse più in luce
l’aspetto positivo: prima di tutto, era una conquista.
Questo, per il passato. Ma oggi? Oggi che il
movimento operaio ha in mano importanti risultati e validi studi, come si può
dimenticare che il lavoro rimane uno stato di necessità ben prima che una condizione di
libertà; e riproporre come se fosse un fine ciò che resterà pur sempre un mezzo; e
decantare la sua nobiltà senza dirne il senso? Si può capire il momento difficile
incontrato dalla categoria lavoro, anche a causa di rifiuti iconoclasti, a volte
beffardi e spesso impotenti. Ma si reagisce così?¶{p. 38}
Non è solo una questione di rigore nell’approccio
[112]
. È anche una questione di tono, di misura. Penso soprattutto ai giovani
perché è verso i giovani che l’ideologia del lavoro-valore si presenta male, o col volto
ispirato di chi promette che faremo più bello il lavoro, oppure con i lineamenti paterni
di chi assicura che il lavoro fa bene. Ma perché non dire la verità qual’è, invece di
civettare e di fare le prediche? Dignità, nobiltà, gioia, gloria: bisognerebbe smetterla
[113]
. Sono tratti che il lavoro può assumere soltanto in momenti o per imprese di
alto pathos collettivo, oppure di intima gratificazione
individuale. E sempre in senso relativo. Per esempio è stato girato un film pieno di
sentimento sul traforo del Monte Bianco, ma vorrei vedere chi si azzarderebbe per
quell’inutile buco che s’è voluto fare sotto il Gran Sasso: gli operai rimasti vittime
di quest’ultimo, perciò stesso, ci appaiono ancor più sacrificati dei caduti sotto il
Bianco. Quanto alla soddisfazione personale, basta ricordare l’esempio che Diderot
rinfacciò a Helvetius il quale sosteneva essere ogni lavoro uguale: «Una parola
favorevole del suo ministro ha reso il cortigiano più felice di quanto sia stato il
tagliapietre per aver trovato una vena tenera che diminuiva la fatica e abbreviava il
lavoro»
[114]
.
Al di là di questo è solo retorica, da cui non
viene soltanto quell’ipocrisia che sempre legittima lo sfruttamento, ma vengono anche le
escatologie che alimentano l’autoinganno: ipocrisia ed escatologie di cui si fece il
pieno nell’ottocento senza ancora essercene liberati del tutto.
Benché siano stati recentemente sollevati dubbi,
anche in Italia, circa la fondatezza euristica della teoria marxiana del valore-lavoro,
non è che sia crollato, neppure in Italia, il concetto di lavoro come pilastro del senso
comune e del comportamento sociale. È che il concetto perde smalto ogni volta che lo si
lucida. E siccome viviamo in un’epoca matura e disincantata, dove ahinoi resiste il
lavoro salariato anche quando non si trova, mentre quello libero non compare nemmeno
all’orizzonte, l’ideologia del lavoro non riesce più a essere persuasiva, specialmente
quanto ne mette in mostra o in ombra luna o l’altra faccia. Perché sentire questa come
una dolorosa perdita di valori, come un sintomo pericoloso di imbarbarimento, e non
invece come la sollecitazione ad un approccio, laico, schietto?
Il Progetto a medio termine
del PCI, anno 1977, recita: «Bisogna attribuire al lavoro il valore di fondamento della
vita sociale e del progresso»
[115]
. Neanche un cenno al rapporto di produzione offusca il nitore di questa
visione senza tempo, di fronte alla quale spicca il rigore della Costituzione
repubblicana, che almeno prescrive all’art. 4 «il dovere di svolgere un’attività o una
funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». Dal canto suo
il progetto del PSI anno 1978, promette che «mediante schemi di rotazione, di
avvicendamento, di servizio sociale del lavoro», l’intera popolazione attiva si farà
carico del lavoro socialmente necessario, mentre il socialismo
provvede «ad ampliare l’area di quello creativo e gratificante per tutti»
[116]
.
Solenni ovvietà, certezze imperturbabili: ma
possibile che i politici di sinistra debbano ancora e sempre usare gli arnesi che offre
la filosofia morale? E per di più guardando con sufficienza l’inoffensivo armamentario
delle motivazioni, con il quale i sociologi del lavoro e dell’industria vanno in giro
cercando di capire cosa ci trova e cosa non ci trova il lavoratore, di positivo, di
negativo, nel proprio e nell’altrui lavoro. Perfino nella patria del socialismo
realizzato, dove fra la rivoluzione e la Nep i bolscevichi le hanno provate tutte,
tentando di far funzionare l’emancipazione del lavoro che i testi del socialismo
descrivevano con ispirata vaghezza; e dove su questa strada non si è certo fatto
risparmio di ideologia — gioia di lavorare sprizzano ognora le fotografie, non sempre
ritoccate, che giornali e riviste pubblicano dei lavoratori del braccio e della mente —
perfino in terra sovietica la nuova Costituzione ha eliminato le formulazioni più
arcaiche, risalenti a San Paolo e a Thomas More, combinando prescrizioni sociali e
motivazioni individuali.
E qui da noi?
Note
[98] G. Sartori, Il potere del lavoro nella società post-pacificata, in «Quaderni della Rivista italiana di scienza politica», n. 2, 1976, p. 93.
[99] P. Naville, Il metodo nella sociologia del lavoro, in G. Friedmann, P. Naville, Trattato di sociologia del lavoro, cit., vol. I, p. 58.
[100] Accecato è risultato anche J. Boggs: La rivoluzione americana, Milano, Jaca Book, p. 39, dove si pronostica un non-lavoro da progresso: «Entro pochi anni l’uomo-forza produttiva sarà sorpassato come il mulo».
[101] F. Balbo, Opere 1945-64, Torino, Boringhieri, 1966, p. 926.
[102] Cfr.: A. H. Maslow, Motivation and Personality, New York, Harper & Brothers, 1954; D. McGregor, L’aspetto umano dell’impresa, Milano, Franco Angeli, 1972; F. Herzberg, Work and thè nature of Man, London, Staples Press, 1968; L.E. Davis, J. C. Taylor, (a cura di), Design of Jobs, Harmondsworth, Penguin Books, 1972.
[103] CEE, Rapporto del gruppo di studio «Problemi dell’inflazione», Bruxelles, 1976: vedilo tradotto in «Mondo economico», n. 40, 23 ottobre 1976, p. 39.
[104] D. Linhart, Quelques reflexions à propos du refus du travail, in «Sociologie du travail», n. 1, gennaio-marzo 1978, p. 314, sostiene che accanto all’organizzazione scientifica del lavoro (in francese, OST) si scopre una OSL: Organisation Scientifique du Loisir.
[105] Vedila in I lavoratori e il progresso tecnico, Roma, Editori Riuniti, 1956, pp. 23-66; e anche in S. Leonardi, Progresso tecnico e rapporti di lavoro, Torino, Einaudi, 1957.
[106] A. Pichierri, Introduzione a A. Touraine, L’evoluzione del lavoro operaio alla Renault, Torino, Rosenberg & Sellier, 1974, p. VIII. Ciò viene notato anche da A. Baldissera, Recenti antologie sull’organizzazione del lavoro in Italia, in «Quaderni di sociologia», n. 2-3, aprile-settembre 1976, p. 326.
[107] C. R. Walker, R.H. Guest, L’uomo alla catena di montaggio, Milano, Franco Angeli, 1973.
[108] G. Friedmann, Problemi umani del macchinismo industriale, Torino, Einaudi, 1949 e 1971; Dove va il lavoro umano?, Milano, Comunità, 1955. Ma vedi anche Il lavoro in frantumi, Milano, Comunità, 1960.
[109] S. Weil, La condizione operaia, Milano, Comunità, 1965.
[110] Si vedano le considerazioni di N. Magna, «Per una storia dell’operaismo in Italia. Il trentennio post-bellico», in AA.VV., Operaismo e centralità operaia, Roma, Editori Riuniti, 1978, sul formarsi della «ideologia del lavoro-valore, faccia destra della teoria del valore lavoro», p. 310, e di una «dimensione qualitativa del lavoro», p. 331.
[111] Cfr. gli Atti del convegno organizzato nel 1975 dall’Università di Modena, e le riflessioni critiche ivi contenute: Il Piano del lavoro della Cgil 1949-1950, Milano, Feltrinelli, 1978.
[112] «Il valore del lavoro, non quello marxiano che faticosamente si trasforma in prezzo della forza-lavoro, ma quello del socialismo utopistico, del cristianesimo ragionevole, quello delle rivoluzioni culturali, il valore del lavoro non fonda la moderna centralità operaia, fonda il suo contrario, l’antica ottocentesca centralità del rapporto singolo di capitale, davanti a cui stava la dispersa massa delle classi subalterne»: così M. Tronti, in Operaismo e centralità operaia, cit., pp. 20-21
[113] «Il lavoro non ha nulla a che fare con la dignità», è la risposta data da un operaio moderno a F. Zweig, L’operaio nella società del benessere, Roma, Cinque Lune, 1966, p. 110: una delle ricerche più dissacranti rispetto agli stereotipi dell’autore stesso.
[114] D. Diderot, Confutazione del libro «Sull’uomo» di Helvetius, in Potere politico e libertà di stampa, Roma, Editori Riuniti, 1966, p. 159.
[115] Proposta di progetto a medio termine, Roma, Editori Riuniti, 1978, p. 26. Sulla «rivalutazione del lavoro produttivo e socialmente utile», ibidem, cfr. il cap. II
[116] L’alternativa dei socialisti, documenti Mondo Operaio, Edizioni Avanti!, pp. 38-9. «Se lavori disaggradevoli e molesti non potendo eseguirsi per mezzo della meccanica e della chimica, vengono trasformati mediante qualche processo in lavori graditi e non si potessero trovare le forze necessarie, allora ognuno ha il dovere di prestare l’opera sua»: A. Bebel, La donna e il socialismo, cit., p. 360. Dove la differenza vera sta nel fatto che dietro a ciò Bebel vedeva una rivoluzione, non un garofano. Per il giovane Engels, Descrizione delle colonie comunistiche sorte negli ultimi tempi e ancora esistenti (1845), in K. Marx, F. Engels, Opere complete, IV, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 531, quei lavori «una volta nella comunità, non sono più umili; e poi, sarà possibile eliminarli quasi del tutto migliorando gli impianti, le macchine».