Aris Accornero
Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c1
c) C’è un crescente divario fra le valenze che al Lavoro annettono oggi i partners sociali: questo sembrerebbe anzi l’ennesimo caso di bandiere che il proletariato ha sollevato dal fango, dove le aveva lasciate cadere la borghesia. Nell’uso capitalistico, la ca
{p. 14}tegoria lavoro mostra un crescente utilitarismo e una credenza declinante. I motivi non sono neppure tanto quelli di un logorio o di un ripudio del lavoro come valore borghese. Sono piuttosto altri, e principalmente: il trasferimento fuori del lavoro, e del tempo di lavoro, degli attributi che fondano l’identità sociale; e dunque la difficoltà sempre più grande a tenere il baricentro dei valori piantato nella produzione, mentre slitta verso il consumo. A questo punto subentra il movimento operaio, a riproporre o a tener ferma una categoria che prima poggiava solidamente su due gambe, due ascendenze. Il Lavoro, creatura che viene dall’ideologia borghese ma anche da quella operaia, oggi è quasi orfano. E benché il movimento operaio, com’è nella sua natura e nelle sue tradizioni, ce la metta tutta per tenere alta la bandiera, un vuoto si sente. C’è anzi da pensare a quel che ne sarebbe della categoria «lavoro», se non venisse trattenuta dal baratro della catena di montaggio e del tempo libero, in cui il capitale la sta facendo precipitare. Quest’ultima inadempienza capitalistica — si potrebbe dire, verso la nobiltà del lavoro — è forse più delle altre all’origine della crisi.
Tre inadempienze: è significativo. Non si tratta allora della naturale obsolescenza d’un concetto di lavoro; non è solo il prorompere di una consapevolezza critica. Prima di tutto è un difetto, un debito, una responsabilità della società capitalistica medesima. La crisi insomma non è epocale. Può essere che sia anche ineluttabile, ma è meglio storicizzare.

2. La faccia positiva del lavoro umano

Se questi sono gli aspetti estremi che stanno all’origine della crisi, è evidente che si risolve poco riproponendo i connotati ideali del lavoro. Può anzi rivelarsi controproducente. Noi vediamo ad esempio i lodevoli sforzi che intellettuali organici al movimento operaio fanno per difendere il valore del lavoro.
Scrive L. Gruppi: «Proprio quando ci si richiama al {p. 15}lavoro come valore, allora e soltanto allora ci si può muovere contro il sistema capitalistico, che rende il lavoro estraneo al proprio valore» [10]
. Ribadisce S. Garavini: «Il lavoro, nella sua contraddittoria natura alienata ma di potenziale realizzazione più alta dell’uomo, è il tratto distintivo dell’uomo come persona civile» [11]
.
Ma una posizione così esposta, può essere tenuta con argomenti tanto usuali?
Non che io voglia qui associarmi alla polemica di tipo filologico in cui è maestro C. Napoleoni il quale, appena sente parlare di «lavoro», tenacemente lo riconduce al contesto del rapporto di produzione e lo ribattezza quindi, con pieno fondamento, come «lavoro salariato» [12]
. Questo memento è infatti decisivo in quanto può risolvere una disputa, ma è poco utile perché trancia alla radice il problema stesso. Il problema è semplice a formularsi: è possibile individuare, ed è legittimo privilegiare, la faccia positiva del lavoro salariato? Perché è questo il vero problema del movimento operaio, oggi come non mai.
E questo problema non sembra farsi più semplice. Anzi. È qui che un richiamo ortodosso appare di ben scarso aiuto. Rispondere che nel lavoro salariato facce positive non ce n’è, equivale a proiettare indefinitamente nel tempo la soluzione liberatoria, visto che oggi il lavoro è lavoro salariato e non se ne vede la fine.
Questo è un dramma e bisogna capirlo. Non si deve essere troppo impietosi neppure in nome della dottrina di Marx. Non era né previsto né scontato, per il movimento operaio, dover convivere così a lungo con un lavoro estraniato, sempre rinviandone il riscatto a un evento che, laddove si è verificato, non sembra davvero abbia chiuso la questione e aperto un capitolo nuovo. Ma proprio questa circostanza spinge il movimento operaio ed i suoi intellettuali a cercare purtroppo vie di uscita non meno convenzionali. A profetismo dogmatico, volontarismo romantico.
Nei Grundrisse c’è scritto che il lavoro «è un’attività positiva, creativa» [13]
. Ma c’è anche scritto, e assai più a lungo argomentato, che «il lavoro quale esiste per sé {p. 16}nell’operaio, in antitesi al capitale, non è produttivo» [14]
. Sull’ostacolo concettuale, Gruppi getta il ponte di una transizione politica, e afferma pertanto che la contraddizione si supererà gradualmente «legando il lavoro produttivo non al solo profitto ma alla utilità sociale» [15]
: operazione che indubbiamente salverebbe capra e cavoli. Garavini affronta invece la contraddizione con la formula della positività-negatività del lavoro: «In questa dialettica vi è insieme la rivolta contro il lavoro, perché imposto e non controllato, e l’orgoglio del lavoro perché controllato e dominato socialmente» [16]
.
Una risposta di progetto e una di movimento, si potrebbero definire. E questo è l’aspetto volontaristico.
L’aspetto romantico sta nel presupposto comune che sussista una così pittorica dicotomia, quasi un’antinomia, fra naturalità e storicità del lavoro. Ora, si sa che la sua duplicità ci viene da Marx, il quale rimprovera a Smith di avere del lavoro una «determinazione puramente negativa» [17]
, così come parecchi anni prima aveva rimproverato a Hegel di «vedere soltanto l’aspetto positivo del lavoro» [18]
. Peraltro, l’operazione dialettica con cui Marx ce ne fa vedere l’aspetto negativo muoveva da una determinazione sicuramente positiva del lavoro, tanto che egli aveva giudicato importante la Fenomenologia proprio in quanto con essa Hegel «coglie l’essenza del lavoro», «concepisce l’uomo reale come risultato del proprio lavoro», e anzi «intende il lavoro come l’essenza, l’essenza che si avvera dell’uomo» [19]
. Come riassume Garavini, «l’uomo è il lavoro» [20]
.
Due e distinti sembrano gli elementi fondativi di questo chiaro pronunciamento marxiano sulla positività del lavoro.
a) Il primo, quello dei Manoscritti, potremmo chiamarlo — con H. Marcuse — il fondamento «ontologico» [21]
, e a mio avviso sarebbe sbagliato farlo rientrare interamente dentro l’orbita hegeliana: il lavoro come essenza inverante dell’uomo è più di un retaggio idealistico. Tutto, a cominciare dall’itinerario intellettuale di Marx, fa infatti ritenere che si tratti di un giudizio di {p. 17}valore. La violenza della requisitoria sul lavoro che estrania l’operaio dalla propria essenza umana poggia interamente sull’opposta clausola, che attraverso il lavoro si autorealizzi l’essenza dell’uomo. Il furore dialettico rivela la passione politica. La positività del lavoro può dunque apparire come immanente, o anche presentarsi come senso comune, ma è soprattutto una scelta di campo, giovanile e definitiva. È per questo che non ha neppure bisogno di essere dimostrata.
b) Il secondo fondamento non è più di genere filosofico, bensì scientifico. Si affaccia già fin dall’Ideologia tedesca e accompagna poi il ragionamento marxiano più maturo. Potremmo definirlo antropologico e farlo discendere dallo spirito del Rinascimento, non più dalla logica hegeliana. «Il lavoro — leggiamo nel Capitale — è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura», e nel quale, «operando sulla natura fuori di sé e cambiandola, egli cambia allo stesso tempo la natura sua propria» [22]
. Qui, col lavoro, l’uomo diventa uomo nella sua materialità, non più nella sua essenza. Come potrebbe non essere positivo, l’agente di questa trasformazione, del mondo e di sé? Tant’è vero «che questa attività, questo continuo lavorare e produrre sensibile, è la base dell’intero mondo sensibile, quale ora esiste» [23]
 — era già stato obiettato a Feuerbach. L’immagine tuttavia, che pure sa di epopea della civilizzazione, si svolge in una dimensione atemporale. È anche questa una rappresentazione assoluta. Anche questo lavoro che emancipa l’uomo dalla natura e che forgia la natura dell’uomo, come l’altro con cui si invera l’essenza di quell’«attivo ente naturale umano» [24]
 che è l’uomo, ha l’aspetto di una mera seppur nobile attività che trascende modi, soggetti, rapporti.
La faccia positiva del lavoro risulta dunque carente, per non dire priva, di determinazioni storiche concrete. (Infatti, ogni qual volta Marx passa a descrizioni concrete, quel lavoro che è così positivo per l’umanità non lo è altrettanto per chi lo fa: e questo, già prima che si affacci il proletariato moderno). Diciamo pertanto che quella faccia presenta un’evidenza assiomatica tanto ov{p. 18}via quanto dubbia. Questo rinvia piuttosto a una idea di lavoro che non è visione storica ma opzione politica. Forse qui ha ragione J. Davydov a ritenere che Marx, quando ne affronta la positività, non di lavoro parli ma di un’«ideale di lavoro» [25]
. L’alienazione del lavoro, allora, è anche alienazione di un ideale [26]
.
A questo punto ci si deve porre una domanda: la faccia positiva del lavoro guarda indietro o avanti, è un prima o un dopo rispetto alla faccia negativa?
È un quesito sostanziale e non lo si può eludere anche se non appare ben presente a Marx stesso. Per altri invece, a cominciare da J.-J. Rousseau — «il più eminente degli apologisti del lavoro» [27]
 — il problema non si pone nemmeno giacché è bello tutto ciò che era allo stato di natura, e quindi la faccia positiva del lavoro (se di lavoro si può già parlare) è vòlta verso le società primitive [28]
. L’interrogativo è risolto con minor naturalismo da P.-J. Proudhon, il quale vede nel lavoro un aspetto soggettivo, «spontaneo e libero, principio di felicità», ed un aspetto oggettivo, e «fatale», che lo rende «ripugnante e penoso, principio di servitù e di abbrutimento» [29]
. Ha il buon senso di aggiungere: «Questi due aspetti del lavoro sono inerenti l’uno all’altro», e l’abilità politica di imputare al «regime delle religioni» la faccia negativa, dichiarando che la faccia positiva è quella portata viceversa dal «regime della Rivoluzione» [30]
. E anche se in via definitoria dipinge il lavoro come «libero per sua natura» e come attività «di ordine morale e umano» [31]
, descrive con entusiasmo sincero, e financo lirico, solamente la propria esperienza professionale di tipografo [32]
: il lavoro-gioia deve ancora venire.
Nell’opera di Marx, sembrerebbe a volte che la positività del lavoro preceda semplicemente il sopravvenire dello sfruttamento capitalistico. Fin dai Manoscritti si parla di operai, di salario, di capitale, di profitto, ed è dentro questo orizzonte che viene situato il ragionamento sull’alienazione, tanto del lavoro quanto dell’uomo. «Il salario è un’immediata conseguenza del lavoro alienato, e il lavoro alienato è la causa immediata della
{p. 19}proprietà privata. [...] La proprietà privata risulta così dall’analisi del concetto del lavoro espropriato, cioè dell’uomo espropriato, del lavoro alienato, della vita alienata, dell’uomo alienato» [33]
. Ma siccome non si può dire che il lavoro fosse libero o indiviso prima dell’avvento della società capitalistica — comunque datata, alla Marx-Engels o alla Brentano-Sombart [34]
 — questa risposta non convince: la faccia positiva del lavoro non illumina certo le ére della schiavitù e del feudalesimo.
Note
[10] L. Gruppi, Il lavoro come valore, in «Rinascita», n. 36, 16 settembre 1977. Segni di ripensamento son venuti dal successivo articolo Che cos’era il lavoro secondo Marx?, in «l’Unità», 23 gennaio 1980.
[11] S. Garavini, in Il lavoro e i giovani, Roma, Editrice sindacale italiana, 1978, p. 8.
[12] C. Napoleoni, Ambiguità del rapporto tra valori e lavoro, in «Rinascita», n. 31, 5 agosto 1977.
[13] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Firenze, La Nuova Italia, 1970, vol. I, p. 296.
[14] Ibidem, vol. II, p. 281.
[15] L. Gruppi, op. cit., ibidem.
[16] S. Garavini, op. cit., p. 7.
[17] K. Marx, Lineamenti, cit., vol. II, p. 279.
[18] K. Marx, Opere filosofiche giovanili, Roma, Editori Riuniti, 1963, p. 264.
[19] Ibidem, pp. 263-4.
[20] S. Garavini, op. cit., p. 5. C. Napoleoni parla del lavoro come «autoproduzione dell’uomo»: cfr. L’enigma del valore, in «Rinascita», n. 8, 24 febbraio 1978. E bisogna ammettere che il carattere antropologicamente fondativo del lavoro è un formidabile deterrente contro la critica del lavoro.
[21] Cfr. H. Marcuse, Marxismo e rivoluzione, Torino, Einaudi, 1975, dove nel saggio Nuove fonti per la fondazione del materialismo storico, accredita a Marx stesso la definizione che poi userà in senso più strettamente hegeliano nel saggio del 1933, Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica, in Cultura e società, Torino, Einaudi, 1969, in particolare p. 176: «Lo scopo del lavoro è l’esistenza stessa e non qualcosa fuori da essa».
[22] K. Marx, Il Capitale, Roma, Edizioni Rinascita, 1956, vol. I, p. 195.
[23] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1958, p. 41.
[24] K. Marx, Opere filosofiche giovanili, cit., pp. 267-8.
[25] J. Davydov, Il lavoro e la libertà, Torino, Einaudi, 1966, p. 61. Di un mito parla invece W. Morris quando dice: «C’è stato un tempo in cui gli uomini amavano il loro lavoro quotidiano», in Come potremmo vivere, Roma, Editori Riuniti, 1979, p. 133.
[26] Sul fatto che l’intero concetto si debba basare su una concreta nozione di «perdita» insiste il saggio di V. Rieser, Il concetto di «alienazione» in sociologia, in «Quaderni di sociologia», n. 2, aprile-giugno 1965. Come notò P. Naville nel 1957, Dall’alienazione al godimento, Milano, Jaca Book, 1978, p. 435 (e poi R. Panzieri, Uso socialista dell’inchiesta operaia, in «Quaderni rossi», n. 5, aprile 1965, p. 68), nel Capitale questo concetto di «espropriazione metafisica» pare sparisca. Ma non vorrei seguire l’animosa disputa filologica accesa proprio su questo punto da A. Schaff, L’alienazione come fenomeno sociale, Roma, Editori Riuniti, 1979, pp. 77-98: non è in questione la teoria in sé, bensì il suo sviluppo nel pensiero di Marx.
[27] P. Jaccard, op. cit., p. 210.
[28] J. J. Rousseau, Emilio, Bari, Laterza, 1953, p. 165: «Di tutte le occupazioni che possono provvedere alla sussistenza di un uomo, quella che più ci avvicina allo stato di natura è il lavoro delle mani» (leggasi più correttamente: manuale). Riferendosi alla famosa indicazione data qui — «impara un mestiere», vale a dire un lavoro manuale artigiano — un seguace di Rousseau scrive che essa contiene «tutta la mistica moderna del lavoro e l’apologia del lavoro manuale che il nostro tempo conosce»: P. Jaccard, op. cit., p. 212. Con un certo sarcasmo, G. Friedmann ha fatto rilevare che questo genere di apologie danno luogo poi ad «una specie di fanatismo del lavoro, che tende a presentarne soltanto gli aspetti positivi»: cfr. L’oggetto della sociologia del lavoro, in G. Friedmann, P. Naville, Trattato di sociologia del lavoro, Milano, Comunità, 1963, vol. I, p. 10.
[29] P. J. Proudhon, La giustizia nella Rivoluzione e nella Chiesa, Torino, UTET, 1968, p. 683.
[30] Ibidem. Ciò fa dire a É. Dolléans, Storia del movimento operaio. 1/1830-1871, Firenze, Sansoni, 1968, p. 200, che Proudhon ha «animato con la mistica del lavoro» l’obiettivo di lotta assegnato al movimento operaio.
[31] P. J. Proudhon, op. cit., p. 618.
[32] Ibidem, p. 704.
[33] K. Marx, Opere filosofiche giovanili, cit., pp. 202-3.
[34] Cfr. L. J. Brentano, Le origini del capitalismo, Firenze, Sansoni, 1954; W. Sombart, Il capitalismo moderno, Torino, UTET, 1967.