Aris Accornero
Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c1
Nell’opera di Marx, sembrerebbe a volte che la positività del lavoro preceda semplicemente il sopravvenire dello sfruttamento capitalistico. Fin dai Manoscritti si parla di operai, di salario, di capitale, di profitto, ed è dentro questo orizzonte che viene situato il ragionamento sull’alienazione, tanto del lavoro quanto dell’uomo. «Il salario è un’immediata conseguenza del lavoro alienato, e il lavoro alienato è la causa immediata della
{p. 19}proprietà privata. [...] La proprietà privata risulta così dall’analisi del concetto del lavoro espropriato, cioè dell’uomo espropriato, del lavoro alienato, della vita alienata, dell’uomo alienato» [33]
. Ma siccome non si può dire che il lavoro fosse libero o indiviso prima dell’avvento della società capitalistica — comunque datata, alla Marx-Engels o alla Brentano-Sombart [34]
 — questa risposta non convince: la faccia positiva del lavoro non illumina certo le ére della schiavitù e del feudalesimo.
Altre volte sembrerebbe invece che la positività del lavoro pre-esista allo svolgimento dei processi storico sociali, che connoti cioè il lavoro pre-alienato, il lavoro com’era prima della proprietà privata, prima della divisione del lavoro. Marx però ammonisce: «Evitiamo di trasferirci come l’economista politico, quando vuole spiegarsi, in un inventato stato originario. Un tale stato originario non spiega niente. Noi partiamo da un fatto economico, attuale» [35]
. E siccome non si può certo dire che Marx fosse un nostalgico della società primitiva o naturale, neanche questa risposta convince: la faccia positiva del lavoro non si perde nella notte dei tempi.
Non si vede dunque in Marx, se si guarda all’indietro, un tempo del lavoro positivo, ma piuttosto una potenzialità, una virtualità positiva del lavoro, una sua immanente positività e nient’altro [36]
. In uno dei pochissimi luoghi ove parrebbero raffrontarsi due tempi, questo ideale di lavoro si conferma come tale: «Il mio lavoro sarebbe libera manifestazione della vita e dunque godimento della vita. Ma nelle condizioni della proprietà privata esso è alienazione della vita; infatti io lavoro per vivere […]. Nel lavoro sarebbe affermata la peculiarità della mia individualità, poiché vi sarebbe affermata la mia vita individuale […]. Ma nelle condizioni della proprietà privata la mia individualità è alienata al punto che questa attività mi è odiosa, è per me soltanto un tormento e solo la parvenza di un’attività» [37]
.
Occorre vedere allora se la faccia positiva guarda avanti, verso la fine dello sfruttamento. Aiutano poco, in materia, le pagine dell’Ideologia tedesca sulla rivoluzione comunista dei proletari che «per affermarsi perso{p. 20}nalmente, devono abolire il lavoro» [38]
 come condizione di esistenza loro propria e di tutta la società [39]
. Meglio cercare nelle opere mature. È qui che Marx prospetta, come nel Capitale [40]
, il «regno della libertà» quale si instaura «dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita» — come scrive poi nella Critica al programma di Gotha [41]
. Ed è oltremodo significativo che questo bisogno sia al tempo stesso elevato ed elementare. Nei Grundrisse si parla infatti, per l’individuo, del «bisogno di una normale porzione di lavoro» [42]
. In tal modo la prospettiva avveniristica viene a coincidere con una esigenza vitale, anche psichica [43]
. Dove anzi la fuoriuscita dal regno della necessità è meglio delineata seppur fugacemente, cioè nel Capitale, Marx è così realistico da porre come «condizione fondamentale di tutto ciò la riduzione della giornata lavorativa» [44]
. E nei quaderni dei Grundrisse avverte a più riprese, polemico con Fourier, che «il lavoro non può diventare gioco» anche quando saranno «create le condizioni affinché sia lavoro attraente» [45]
.
Molto di più si sbilanceranno gli epigoni. Intanto comincerà Engels, in quel suo testo tardo ed infausto che è l’Antidühring, dove si promette nel socialismo quel che Marx aveva escluso perfino nel comunismo, e cioè che «il lavoro, da peso diverrà gioia» [46]
. Kautsky, nel suo «catechismo della socialdemocrazia», dipinge a sua volta una società socialista cosiffatta: «Non la libertà del lavoro, ma la liberazione del lavoro, che le macchine renderanno possibile in misura sempre maggiore, porterà all’umanità la libertà di vita, di attività artistiche, dei più nobili godimenti» [47]
. Molto più in là si è spinto A. Bebel ne La donna e il socialismo, che risulterà uno dei libri più letti nella storia della socialdemocrazia tedesca [48]
. «Per soddisfare questo bisogno di alternare una occupazione all’altra, la società retta a sistema socialistico porge l’occasione più propizia. L’aumento straordinario delle forze produttive, unito ad una semplificazione sempre maggiore dei processi di lavoro, rende possibile una notevole limitazione nella durata del lavoro e facilita {p. 21}anche lo impratichirsi e l’addestrarsi nei vari maneggi. Quindi, non solo vi è possibilità di tener conto del bisogno di alternare le occupazioni, ma è anzi scopo della società di soddisfare questo bisogno nell’interesse di tutti, poiché è da ciò che dipende l’armonico perfezionamento dell’uomo [...]. La società futura avrà dotti ed artisti d’ogni genere i quali dedicheranno una parte del giorno al lavoro fisico, e la rimanente consacreranno, a seconda dei gusti, allo studio e all’arte. Cesserà quindi l’antitesi tra il lavoro mentale e il lavoro manuale» [49]
. Preso da coerente entusiasmo, il buon Bebel così prosegue: «Se la società cresce e i metodi di produzione migliorano in modo che si possa coprire il bisogno in due ore, allora la società limita la durata del lavoro sociale a due ore. Se invece la collettività esige la soddisfazione di bisogni più elevati di quelli che può coprire […] allora fissa questa durata in quattro ore. Il suo paradiso è il voler suo» [50]
. E più oltre: «Siccome tutti lavorano sotto le stesse condizioni di esistenza, e ciascuno attende alle occupazioni che rispondono alle sue attitudini naturali, anche le differenze fra prestazione e prestazione saranno poco rilevanti. Anche l’atmosfera intellettuale e morale della società, che stimola ognuno a sorpassare l’altro, concorrerà ad eguagliare le differenze […]. Ne segue altresì che non vi può essere nemmeno differenza fra lavoro fisico “più elevato” e lavoro fisico “più basso”. Siccome la società non fa che eseguire lavori socialmente utili, così ogni lavoro che ha tale qualità, ha per la società eguale valore» [51]
. E, a proposito della cultura: «In una società in cui le differenze oggi esistenti fra “educato e non educato” spariranno perché tutti potranno raggiungere il più alto grado di istruzione, dovrà sparire anche l’antitesi fra il lavoro del dotto e dell’ignorante» [52]
. In conclusione: «Ognuno fa quello a cui lo spingono le inclinazioni naturali e il suo ingegno. Non ci saranno più musicisti, attori, artisti e insegnanti di professione, ma ve ne saranno molti per ispirazione di talento e di genio. E le opere di costoro supereranno quanto si fa oggidì in questi campi [...]. Vedremo quindi sorgere {p. 22}per le arti e le scienze un’era, quale il mondo non vide mai, e le creazioni sue risponderanno ai progressi di quella civiltà» [53]
.
Di fronte a queste profezie, più incaute che generose, non si può semplicemente dire che siamo in pieno ’800. Infatti la faccia positiva del lavoro continua a risplendere radiosa già in pieno ’900. Parlando ormai non più del socialismo, ma ricalcandone i moduli con l’ABC del comunismo, Bucharin afferma che nella società comunista «tutti gli uomini possiedono una vasta cultura e possono esplicare la loro attività in tutti i rami della produzione: oggi amministro, calcolo cioè quante pantofole o panini si dovranno produrre il mese prossimo; domani lavoro in un saponificio, la settimana prossima, forse, in una serra della città e, tre giorni dopo, in una centrale elettrica» [54]
. Descrizione che riecheggia quel brano dell’deologia tedesca, purtroppo non abbandonato dai seguaci alla «critica roditrice dei topi», contenente il quadro bucolico e improbabile di una società comunista «in cui ciascuno può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere», una società che «regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi viene voglia» [55]
: dove aleggiano reminescenze dell’Utopia di More, flash-back alla Jean-Jacques Rousseau — e forse anche influssi coevi dell’industrie naturelle di Fourier [56]
— motivi rifluiti poi nella Lega dei Giusti (il sarto Weitling li colloca infatti fra le Garanzie dell’armonia e della libertà) e in parte assorbiti dagli ancor giovani padri del socialismo scientifico [57]
.
Ma se guardiamo all’insieme dell’opera di Marx, io credo si possa affermare serenamente che egli fa discendere l’idea positiva del lavoro da un bisogno di vita dell’uomo. È qualcosa di elementare e di naturale. Il lavoro è utile a chi lo fa prima ancora che agli altri. L’idea è questa, questa faccia sana e piena di buon senso: ma chi è che non lo capisce, chi lo può mai porre in dubbio [58]
? E se uno sta con i lavoratori, a {p. 23}maggior ragione sa bene cose «la dura ma temprante scuola del lavoro», di cui si parla nella Sacra famiglia [59]
.
Da qui la mia sommessa domanda: perché ostinarsi a fare di questa idea semplice un’ideologia altisonante?

3. La nobiltà del lavoro come opera

Bisogna rendersi conto che quello raggiunto da Marx è un traguardo altissimo, proprio perché spoglio d’ideologia, sia religiosa che laica [60]
. Già da tempo il lavoro non è più castigo biblico e connotato servile. L’evangelo del cristianesimo primitivo ne ha fatto un precetto di frugalità, le sette eretiche una condizione di volontaria rinuncia, e la scolastica medievale una necessità da sopportare. Da maledizione, è già diventato prescrizione. La cultura del Rinascimento ha messo l’industriosa fatica sulla strada della promozione umana, e l’etica protestante ha gratificato la professione/vocazione come servizio divino. Nel secolo dei lumi, Locke ha per di più visto nel lavoro la fonte di ogni proprietà, e Smith di ogni ricchezza. La rivoluzione francese, a sua volta, ha formalmente collocato sullo stesso piano «l’uomo che lavora e colui che lo paga» (Saint-Just) [61]
. E l’Ottocento porta al culmine il processo ponendo le basi perché si trasformi in obbligazione sociale quel che era stato un precetto morale.
È quella l’epoca di fondazione del concetto moderno di lavoro, che poggia sui piloni posti da Hegel e da Ricardo. Essenza dell’uomo e misura del valore: questo sì che segna un «riscatto del lavoro».
Ma la classe nuova dei proletari, il nuovo soggetto del lavoro, non solo non avverte il cambiamento anzi sente la pesantezza inaudita della propria condizione. Ancora nel 1839, a rivoluzione industriale avvenuta, «il mondo in genere bolla il lavoro, che è il padre di ogni godimento, non solo come spiacevole, ma anche come indegno»: lo denuncia J. F. Bray ne I mali del lavoro e il rimedio del lavoro, ossia l’età del potere e l’età del
{p. 24}dovere [62]
. Una dignità effettivamente pari tra la classe degli operai e le altre, per il momento è scritta nella Città del Sole, non certo in quella dell’uomo [63]
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Note
[33] K. Marx, Opere filosofiche giovanili, cit., pp. 202-3.
[34] Cfr. L. J. Brentano, Le origini del capitalismo, Firenze, Sansoni, 1954; W. Sombart, Il capitalismo moderno, Torino, UTET, 1967.
[35] K. Marx, Opere filosofiche giovanili, cit., p. 194.
[36] Fa un po’ meraviglia che sul problema della storicità del lavoro positivo non s’interroghi minimamente un assertore convinto ed esperto d’alienazione qual’è A. Schaff, L’alienazione come fenomeno sociale, cit., p. 298: «Per quanto riguarda la genesi e l’origine del lavoro alienato, è possibile limitarsi a dare una tale risposta sommaria...».
[37] K. Marx, Estratti dal libro di James Mill, ‘Élements d’economie politique’, in K. Marx, F. Engels, Opere, vol. III, Editori Riuniti, Roma, 1976, pp. 247-8.
[38] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, cit., p. 76.
[39] Di fronte ad affermazioni scapestrate come questa, ci si affretta a spiegare che Marx (o Engels?) non parlava di abolire il lavoro tout court. E fin qui, d’accordo. Infatti quell’espressione galeotta non tornerà più. Tuttavia, com’è possibile credere d’aver reso più ragionevole l’obiettivo, sostenendo che «Marx non proclama il dolce far niente, ma si limita solo (sic) a divulgare, la sostituzione del lavoro coatto dall’esterno con il libero agire creativo», come scrive A. Schaff, op. cit., p. 298? Si comprende allora come l’unica via d’uscita, in una prospettiva così meta-storica, possa consistere nell’utopia tecnologica: «Nell’automazione risiede la soluzione del problema dell’azione alienante scatenata dalla divisione del lavoro», p. 299. Non si comprende invece come possa essere fatta risalire al povero Marx, e addirittura ai Grundrisse, l’idea di una «prosecuzione conseguente dello sviluppo sociale» che significhi «automatizzazione nel campo della tecnica produttiva», ibidem.
[40] K. Marx, Il Capitale, cit., vol. III3, p. 231.
[41] K. Marx, F. Engels, Il partito e l’internazionale, Roma, Edizioni Rinascita, 1948, p. 232. È questa l’espressione che verrà ripresa dall’unico Lenin engelsiano, quello di Stato e rivoluzione (V. I. Lenin, Opere, Roma, Editori Riuniti, 1967, vol. XXV, p. 440), così tributario dell’Antidühring. Osserverà nel ’20 H. Kelsen, Socialismo e Stato, Bari, De Donato, 1979, p. 87: «Non vi è alcun motivo per supporre che il lavoro diventerà, da un peso, un bisogno, tanto più il lavoro del singolo, inserito in un piano economico molto complicato, che funziona solo con una amplissima divisione del lavoro. Tuttavia — annota Kelsen — non si deve dimenticare che qui Marx parla come politico e non come economista».
[42] K. Marx, Lineamenti, cit., vol. II, p. 278.
[43] Ne parlerà poi S. Freud, Il disagio della civiltà, Torino, Boringhieri, 1971, p. 24, riferendosi alla proprietà, che il lavoro ha, di scaricare le pulsioni dell’individuo e di «gius tifica [re] la sua vita nella società». (Questa interpretazione ricorda quella di S. Giacomo sulla giustificazione per opere, Epistola, 2, 24).
[44] K. Marx, Il Capitale, cit., vol. III3, p. 232.
[45] K. Marx, Lineamenti, cit., vol. II, p. 410.
[46] F. Engels, Antidühring, Edizioni Rinascita, Roma, 1956, p. 320. Sul ruolo di questa ed altre opere, di mutazione del marxismo in scienza generale, cfr. G. Lichtheim, Il marxismo, Bologna, Il Mulino, 1971, p. 379-92. Più recente, e con approccio più «interno», l’opera storiografica di H. J. Steinberg, Il socialismo tedesco da Bebel a Kautsky, Roma, Editori Riuniti, 1979; sulla fondazione di un’ideologia scientifica del socialismo vedi le pp. 50-100. Ultimamente la discussione è divampata in un apposito convegno: «L’Antidühring affermazione o deformazione del marxismo?», Perugia, 4-5 ottobre 1979. Di imminente uscita il volume di L. Basso, che aveva promosso il convegno: Socialismo e rivoluzione, Milano, Feltrinelli.
[47] K. Kautsky, Il programma di Erfurt, Roma, Samonà e Savelli, 1971, p. 146.
[48] A. Bebel, La donna e il socialismo, Milano, Max Kantorowicz editore, 1892 (reprint Roma, Savelli, 1971). Notizie sulla diffusione di questo testo in H. J. Steinberg, Il socialismo tedesco da Bebel a Kautsky, cit. pp. 186-194, e in G. Roth, I socialdemocratici nella Germania imperiale, Bologna, Il Mulino, 1971, pp. 224-30, dove si fa notare che le opere più diffuse di Bebel e di Lassalle hanno avuto «una influenza diretta non-marxiana, che svolgeva un ruolo fondamentale per la comprensione della propaganda tra il popolo», p. 229.
[49] A. Bebel, La donna e il socialismo, cit., pp. 350-2.
[50] Ibidem, pp. 354-5.
[51] Ibidem, pp. 357-60.
[52] Ibidem, p. 362.
[53] Ibidem, p. 406. Di questo testo K. Kautsky, Il programma di Erfurt, cit., p. 127, diede un giudizio benevolo, così motivato: «La socialdemocrazia può fare proposte positive solo per la società attuale, non per quella futura. Proposte che vadano al di là possono basarsi non su fatti ma solo su premesse inventate, e sono quindi fantasticherie, sogni [...]. Da non confondere con questi sogni sono invece i tentativi di indagare quale direzione dovrebbero assumere le tendenze dello sviluppo economico non appena questo sarà stato posto su basi socialiste. Qui non si tratta di inventare “ricette per la trattoria del futuro” [...]. Indagini di questo tipo non sono assolutamente inutili. I pensatori più significativi della socialdemocrazia hanno iniziato simili ricerche. Nelle opere di Marx e Engels si trovano sparsi numerosi risultati di tali indagini. Bebel ci ha dato una presentazione sommaria delle sue ricerche in questo campo, nel suo libro La donna e il socialismo».
[54] N. Bucharin, E. Preobrazenskij, ABC del comunismo, Roma, Newton Compton, 1975, p. 64. Assai più cauto sarà Stalin, che nel 1952 parlerà della possibilità di «non essere inchiodati per tutta la vita a una professione qualsiasi»: Problemi economici del socialismo nell’URSS, «Rinascita», n. 10, ottobre 1952, p. 29, ora ripubblicato col medesimo titolo a cura di F. Botta, Bari, De Donato, 1976, p. 131
[55] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, cit., p. 29.
[56] G. D. H. Cole, nel volume sui precursori del socialismo, Storia del pensiero socialista, Bari, Laterza, 1967, I, p. 74, annette un’importanza centrale al fatto che nella concezione di Fourier nessun lavoratore dovesse dedicarsi a un’unica occupazione per lunghi periodi.
[57] Cfr. G. M. Bravo, Wilhelm Weitling e il comunismo tedesco prima del Quarantotto, Torino, Giappichelli, 1963.
[58] Su questa positività dell’essere umano, cfr. il paragrafo «L’alienazione del lavoro. Marx», in part. pp. 394-99, in R. A. Nisbet, La tradizione sociologica, Firenze, La Nuova Italia, 1977. E anche G. Lichtheim, Il marxismo, cit., p. 602.
[59] K. Marx, F. Engels, La sacra famiglia, ovvero Critica della critica critica, Roma, Edizioni Rinascita, 1954, p. 41.
[60] Attraverso una lettura piuttosto rozza e un apparentamento con Calvino, questo traguardo viene negato a Lenin da J. B. Sorenson nel cap. «An Ethic of Work» di The Life and Death of  Soviet Trade Unionism 1917-1928, New York, Atherton Press, 1969, in part. p. 143.
[61] L.A.L. De Saint-Just, Progetto di Costituzione, in Terrore e libertà, Roma, Editori Riuniti, 1966, p. 105.
[62] Vedilo in La tradizione socialista in Inghilterra. Antologia di testi politici 1820-1852, a cura di G. Bianco e E. Grendi, Torino, Einaudi, 1970, p. 129. Sul disprezzo per il lavoro manuale e le sue radici storiche, cfr. R. Girod, «Atteggiamenti relativi al valore del lavoro», in G. Friedmann, P. Naville, Trattato di sociologia del lavoro, cit., vol. II, pp. 150-4.
[63] «... Onde si ridono di noi che gli artefici appelliamo ignobili e diciamo nobili quelli che null’arte imparano e stanno oziosi...»: T. Campanella, G. Bruno, Opere, Milano-Napoli, Ricciardi, 1956, p. 1080. Cfr. il giudizio di K. Lówith, Da Hegel a Nietzsche, Torino, Einaudi, 1949, p. 425: «Il lavoro si è conquistato con grande lentezza la sua validità sociale».