Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c1
Ma la classe nuova dei proletari, il nuovo
soggetto del lavoro, non solo non avverte il cambiamento anzi sente la pesantezza
inaudita della propria condizione. Ancora nel 1839, a rivoluzione industriale avvenuta,
«il mondo in genere bolla il lavoro, che è il padre di ogni godimento, non solo come
spiacevole, ma anche come indegno»: lo denuncia J. F. Bray ne I mali del
lavoro e il rimedio del lavoro, ossia l’età del potere e l’età del
Perciò tutto un pensiero contestativo,
nell’assumere la difesa degli operai dallo sfruttamento, nel contrapporre il regno del
socialismo alle nequizie del capitalismo, nel predicare la riforma sociale o la
redenzione proletaria, non fa che affermare, modellare e sottolineare un’immagine
diametralmente opposta di lavoro. In ciò si distingue Proudhon, forse più di ogni altro
[64]
. Scrive P. Jaccard, che pure la condivide in pieno: «Tutta l’apologia
socialista del lavoro, della quale abbiamo sottolineato il carattere esaltato, appare
come una protesta appassionata non solo contro il discredito secolare che l’umanesimo ha
gettato sul lavoro manuale, ma anche contro il macchinismo»
[65]
. Ecco pertanto la ratio ribaltatrice della denuncia:
adesso, quella che era la pena dei rejetti deve diventare un dovere per tutti.
Collettivizzando il lavoro e il prodotto, contro l’ingiusta divisione sociale dell’uno
ed appropriazione privata dell’altro, si edificherà la comunità felice dei
producteurs, la società armonica degli
Uguali.
È ancora il lavoro com’è stato visto nel
socialismo primitivo, detto poi anche utopistico perché molto aveva tratto,
nell’ispirazione, dai quei grandi utopisti dal Cinque al Settecento che avevano dettato
l’obbligo del lavoro come canone di un ordine collettivista
[66]
. Accanto a questa componente ne compare quasi sempre un’altra di diversa
ispirazione, che poggia sul valore dell’operosità individuale. Ma sullo sfondo campeggia
per tutti il motto evangelico, «Chi non lavora non mangi», di quel Paolo di Tarso che
aveva indicato come esempio la comunità laboriosa degli apostoli: il famoso passo della
seconda epistola ai Tessalonicesi, non soltanto attraversa tutto il socialismo
utopistico da Saint-Simon a Cabet
[67]
, ma arriverà a plasmare il socialismo reale. (Affiancato al punto 8 del
Manifesto del partito comunista
[68]
, quel principio impronta l’art. 18 della prima Costituzione sovietica, la
quale appunto «dichiara che il lavoro è obbligatorio per tutti i cittadini, e lancia la
parola d’or¶{p. 25}dine “Chi non lavora non mangia”». Queste norme
resteranno in vigore per 60 anni: fino alla Costituzione del ’77)
[69]
.
Nell’esaltazione del lavoro, che contraddistingue
i messaggi del socialismo primitivo, si rifrangono dunque componenti molteplici, sia
laiche sia religiose. Il Lavoro, dovere sociale dell’uomo e sua affermazione sulla
natura, è al tempo stesso uno scopo che riscatta il singolo, lo giustifica, a volte lo
allieta. Compaiono quindi motivi che si richiamano anche alla ideologia borghese del
lavoro come «spirito del capitalismo»: l’etica sviscerata da Weber, il protagonista
descritto da Sombart
[70]
. Certo, quello del socialismo è un artefice diverso, che si eleva
collettivamente; la sua morale non è solo razionale ma anche altruista, lontanissima
dalle sordide virtù puritane di un Beniamino Franklin
[71]
. E tuttavia sembra corretto rilevare che «la deificazione laica dello sforzo laborioso»
[72]
compiuta dal socialismo utopistico e primitivo, non si distingue molto dalla
religione del lavoro che ha animato l’intrapresa capitalistica. Il contributo di Marx,
con il passaggio del lavoro da dovere e scopo a necessità/libertà, è quindi inestimabile
perché dà un segno di laicità al processo di valorizzazione in corso. È un contributo
che supera le idee coeve di molti pensatori, generose, commoventi, a volte puerili. (Per
questo, spiegherà poi Engels, «quando il Manifesto vide la luce non
avremmo potuto intitolarlo “socialista”»
[73]
. Comunista suonava meno utopistico e più combattivo. Dal canto suo, il Cole
mette in risalto l’origine indiscutibilmente francese del primo socialismo)
[74]
.
Ciò che diversifica il pensiero di Marx
ristabilendo un equilibrio realistico tra faccia positiva e negativa del lavoro, è la
fondamentale distinzione teorica introdotta fra lavoro e forza-lavoro, che dà conto in
modo nuovo dello sfruttamento capitalistico, oltre a storicizzare e a concretizzare la
nozione stessa di lavoro. Le basi della glorificazione socialista del lavoro
continuavano a poggiare invece, più che sul suo ormai diffuso riconoscimento quale
merce a tempo, sulla sua generica valenza nel
¶{p. 26}senso di attività necessaria
[75]
. Da qui, se si prendeva la scorciatoia, era facile dedurre che «chiunque
lavora diventa proprietario del valore ch’egli crea», come diceva Proudhon
[76]
; ovvero che «l’intero prodotto del lavoro dovrebbe appartenere all’operaio»,
come meno rozzamente sosteneva T. Hodgskin
[77]
con tutta la tradizione socialista, inglese oltreché francese, ritenendo
pertanto che il ricupero del maltolto liberasse il Lavoro.
Marx era assai più attento alla faccia negativa
del lavoro — quella salariata, l’unica ben visibile
[78]
— anch’egli per denunciarne la condizione, ma ancor più per rivelarne
l’inestricabile intrinsecità storica con il capitale e con il suo modo di
produzione.
Scarsamente illuminata e tutt’altro che simmetrica
era pertanto la faccia positiva del lavoro nella sua naturalezza vitale, di attività
generica capace di valori d’uso. E, come s’è già visto, Marx non la recita mai. Ma anche
il lavoro liberato come opposto del lavoro merce, del lavoro sfruttato, del lavoro
alienato, neppure questo Marx ha recitato. Persino nell’appassionato Indirizzo
scritto nel 1871 a nome dell’Internazionale sulla guerra civile in Francia,
dove aveva salutato la Comune di Parigi come «forma politica nella quale si poteva
compiere l’emancipazione economica del lavoro», non era andato oltre la dichiarazione
che con tale postulato (perno degli Statuti dell’Associazione, e scritto di suo pugno)
«tutti diventano operai e il lavoro produttivo cessa di essere un attributo di classe»
[79]
. E siccome il programma steso a Gotha dalla socialdemocrazia tedesca parlava
ambiguamente di «emancipazione del lavoro» ad opera della classe operaia, quattro anni
dopo annotava: «“La classe operaia” ha da liberare — che cosa? “Il lavoro”. Capisca chi
può»
[80]
.
4. Il riscatto del lavoro come motivazione al lavoro
Com’è allora che questa idea di lavoro trapassa
poi in ideologia? Come spiegare che dentro il corpo e la storia del marxismo, quasi
insensibilmente, viene mu¶{p. 27}tando la morfologia del lavoro qual’era
presente in Marx?
Non è una questione di filologia (e tanto meno di
tradimenti), ma senz’alcun dubbio deformazione c’è stata. Vediamone in sintesi lo
spessore ed i guasti.
Ciò che si è venuto alterando non è il volto
sobrio, tranquillamente positivo di lavoro in sé e per sé, che Marx ci ha lasciato. È
piuttosto l’equilibrio, caratteristico nella sua opera, fra i pochi fiduciosi cenni a
questa immagine ipotetica e l’accumulo sistematico di materiali schiaccianti a proposito
dell’altra.
È qui che sono successe le cose più atroci.
Quell’equilibrio infatti è stato sconvolto riportando più o meno in pari le due facce,
quasi che la denuncia potesse venire bilanciata e lenita dalla speranza. Una speranza
dai tratti inconfondibili del socialismo ottocentesco, senza troppe distinzioni al suo
interno. Secondo L. Firpo, è «in seno alle grandi correnti del socialismo che il
concetto del lavoro si dissocia, rivelando le due facce contrapposte: da un lato, esso è
il glorioso sudore della fronte che dà pienezza e dignità al proletariato lavoratore e
costituisce il titolo primario del suo riscatto; dall’altro rappresenta la sua condanna
a una fatica distruttiva e avvilente cui è negato ogni equo compenso»
[81]
. Questa rappresentazione, così fortemente divaricata, è forse un po’
impressionistica, ma coglie una deformazione effettivamente intervenuta nel movimento
operaio, con il concorso dell’unionismo sindacale la cui visione del lavoro ha mantenuto
a lungo l’impronta e il filtro del mestiere operaio.
Beninteso, molte buone ragioni portano a mettere
tanto in risalto la faccia positiva del lavoro, in un periodo nel quale la pesantezza
dello sfruttamento è grande, diffusa, e la sopportano ancora molti bambini.
a) Alcune ragioni potrebbero
essere definite endogene. Ci sono quelle vòlte appunto ad esprimere
sostegno ed incoraggiamento al proletariato, negando l’immagine e il destino di una
condizione operaia inaccettabilmente dura ed oppressiva. Altre sono maggiormente legate
alla promessa di un mondo socialista, cioè del ¶{p. 28}risarcimento
creativo che il lavoro libero conoscerà dopo che sarà cessata la coartazione
capitalistica delle sue virtualità, umane e professionali. E ce inoltre l’orgogliosa
proclamazione di una classe di artefici e di produttori che, nella durezza del lavoro di
oggi e nella lotta per quello di domani, vede elementi etici ed anche pedagogici di
motivazione e di gratificazione.
b) Vi sono poi quelle ragioni
che potrebbero essere definite esogene poiché il movimento operaio
non le desume dalla condizione dei lavoratori. C’è per esempio l’esigenza di stabilire,
attraverso il lavoro, un rapporto ben saldo tra destino di classe e mète dell’umanità.
Ma c’è anche un substrato positivistico che «risuona ancora all’unisono con la veduta
[leggi: visione] originale dei filosofi morali e borghesi, degli economisti e dei
teorici borghesi della società in merito ai vantaggi, all’energia e all’illimitata forza
creativa del lavoro colto nella sua forma moderna di industria»
[82]
. C’è altresì la fiducia parallela nell’idea di un progresso scientifico e
tecnico il quale, superato il luddismo ed affermatesi le coalizioni, non può che
favorire l’ascesa del lavoro e delle masse che lavorano. E c’è infine il convincimento
che a sua volta la tenace lotta organizzata per migliori condizioni al lavoro — per il
«progresso del lavoro» — sia un fattore di sviluppo per tutta la società. (È in
riferimento a una tale metamorfosi complessiva dal lavoro al Lavoro che accetterei una
definizione del marxismo come «conclusione di tutta la lunga storia delle filosofie
dell’Homo faber»)
[83]
.
Parallela a questa valorizzazione del lavoro ad
opera del movimento operaio vi è quella degli strati progressisti della borghesia che
appoggiano le prime organizzazioni e rivendicazioni del proletariato, salutandone
amorevolmente ogni passo avanti; o che si fanno alfieri di un’ideologia
dell’industrializzazione la quale annette al lavoro di fabbrica una portata
civilizzatrice, e benefica per il proletariato stesso. (Nel
Manifesto peraltro si escludeva recisamente che l’operaio
moderno possa «elevarsi man mano che l’industria progredisce»)
[84]
.
Ma oltre a quella sociale vi è anche una
valorizza
¶{p. 29}zione etica e perfino estetica del lavoro e dei
lavoratori, ad opera di intellettuali e artisti i quali avevano abbracciato o volevano
sostenere la causa del proletariato, sia denunciando la condizione delle classi
subalterne sia esaltando l’apporto del «quarto stato» con il romanzo sociale o popolare,
con la pittura verista e realista «della schiena curva». Polemica umanitaria e
suggestioni utopistiche davano anch’esse luogo a una produzione collaterale ed
eterodossa di pezzi d’una ideologia già in formazione dentro il movimento operaio. Da
Victor Hugo ad Émile Zola, da Thomas Carlyle a Edmondo De Amicis, da Gustave Courbet a
Pellizza Da Volpedo, il Lavoro campeggia in opere piene di passione (Alcuni autori —
ammette Jaccard — «hanno glorificato il lavoro in maniera così eccessiva da far torto
alla causa dei lavoratori: come non irritarsi per questa specie di culto?»)
[85]
.
Note
[62] Vedilo in La tradizione socialista in Inghilterra. Antologia di testi politici 1820-1852, a cura di G. Bianco e E. Grendi, Torino, Einaudi, 1970, p. 129. Sul disprezzo per il lavoro manuale e le sue radici storiche, cfr. R. Girod, «Atteggiamenti relativi al valore del lavoro», in G. Friedmann, P. Naville, Trattato di sociologia del lavoro, cit., vol. II, pp. 150-4.
[63] «... Onde si ridono di noi che gli artefici appelliamo ignobili e diciamo nobili quelli che null’arte imparano e stanno oziosi...»: T. Campanella, G. Bruno, Opere, Milano-Napoli, Ricciardi, 1956, p. 1080. Cfr. il giudizio di K. Lówith, Da Hegel a Nietzsche, Torino, Einaudi, 1949, p. 425: «Il lavoro si è conquistato con grande lentezza la sua validità sociale».
[64] Ma bisognerebbe aggiungere che in ciò si distingue più di ogni altra la cultura del socialismo francese.
[65] P. Jaccard, Storia sociale del lavoro, cit., p. 318.
[66] Ma lo «Stato del Lavoro», l’equivalenza «Sozialismus ist Arbeit», giungono su quest’impeto fino alla rivoluzione tedesca dove s’incontrano le grandi utopie di un socialismo senza capitale e di un socialismo del capitale. Cfr. di M. Cacciati, Sul problema dell’organizzazione. Germania 1917-1921, in. G. Lukàcs, Kommunismus 1920-1921, Padova, Marsilio, 1972; e Walther Rathenau e il suo ambiente, Bari, De Donato, 1979.
[67] Vedi l’antologia, a cura di G. M. Bravo, Il socialismo prima di Marx, Roma, Editori Riuniti, 1966.
[68] «... Nei paesi più progrediti potranno essere applicati quasi generalmente i provvedimenti seguenti: [...] 8. Eguale obbligo di lavoro per tutti, costituzione di eserciti industriali, specialmente per l’agricoltura»: K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, Torino, Einaudi, 1966, p. 158. Una variante è contenuta nei «Principi del comunismo», testo preliminare steso da Engels, Ibidem, p. 297: «... e) Eguale obbligo di lavoro per tutti i membri della società fino all’abolizione completa della proprietà privata. Formazione di eserciti industriali, specialmente per l’agricoltura».
[70] M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, in Sociologia delle religioni, Torino, UTET, 1976, pp. 107 ss.; W. Sombart, Il borghese, Milano, Longanesi, 1978.
[71] Vedi il saggio storiografico di P. Bairati, Benjamin Franklin e il dio operaio, Milano, Franco Angeli, 1979.
[73] F. Engels, Prefazione alla prima edizione tedesca del 1880, in Il partito e l’Internazionale, cit., p. 38-9. P. Jaccard, op. cit., p. 273, nota la cesura profonda che è intervenuta, parlando di «uno spirito completamente diverso, che avrà la meglio», pur avendo rilevato (p. 261) che «la comune esaltazione del lavoro» unisce il socialismo scientifico e quello utopistico.
[75] P. Rolle, Sociologia del lavoro, Bologna, Il Mulino, 1973, pur non collocandosi in una prospettiva teorica marxiana, fa molto opportunamente notare che «dall’attività non si può giungere al lavoro, a meno che non si comprenda l’attività sotto la forma del lavoro»: vedi alle pp. 116-43 la sua polemica con alcuni contemporanei e la disamina delle opposte ma comuni inclinazioni in proposito di Proudhon e di De Man. Marx, nelle sue polemiche, sottolineava fino alla noia che nei ragionamenti sulla natura e misura del lavoro, occorre partire sempre dalla sua «determinatezza sociale», dal suo «carattere socialmente determinato»: vedi le Teorie sul plusvalore, vol. I, Roma, Editori Riuniti, 1961, pp. 593-4. E nei Grundrisse aveva annotato che, inteso come attività, il lavoro è un tipico «non-valore»: Lineamenti, cit., I, pp. 279-80.
[76] P. J. Proudhon, Che cos’è la proprietà?, Bari, Laterza, 1967, p. 119. Nella voce Leggi, Voltaire aveva scritto: «Quelli che lavorano non debbono privarsi del frutto del loro lavoro per premiare la superstizione e l’ozio» (Dizionario filosofico, Torino, Einaudi, 1950, p. 298). Ma era un philosophe.
[77] Vedi la Difesa del lavoro contro le pretese del capitale, in La tradizione socialista, cit., p. 66.
[78] K. Axelos, Marx pensatore della tecnica, Milano, Sugar, 1963, pp. 70-1, fa notare che «come rivoluzionario Marx pone l’accento sulla negatività del lavoro [giacché] gli uomini che egli vede non si affermano nel lavoro».
[79] Il partito e l’Internazionale, cit., p. 181.
[80] Ibidem, p. 233.
[81] L. Firpo, Il concetto del lavoro ieri, oggi, domani, Fondazione Agnelli, quad. 18, 1977, p. 37.
[82] È quanto viene rimproverato al vecchio Engels — che pure aveva descritto magistralmente le condizioni della classe operaia in Inghilterra — da K. Korsch, Karl Marx, Bari, Laterza, 1969, pp. 208-9.
[83] L. Colletti, intervista a «Rinascita», n. 23, 6 giugno 1978.
[84] K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., p. 116.
[85] P. Jaccard, Storia sociale del lavoro, cit., p. 272.