Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c4
Capitolo quartoIl lavoro come posto
1. Il diritto al lavoro e lo Stato assistenziale
Nel dibattito, nelle polemiche, nella letteratura di
questi anni 70, l’occupazione è il bene inseguito, il valore sociale
emergente. Il lavoro invece è il valore obsoleto, l’oggetto discusso.
Per recuperare un segno positivo, il lavoro deve tramutarsi in posti di
lavoro. Il problema magari è lo stesso, ma i termini sono grandemente cambiati. E intorno a
questi cambiamenti si è rimodellato l’orizzonte stesso della questione sociale. Uno degli
effetti è che in un decennio hanno mutato significato varie definizioni riguardanti il
lavoro come problema, e nuove formulazioni ha avuto la questione stessa dell’occupazione:
basti pensare alla rilevanza assunta da quella che vien chiamata inoccupazione, nei suoi
risvolti sociologici, rispetto alla nozione classica di disoccupazione, anche quella detta
strutturale. Figure nuove sono venute altresì a complicare il quadro connesso
all’occupazione: figure che, se c’erano già, non avevano un volto preciso, non avevano
nemmeno un nome.
A me sembra che questi cambiamenti, l’emergere stesso
del posto rispetto al lavoro, non segnino il temuto deterioramento del problema in chiave
«assistenziale», ma più semplicemente l’affermarsi definitivo del lavoro come
diritto sul lavoro come dovere.
Questo approdo, comune a tutte le società evolute,
capitaliste e socialiste, pare concludere una lunga traiettoria
[1]
. Nel giro di due secoli, quella che era una formulazione utopica classica si è
tradotta in articoli più o meno solenni delle varie Costituzioni. Si può dire che il diritto
al lavoro è diventato un’acquisizione sine qua ¶{p. 150}
non, che è entrata nel diritto positivo dello Stato contemporaneo e
nelle prerogative sociali elementari del cittadino moderno
[2]
. È una promessa che il Politico deve ormai fare al Sociale.
E ciò non può considerarsi tutto effimero o mistificato, anche se gli adempimenti poi fanno
acqua da varie parti. (Salvo che nei paesi socialisti, come vedremo).
Il diritto al lavoro non può dunque considerarsi
simbolico, intanto perché c’è dietro una storia che non porta soltanto l’impronta delle
promesse borghesi o dei successi proletari, ma di entrambi, e inestricabilmente. Potere e
Sviluppo, c’è scritto dietro questo diritto; rivoluzione — dalla Francia del 1848 alla Cina
del 1949 — e benessere. Ma lì in mezzo doveva nascere ancora qualcos’altro, meno platonico
d’un diritto e più impegnativo d’un progetto. Ed è questo soprattutto che oggi condiziona la
situazione.
Fra gli anni ’30 e ’40, quando più ravvicinata parve
misurarsi la sfida tra socialismo e capitalismo, le opposte economie del piano e del
benessere misero a fuoco l’obiettivo del pieno impiego
[3]
. La Grande crisi drammatizzò ed attualizzò il confronto su questa che appariva
un’opzione comune. Anche nel pieno impiego pareva realizzarsi quella traduzione di elementi
utopici in avanzamenti giuridici, che aveva già collegato l’ordine divisato dai
saint-simoniani e l’iniziativa di governo d’un Louis Blanc. Ma il pieno impiego era di più,
è di più, del diritto al lavoro: sia come promessa che come
prospettiva. Infatti reca con sé il presupposto, o la presunzione, che a certe condizioni la
macchina economica possa mettere a frutto e quindi sfruttare tutte le risorse disponibili,
innanzitutto al lavoro. E quelle condizioni vanno da una oculata dinamica dei salari a un
grado avanzato di pianificazione, avendo in comune livelli nuovi di controllo e d’iniziativa
dello Stato nel campo economico-sociale. Il che conferisce al pieno impiego il carattere di
un banco di prova
[4]
.
Ma quella prova non è stata vinta finora in modo
soddisfacente, o durevole, salvo che nei paesi socialisti, dove un’alta partecipazione al
lavoro costituisce peral¶{p. 151}tro un dovere, ancor prima che un diritto,
dei cittadini
[5]
. Nei paesi capitalisti si è avuto più spesso uno scoraggiamento che non una
promozione al lavoro, scoraggiamento indotto vuoi dalla selettività della domanda vuoi
dall’elevamento dei redditi. Cosicché le capacità di mobilitazione della forza lavoro, nel
socialismo e nel capitalismo, sono risultate strutturalmente diverse essendo in proporzione
inversa i rispettivi tassi di attività e di produttività. Tuttavia, a dimostrazione del
fatto che trattasi non solamente di sistemi differenti ma di economie diverse, con proprie
leggi di funzionamento, là è stata realizzata la piena sottoccupazione e qui il pieno
impiego è fallito: fallito come traguardo stabile e come insegna storica del
Welfare State anche laddove si è rimediato alla scarsità di
manodopera con l’immigrazione di stranieri. (Eccezioni nei due campi si possono forse
considerare la Cina e il Giappone, i cui modelli di decollo e sviluppo hanno diversamente
fatto fronte alla pressione demografica, oltre che agli imperativi
dell’industrializzazione).
La piena occupazione, promessa o
esperimento, mito o realtà, ha pertanto posto in un ambito diverso il diritto al lavoro. Ciò
che va tuttavia rilevato, non è il carattere meramente percettivo di quanto ci viene oggi
garantito, e neppure la sua natura capitalistica — un uguale diritto allo sfruttamento — ma
la tensione che si stabilisce fra questa conquista di principio ormai irreversibile e le
aspettative crescenti che si sono via via generate. È una tensione da non sottovalutare.
Infatti il diritto al lavoro (che è forse l’unico obiettivo risultato praticabile di tutto
il socialismo francese dell’Ottocento, per il resto così vuoto, nefasto, rovinoso) non si
presenta più come una parvenza della democrazia borghese ma come una cambiale dello Stato
contemporaneo. Questa assunzione politica dell’impegno modifica la natura dell’onere
contratto, rispetto a quando si prometteva invece che il meccanismo economico avrebbe
ristabilito l’equilibrio fra offerta e domanda, anche per la merce lavoro.
È inutile qui riepilogare le molteplici forme,
dirette¶{p. 152} e indirette, attraverso le quali lo Stato opera ormai per
l’allargamento o la riconversione della base produttiva, per la creazione di posti sia
aggiuntivi che sostitutivi, per la formazione e la riproduzione stessa della forza lavoro,
oltre che per la regolazione dei flussi di manodopera
[6]
. È utile invece, anche senza soffermarsi sugli effetti, ricordare le leve
specifiche che vengono mosse in seguito o insieme
al riconoscimento del diritto al lavoro.
Com’è noto, esso viene accompagnato, a valle, da
crescenti misure di assistenza e di intervento volte ad alleviare ed abbreviare la
disoccupazione frizionale, e a circoscrivere comunque quella esplicita anche mediante
occasioni di lavoro ad hoc. Ma più interessanti e incisive sono senza
dubbio le politiche adottate a monte — sia quelle che sorreggono la domanda di lavoro, sia
soprattutto quelle che contengono l’offerta — quando, a causa di contrazioni congiunturali o
di «risparmi» tecnologici, emergono squilibri sul mercato del lavoro, nella quantità
desiderabile o nella struttura disponibile della forza lavoro, o in entrambe.
Su tale percorso si incontrano spinte spesso
convergenti nei mezzi benché contrastanti nei fini. Da un lato rivendicazioni vittoriose,
conquiste sociali; dall’altro concessioni calcolate ed espedienti politici: il tutto in nome
del diritto al lavoro. Ha questa doppia faccia ad esempio — riduzione dei rischi ma anche
delle tensioni, critica nonché emendamento al sistema — l’intero quadro dell’intervento
pubblico (e privato) contro lo spettro storico della disoccupazione, quello che faceva
scrivere a M. Halbwachs: «Il riflesso degli altiforni danza come un miraggio nostalgico
davanti agli occhi dell’operaio metallurgico condannato alla disoccupazione»
[7]
.
Agli effetti della loro portata sociale, la gamma e la
combinazione delle varie iniziative intraprese dallo Stato è tutt’altro che indifferente:
sia quelle destinate a sostenere l’occupazione attraverso investimenti produttivi,
assunzioni dirette, sgravi contributivi, lavori pubblici ecc.; sia, ancor più, quelle
miranti a ridurre l’offerta di¶{p. 153} lavoro attraverso pensionamenti
anticipati, a procrastinarla prolungando l’obbligo scolastico, o a restringerla col ricorso
a trasferimenti monetari che ne «congelano» determinate quote od aree.
Tutto ciò dà luogo infatti a varie conseguenze, non
sempre volute e a volte inaspettate, soprattutto quando si cerca di ridimensionare il
potenziale delle forze di lavoro e la durata della vita lavorativa: cioè di diminuire gli
effettivi e la ferma di un «esercito di riserva» (se vogliamo continuare a rappresentarlo
così, nulla in contrario) sovente più costoso da mantenere che comodo da impiegare
[8]
. In questo caso si suole parlare di conseguenze «perverse», quale ad esempio
quella di rendere a sua volta più selettiva l’offerta di lavoro, meno elastiche verso il
basso non solo le pretese salariali ma anche le propensioni occupazionali. Ma sono poi così
perverse? Il lavoratore, «scoraggiato» dalla riduzione dell’area e dalla scrematura della
quota di offerenti, reagisce mutando la propria disposizione al lavoro: come si voleva. Solo
che egli non si auto-estromette definitivamente dal mercato del lavoro. E ciò cambia le
forme della partecipazione, provoca una riduzione apparente dei tassi di attività,
incoraggia la moltiplicazione occulta nonché discontinua di spezzoni lavorativi e di
opportunità occupazionali. E questo, non sempre si voleva.
Qualcosa di analogo avviene con il diritto al lavoro.
Esso è un simbolo di eguaglianza nelle opportunità, ma ciascuno lo sente in modo diverso
giacché lo commisura ad una valutazione sociale di sé e delle proprie aspettative, che
risponde all’immagine di classe assorbita in famiglia, desunta dalla società, verificata
nell’esperienza. Cosicché il diritto al lavoro può venire inteso nel senso del diritto ad un
lavoro confacente. Neppure questo si voleva.
Il risultato generale che ne consegue è un mutamento
di scenari; come minimo, cambia lo sfondo del problema.
a) Intanto assumono aspetti
inediti fenomeni già conosciuti, come la
sottoccupazio
¶{p. 154}ne e la
sovraoccupazione, all’apparenza opposti ma che non indicano più di
per sé una carenza di domanda e una saturazione dell’offerta, quanto piuttosto un intreccio
nuovo di stimoli economici e di motivazioni sociali. Le leggi economiche che hanno
tradizionalmente regolato il mercato del lavoro non danno conto, ad esempio, dei
comportamenti indotti dai meccanismi di integrazione dei redditi, utilizzati dall’«operatore
famiglie»
[9]
, né dei «sistemi delle garanzie»
[10]
giuridico-normative legate al posto di lavoro: ma è con essi che l’offerta di
lavoro può rendersi flessibile oppure rigida; che la precarietà può non tradursi
nell’emarginazione; che le figure sociali paiono scomporsi invece di riprodursi; che la
questione del lavoro come posto si sminuzza nelle occupazioni e con ciò a volte si
sdrammatizza perché si complica il quadro degli interessi in contesa.
Note
[2] P. Jaccard, Storia sociale del lavoro, Roma, A. Armando, 1963, fa rilevare che il diritto al lavoro viene fatto discendere dal diritto all’esistenza perché, da S. Tommaso a Locke e da Montesquieu al decreto del 25 febbraio 1848, il lavoro viene considerato il miglior modo per assicurarsi l’esistenza: cfr. le pp. 215-26 e 277-88. Vedi anche la versione corporativa: «Oggi, che il lavoro assurge a dovere sociale, lo Stato non esita a riconoscere il proprio compito di garantire il diritto al lavoro sempre», F. Vito, Politica sociale e psicofisiologia del lavoratore, in F. Bottazzi e A. Gemelli (a cura di), Il fattore umano del lavoro, Milano, Vallardi, 1940, p. 782.
[3] Cfr. di AA.VV., Sviluppo e ristagno, Firenze, La Nuova Italia, 1977; F. Pollock, Teoria e prassi dell’economia di piano, Bari, De Donato, 1973; e la recentissima ed opportuna traduzione di un classico come L’economia della piena occupazione, Torino, Rosenberg & Sellier, 1979, di cui erano autori M. Kalecki, T. Balogh e altri, con un’importante introduzione di F. Caffé.
[4] Questo era il senso del testo più importante e noto: W. A. Beveridge, Relazione su «L’impiego integrale del lavoro in una società libera», Torino, Einaudi, 1948. Cfr. anche M. Kalecki, Aspetti politici della piena occupazione (1943), Milano, Celuc, 1975.
[5] Scriveva A. C. Pigou, Capitalismo e socialismo, Torino, Einaudi, 1939, p. 51, che la disoccupazione non solo «è il malanno più grave del capitalismo» ma al tempo stesso è «una delle più forti ragioni che dispongono in favore di una ricostruzione socialista». Il successivo piano del conservatore Beveridge teneva ben presente questa eventualità.
[6] Se a questo indirizzo occorresse una data di nascita simbolica, proporrei il noto saggio di J. M. Keynes, La fine del laissez-faire (1926), ora in Esortazioni e profezie, Milano, Il Saggiatore, 1968, p. 243, dove scrisse: «L’importante per il governo non è fare le cose che gli individui stanno già facendo, e farle un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare le cose che al presente non vengono fatte per niente».
[7] M. Halbwachs, Psicologia delle classi sociali, Milano, Feltrinelli, 1963, p. 89.
[8] Vedi un esame dei paesi europei, in W. Dreihuis, Labour market imbalances and structural unemployment, in «Kyklos», n. 4, 1978, pp. 638 ss.; e in C. De Francesco, Labour Force, Unemployment, Employment: Recent Trends in Europe, Institut d’Éducation, Fondation Européenne de la Culture, Parigi, 1979.
[9] Cfr. la rassegna di Laura Balbo, Un «caso» di capitalismo assistenziale: la società italiana, in «Inchiesta», n. 28, luglio-agosto 1977, pp. 3 ss.
[10] L. Gallino, Politica dell’occupazione e seconda professione, in «Economia & lavoro», n. 1, gennaio-marzo 1975, p. 82.