Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c4
Queste e altre misure, che a volte si cumulano fra
loro e che ovviamente si combinano con la classica indennità di disoccupazione, hanno quasi
sempre intenti sacrosanti e costituiscono altrettanti pilastri dell’edificio chiamato
legislazione sociale. Ma l’uso e il tempo ne hanno stravolto i significati specifici, e
rivelano oggi la loro funzionalità complessiva. L’intrico che ne è sortito sarà infatti
selvaggio, ma non è una macchina impazzita, così come non è neppure una manovra tutta
calcolata
[22]
. È un terreno di convertibilità fra lavoro, posto e
sussidio. Una convertibilità manipolata più che regolata, giacché in nome del
diritto al lavoro fini e mezzi si mescolano, dando luogo a uno scambio che è
equivalen
¶{p. 159}te forse per l’Erario pubblico ma che è senz’altro
ineguale per la bilancia sociale.
E questo non è un connotato della solita Italia
pasticciona, cioè conflittuale, scombinata e latina. Anche nei paesi dove ai governi riesce
meglio il fine tuning delle politiche economiche, anche lì non tutte le
provvidenze sono ben agganciate ai rispettivi requisiti, anche lì si tende a far piovere
elemosine magari lesinando meno che da noi; e pure lì le strumentazioni, che sono
efficienti, non bastano a evitare una congerie di esiti, anche contraddittori. Si parta
dall’esigenza di flessibilizzare oppure di compartimentare l’offerta di lavoro, di
differirla o di restringerla (o di incrementarla ad
hoc: può capitare), gli effetti si giocano sempre ed
ovunque su quella convertibilità manipolata.
Ciò non significa di per sé che, dal punto di vista
del possibile fruitore, un reddito da lavoro sia sempre sostituibile o facilmente
rimpiazzabile con un reddito da trasferimento
[23]
. Significa però che salario e sussidio stanno diventando intercambiabili per lo
Stato investitore-trasferitore. È così che, per le modificazioni in tal modo introdotte nei
rapporti fra domanda e offerta di lavoro sui vari mercati, che la segmentazione già tende a
rendere assai poco comunicanti, ne escono atteggiamenti dei lavoratori, diversi da quelli
attesi, a parità di spesa sociale. Su questo punto conviene forse insistere. Siccome non
siamo più da nessuna parte ai tempi della Poor
Law, non vi è la semplice monetizzazione di un’inattività forzosa e
miseranda, da mantenere a livello minimo di sussistenza
[24]
. Oggi una pensione media d’invalidità data al posto di un lavoro costa
all’incirca alla collettività quanto lo sgravio accordato agli imprenditori per ciascun
posto di lavoro attivato nel Sud. Come costo, paiono misure equivalenti e l’intento può
essere analogo, tant’è che vanno sotto la denominazione di «ammortizzatori sociali»; ma c’è
una profonda dissimmetria negli effetti, a parte poi chi manovra le varie leve di questo
scambio. Il fatto è appunto che grazie allo Stato le moderne indennizzazioni per il mancato
lavoro sono diventate l’un nell’altra convertibili, pur¶{p. 160} rimanendo
difformi, da quando non consistono più soltanto nel classico sussidio per il lavoro perduto,
che aveva sostituito o integrato l’arcaica legislazione sulla povertà ed
indigenza.
Un lavoro oppure un posto: un lavoro o almeno un
sussidio. È qui che si fa labile il confine tra Stato sociale e Stato assistenziale. E nel
giudicare se si è al di qua o al di là, non dovremmo basarci soltanto sulla massa dei
trasferimenti di reddito, giacché l’azione dello Stato, per questi canali, penetra
profondamente nei meccanismi riproduttivi e produttivi: della forza lavoro, del capitale,
della società.
Questo scambio, in sé, non è né perverso né logico. (A
sinistra, pare non si possa più fare a meno di dividersi fra chi ritiene tutte perverse le
conseguenze del capitalismo, e chi tutte logiche). È semplicemente uno scambio
necessitato. Esso si rivolge — con forme quanto corporativamente
pluralistiche, lo dicano i sociologi politici — tra attori quali lo Stato democratico ed il
movimento operaio organizzato, che nei paesi a capitalismo ormai più che maturo non paiono
padroneggiare bene la materia: almeno dopo il punto di svolta fra anni ’60 e ’70. In questo
scambio che si svolge entro il sistema politico, i sindacati dei lavoratori e i partiti di
sinistra svolgono un ruolo non secondario, se non altro perché quasi dappertutto
l’assistenza sociale alla disoccupazione e il sostegno economico dell’inoccupazione vengono
finanziati in parte cospicua con i soldi degli occupati (lo «Stato fiscale» è forse più
ingiusto che esoso…
[25]
), i cui rappresentanti entrano nella previdenza, che è Stato, anche quando non
entrano nello Stato. Anzi, proprio il fatto che le organizzazioni dei lavoratori siano
presenti negli organi di gestione preposti e vi mettano naso e bocca, anche ma non sempre
per contrastare le distorsioni che ne derivano alla logica previdenziale
[26]
, legittima la manovra di convertibilità sebbene la complichi, così come dilata
il diritto al lavoro oltreché rafforzarlo.
È pertanto strano che il movimento operaio, dopo aver
fatto del lavoro un’ideologia, faccia una demonolo¶{p. 161}gia del posto,
dichiarando assistenziale ogni via che non produca occupati permanenti
— beninteso, in lavori produttivi — e ogni condizione che faccia sentire il diritto al
lavoro più del dovere di lavorare. («I giovani» che rifiutano il lavoro o che cercano
solamente il posto: quante volte s’è letta e sentita in questi anni una simile menzogna,
dissennata quasi come quell’altra che vedeva le giovani generazioni in rotta col «regime
democratico», o contrapporsi al «sistema democratico», mentre si tratta più schiettamente di
ammettere che tra queste e il movimento operaio è insorta ultimamente una incomprensione
reciproca assai grave
[27]
).
Stato assistenziale, logica dell’assistenzialismo: ma
bisogna andarci piano, perché questa imputazione ricorrente rimbalza poi su tutte le teste e
finisce per colpevolizzare chiunque non sia ostinatamente o virtuosamente rimasto fuori da
qualsiasi istituzione. È che questo Stato democratico del capitalismo, con la spocchia o il
fiatone della sfida allo Stato autoritario del socialismo, si è dato troppe arie e sta
mandando le cambiali in protesto. Un tempo doveva solo pensare all’approvvigionamento della
forza lavoro, ma da quando è divenuto Stato sociale, non basta neppure che ne regoli i
flussi: deve farsi carico anche del suo stoccaggio, che sia selettivo
ed elastico, che la renda pronta all’uso senza lasciarla lì in attesa davanti ai cancelli
del sistema produttivo. Ciò richiede per l’appunto che lavoro, posto e sussidio si possano
convertire e compensare a vicenda, almeno entro prospettive temporali a breve. E questa non
è che la risultante di istanze e di politiche assolutamente pluralistiche.
Una risultante necessitata, dicevamo. Diciamo anche
comoda sebbene costosa, capitalistica eppure popolare. Non sono forse qui ammonticchiati i
miti e i detriti del pieno impiego capitalistico, questa quadratura del cerchio fra il
lavorare tutti e il risparmiare lavoro, fra l’estensione del rapporto salariale e la
riduzione di numero dei salariati, fra il tasso di produttività che cresce e il tasso di
attività che cala?
All’opposto, la critica
all’assistenzialismo inteso co¶{p. 162}me
sottoutilizzo dell’offerta di lavoro per congelamento/scoraggiamento/dirottamento, si basa:
innanzi tutto sulla convinzione che sia possibile, dal momento che è giusto, uno sviluppo
indefinito delle forze produttive il quale metta in valore (o, per male che vada, in
plusvalore) tutto il potenziale di lavoro esistente; nonché sul modello emendato e sublimato
di pieno impiego capitalistico, cioè su un socialismo la cui piena sottoccupazione diventi
occupazione competitiva, oltre che piena, a forza di (ulteriore) progresso
tecnico-scientifico, e soprattutto di partecipazione operaia e di pianificazione
democratica. E perciò non si accetta — ma questo è comprensibile tanto sul piano politico
quanto su quello umano — che alla relativizzazione statale del surplus
nell’offerta di lavoro (sottoccupazione poco produttiva nel socialismo finora realizzato e
molto mobilitabile nel capitalismo finora conosciuto), si risponda dalle masse, sia qui che
là, con un diritto sentito più del dovere.
Ma non capita mai che il problema del lavoro sia
soltanto etico od esclusivamente economico. È un problema sociale e politico sempre. Nella
fattispecie qui affrontata, esso sembrerebbe porsi nei seguenti termini. All’insegna del
pieno impiego si persegue una riduzione preventiva dell’area degli aventi diritto al lavoro,
ma seguendo questa strada si finisce poi per allargare l’area degli aventi diritto al quasi
lavoro, tanto più in un paese come l’Italia, dov’è endemica la «fame di lavoro». (D’altra
parte, un diritto che rimanga sulla carta non stimola all’adempimento del
dovere…).
Tuttavia il problema vero è un altro e più ampio.
L’abbiamo richiamato più volte. Stilizzando, lo si potrebbe definire così. In un capitalismo
come quello contemporaneo, dove i tassi di sviluppo declinano, vengono alimentate
ancor sempre le disponibilità individuali a lavorare, ma in un contesto che scoraggia
ormai la propensione sociale al lavoro.
Che il lavoro si allenti come dovere quanto più si
consolida come diritto, questa è soltanto la conseguenza. La causa è invece che le ragioni
dell’economia offrono al singolo opportunità e lo spingono a comportamenti,
a¶{p. 163} modi di vivere, che divergono da quei modi di pensare, da quegli
atteggiamenti collettivi che vengono o venivano sostenuti dall’ideologia del lavoro.
Famiglie, ceti e l’intero sistema sociale sono percorsi da una tale divaricazione, non
facilmente componibile. Forse questa è proprio una contraddizione reale, non di quelle
dialettiche così elegantemente risolvibili sulla carta
[28]
. Ma siccome viviamo in una formazione economico-sociale che sopravvive piuttosto
bene alle proprie contraddizioni — certe paiono addirittura cementarla anziché minarla — e
visto inoltre che s’incontrano qui bisogni opposti del sistema e della gente, vediamo se non
vi sia il germe di qualche trasformazione involontaria, da sospingere. Purché non sia «la
nuova sudditanza e la nuova libertà» — la crescente conformità nella vita di lavoro
risarcita da una maggior autonomia nella vita privata — di cui parlavano i profeti
dell’industrialismo quando il pieno impiego ne era ancora un vessillo
[29]
.
2. La rigidità e la mobilità della forza lavoro
A. Shonfield, al quale dobbiamo un’acuta disamina
del capitalismo contemporaneo
[30]
, ha dichiarato di recente: «I proletari dimostrano la
stessa sicurezza e la stessa immobilità della borghesia: la gente possiede la casa, il
lavoro, e non si muove. — Ed ha aggiunto: — Anche in Svezia, che ha il sistema migliore
di riaddestramento dei lavoratori, la mobilità non c’è più. La vischiosità del fattore
umano è un fatto nuovo e universale, nasce dall’economia socialdemocratica, che noi
abbiamo creato per ragioni umane eccellenti»
[31]
.
Il fenomeno appare vistoso anche in Italia, dove
nel giro di un decennio il grosso degli operai si è reso indisponibile nei confronti dei
movimenti, sia dentro le imprese ed i loro reparti, sia fra le imprese sul territorio.
Ne sono venute rimostranze indispettite e a volte reazioni rabbiose da parte dei
governanti e, naturalmente, degli imprenditori. Ma lagnanze e deprecazioni amare si sono
sentite anche nei
¶{p. 164} partiti di sinistra e nei sindacati dei
lavoratori. Lagnanze contro il lavoro inteso come posto, qualcosa da cui il proletariato
e i giovani non dovrebbero farsi contaminare giacché è poco più d’una occupazione con
produttività zero.
Note
[22] Cfr. un’opera che affronta il problema senza pregiudizi: AA.VV., Sussidi, lavoro, Mezzogiorno, a cura di A. Becchi Collidà, Milano, Franco Angeli, 1978. Vedi le schiette conclusioni al recentissimo lavoro di E. Reyneri, La catena migratoria, Bologna, Il Mulino, 1980.
[23] Come rileva A. Becchi Collidà, nel testo più interessante finora uscito in materia, Politiche del lavoro e garanzia del reddito in Italia, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 23.
[24] Non era certo in questo senso che M. Salvati, Sviluppo economico, domanda di lavoro e struttura dell’occupazione, Bologna, Il Mulino, 1976, p. 82, parlava di «tendenze all’inoccupazione assistita».
[25] Come nota J. O’ Cónnor, La crisi fiscale dello Stato, Torino, Einaudi, 1977, pp. 236-46.
[26] Cfr. A. Forni, Il pianeta previdenza, Roma, De Donato, 1979, pp. 49-66.
[27] Istituto Gramsci, La crisi della società italiana e le nuove generazioni, Roma, Editori Riuniti, 1978, p. 20. Cfr. inoltre, dello stesso editore: I giovani e la crisi della società, Roma, 1976; I comunisti e la questione giovanile, Roma, 1977.
[28] Su questo punto ha perfettamente ragione, sarcasmi compresi, L. Colletti, Intervista politico-filosofica, Bari, Laterza, 1974, pp. 107-13.
[29] C. Kerr, J.T. Dunlop, F. H. Harbison, C. A. Myers, L’industrialismo e l’uomo dell’industria, Milano, Franco Angeli, 1969, p. 360.
[30] A. Shonfield, Il capitalismo moderno, Milano, Etas Kompass, 1967.
[31] A. Levi, È inceppata la macchina di prosperità, in «La Stampa», 3 dicembre 1978.