Il lavoro come ideologia
DOI: 10.1401/9788815410511/c4
Non si deve infine ignorare che anche la domanda
di lavoro tende a farsi più selettiva, e ciò condiziona la qualità stessa dell’offerta
(oltre alla quantità), e la distribuzione fra occupazione regolare ed irregolare
[80]
. L’aumento di quella irregolare corrisponde anche a processi di
disinvestimento in manodopera e di investimento in macchinari, che rispondono col
risparmio di lavoro
¶{p. 179} ai rincari e al rafforzamento
dell’occupazione regolare. Questa scappatoia, che irrigidisce a sua volta i segmenti e
le aree già esistenti nel mercato del lavoro, esprime un’impasse
nei rapporti di forza. La classe operaia non riesce, non può difendere l’occupazione
fino a strappare una specie di quota system generalizzata, un
imponibile di manodopera industriale che scardini i parametri della produttività e della
competitività: soluzione che richiederebbe quanto meno quella chiusura delle frontiere
su cui sempre sorvola chi bellamente parla di cambiare il modello dei consumi. Dal canto
suo, il ceto imprenditoriale non riesce, non può più far funzionare la «curva di
Phillips» fino a far moderare le pretese agli occupati e agli occupabili,
come e dove servirebbe, attraverso il
blocco delle assunzioni ed i licenziamenti in massa
[81]
. La situazione è insomma ad uno stallo, e non pare facilmente sanabile
giacché non si vede come si possano trovare sbocchi utilizzando elementi di socialismo
reale o di capitalismo classico, dopo che le ricette keynesiane hanno portato più o meno
a questa soglia tutti quegli Stati che le hanno usate, bene o male che fosse. Come anzi
dimostra l’andamento del processo inflazionistico internazionale, la politica economica
si rivela «impotente» come strumento specifico
[82]
l’esigenza capitalistica d’avere una quota di senza lavoro che non oscilli
eccessivamente intorno alla media di lungo periodo del tasso di disoccupazione, dà luogo
ormai ad una manovra continua che perde forza cogente, e persino efficacia dimostrativa,
per quanto virtuosamente venga condotta. Neppure forzando per una politica espansiva, i
cui margini paiono oggi erosi dalla crisi strisciante del capitalismo sviluppato, il
movimento operaio può pensare di ottenere un allargamento bastevole (e una composizione
padroneggiabile) della domanda di lavoro. E con gli attuali vincoli posti dalla forza
lavoro, quella già regolarmente occupata ma anche quella che si offre sul mercato, le
maggiori imprese vengono comunque spinte a conseguire traguardi di produzione
solo attraverso incrementi di produttività o riduzioni di
manodopera. La stessa modifica della combinazione capitale-lavoro
è¶{p. 180}condizionata a sua volta dai flussi di mobilità che
l’organizzazione sociale detta alla forza lavoro, anche al di là del potere sindacale
[83]
.
Cosicché al funzionamento del mercato del lavoro
sembrano mancare sia la flessibilità spontanea sia i mezzi coattivi, mentre su di esso
sembrano pesare, da un lato la focalizzazione sul posto che sopravviene nei periodi di
depressione, e dall’altro la tensione sul salario che segnala l’approssimarsi del pieno
impiego
[84]
.
Regolare i mercati del lavoro
maneggiando gli strumenti canonici è divenuto difficile come gestire i sistemi politici
rispettando le regole democratiche: forse perché son stati gravati entrambi dai vincoli
delle proprie promesse. In queste condizioni, far incontrare in tempo utile i vari e
crescenti segmenti ed aree (e spezzoni e compartimenti) della domanda e dell’offerta di
lavoro, è arduo come cercare di incastrare tra loro due pettini con dentatura diversa.
L’impressione è quella dell’ingovernabilità. Ciò non vuol dire che non finiscano per
incontrarsi ed assestarsi, ma assai più spesso spontaneamente che non passando per i
meccanismi preposti al collocamento della manodopera. Beninteso, lasciando inutilizzata
una quota dell’offerta, specie nelle aree ove la disoccupazione cronica prevale
sull’inoccupazione giovanile.
Gli elementi di rigidità istituzionale vengono
però aggirati, sia individualmente che collettivamente, grazie alla mobilitazione di
riserve lavorative occulte, abbastanza consistenti
[85]
. In anni di «rifiuto del lavoro», questo è uno dei fenomeni che più
avrebbero dovuto fare riflettere, ma purtroppo è stato sottovalutato dal movimento
operaio oltre che esser giunto inatteso per tutti. (Specie per chi si fermava all’annosa
polemica sul patologico declino — in Italia — dei tassi di attività della popolazione
[86]
e sul corrispettivo aumento del fenomeno della marginalità nell’occupazione
e nell’economia del paese
[87]
.)
La maggior partecipazione al lavoro è in parte
cospicua dovuta all’offerta addizionale di chi accetta occupazioni irregolari anche
perché non è o non po¶{p. 181}trebbe o non vorrebbe formalmente trovarsi
sul mercato del lavoro
[88]
. È il caso innanzi tutto dei molti giovani e ragazze che continuano gli
studi; poi di una parte dei lavoratori già occupati; e anche di non poche casalinghe e
pensionati. Quest’offerta è più visibile, consistente e composita che in passato, e
rispetto al passato — quando pareva che il lavoro marginale dovesse ormai diminuire
[89]
— è meno malpagata, meno disarmata, meno disponibile.
La mobilitazione di tali riserve occulte, che si
aggiungono alle leve regolari, non è solamente una risposta di adeguamento delle
famiglie alla crisi degli anni ’70 e, per quanto riguarda l’offerta femminile, l’effetto
della rimozione di ostacoli sociali e culturali al lavoro della donna
[90]
. È anche il diritto al lavoro messo alla prova, il rifiuto del lavoro
revocato in dubbio; è l’ennesima sfida al pieno impiego. Ma non solo. È pure una
risposta al mutamento e al successivo stallo nei rapporti di forza
capitale-lavoro.
È una risposta inattesa, che smentisce le
previsioni ottimali e gli svolgimenti lineari del rapporto fra lotta operaia e sviluppo
capitalistico, anche se come risposta non è neppure tutta nuova. Lavoro irregolare ce
n’era già prima. Ora ne è aumentata la consistenza, soprattutto a motivo di quello
giovanile, e si parla dello sviluppo di un’economia parallela che nel passato italiano
già contava parecchio. (Mi chiedo se ce lo ricordiamo ancora il mondo del
Calzolaio di Vigevano
[91]
, se teniamo presente il lavoro a domicilio nell’orologeria svizzera e
nell’elettronica giapponese).
Rispetto a un tempo, grazie al metro e ai vincoli
che le conquiste sindacali e la legislazione sociale hanno stabilito, lo stesso lavoro
nero è meno deprezzato benché sia proprio per ciò più condannabile. E, sebbene odioso,
non è tutto così nero. Il fatto che non lo negozi il sindacato non significa di per sé
che contrattazione vi sia. A volte c’è una reciproca convenienza o un adeguamento
passivo alle deroghe, rispetto alle garanzie del contratto e della legge; a volte una
deroga alle garanzie è il punto d’incontro fra domanda ed offerta
[92]
. In molti¶{p. 182} casi non è per ipocrisia ma per esattezza
che va chiamato lavoro non istituzionale. Anche per ciò, non si deve credere che questa
forza lavoro, essendosi dovuta offrire o avendo dovuto accettare un rapporto di lavoro
instaurato in modo irregolare, accetti allo stesso modo — al giorno d’oggi — condizioni
di trattamento altrettanto fuorilegge: non è infrequente, nell’«economia sommersa», il
caso di imprenditori che pagano al lavoratore l’intero salario dovuto, ma a spese della
previdenza e del fisco.
Non si sta qui ridipingendo la facciata di uno
sfruttamento spesso ripugnante: si sta cercando di parlarne senza infingimenti (come
bisognerebbe fare dell’altra piaga, neanche questa tutta italiana, del lavoro minorile).
Purtroppo libri come quello di G. Fuà
[93]
, adducendo una spiegazione italianissima a fenomeni internazionali come la
crescita del lavoro disperso-sommerso, hanno spinto i sindacati a considerarne
unicamente la patologia, con l’amor proprio ferito perché l’autunno caldo
non è bastato a liquidare la piaga; con il rifiuto indignato di una immagine
da organizzazione degli occupati
[94]
; e con una attonita incomprensione per i termini dell’eventuale interesse da
parte del lavoratore. Trascurare questo interesse significa accrescere l’ingovernabilità
del mercato del lavoro, oltreché ignorare le motivazioni al lavoro non istituzionale
[95]
. Ed è chiaro che nessuno riuscirà neppure lontanamente a regolarizzare
lavori di cui non ammette l’esistenza di fatto e la possibilità di
contrattazione.
4. Il modello del lavoro stabile a tempo pieno
Così lodato in genere per il suo talento
pragmatico, il movimento sindacale si comporta come il difensore di principio del lavoro
con posto stabile garantito. Pochissime smagliature subisce questa intransigenza forse
comprensibile, questa inflessibilità che temo alimenti all’opposto invidia e ripulse
verso l’occupazione istituzionale, almeno in chi cerca una maggior tutela
contrattua¶{p. 183}le senza con ciò desiderare necessariamente un lavoro
per tutto il giorno, tutti i giorni e le stagioni, tutto l’anno, fino alla meritata
pensione.
La condanna del lavoro inteso come posto si
accompagna dunque a una politica contraddittoria giacché premia il Lavoro vero
e penalizza i lavori
qualsiasi: infatti, se qualsiasi
occupazione non rispondente al modello di lavoro a tempo pieno viene giudicata come una
sottoccupazione precaria — sia essa stagionale, saltuaria, a tempo parziale, a tempo
determinato — non si potrà certamente comprendere perché vi siano dei lavoratori che
l’accettano, non dico che la preferiscono, senza esservi costretti dalla disperazione o
dal ricatto: trovandosi cioè nel medesimo stato di libertà relativa in cui vive chi
spontaneamente entra alla FIAT tutte le mattine. E se non si comprende ciò, si riesce
ancor meno a capire perché questi lavoratori affrontino discontinuità e precarietà
benché molti di loro nutrano poi in prospettiva quella medesima seppur differita
aspirazione alle garanzie, che tutti parrebbero coltivare. Questa può essere una tattica
del lavoro entro una strategia del posto, d’accordo. Ma perché trattarla come la ricerca
del quasi-lavoro in vista di un non-lavoro?
Davvero, in questa vicenda di cui l’animoso quanto
inconcludente dibattito sul part-time
[96]
è il rivelatore più significativo, il movimento sindacale si comporta con
una fedeltà ammirevole benché fuor del dovuto al modello del lavoro/posto a tempo pieno;
ma, anche, come se l’obiettivo del lavoro regolare a tutti dipendesse, ancor più che
dalle poderose lotte per l’occupazione, dalla strenua difesa di quel modello. A volte si
guarda anche con scarsa simpatia a quei giovani che si mostrano disposti a lavori magari
improduttivi, ad attività futili, a servizi vari, pubblici o privati, per i quali non
manca una domanda che è anzi in crescita
[97]
. Ciò rinvia a quella concezione economico-struttural-proletaria di cui
abbiamo già parlato a proposito del lavoro produttivo e improduttivo: concezione la
quale, privilegiando il valore sull’utilità e ricalcando in ciò un canone classico del
capitalismo, porta a legittimare maggiormente l’operaia
¶{p. 184} che per
tutto il giorno fabbrica soprammobili assolutamente inutili ma vendibili, dello studente
che per mezza giornata intrattiene il figlio incustodito di genitori che
lavorano.
Note
[80] Ad esempio S. Bologna, La tribù delle talpe, Milano, Feltrinelli, 1978 (già in «Primo Maggio», n. 8, 1977), nota giustamente che il «sistema del decentramento produttivo ha permesso di assorbire dentro il rapporto salariale una forza-lavoro mista», p. 33. (Ne parla tuttavia in termini che, senza offesa, ricordano l’aneddoto sull’ottimista, il pessimista e la bottiglia, o mezza piena o mezza vuota. C’è tutta una sinistra che si divide abbastanza equamente fra quelli secondo i quali il capitale non può che aiutarci; e quelli secondo cui ci frega sempre).
[81] Vedi, a cura di C. Crouch e A. Pizzorno, Conflitti in Europa (sottotitolo «Lotte di classe, sindacato e Stato dopo il ’68»), Milano, Etas Libri, 1977; D. Albers, W. Goldschmidt, P. Oehlke, Lotte sociali in Europa 1968-1974, Roma, Editori Riuniti, 1976; e anche, a cura di I. Schleifstein e T. T. Timofeev, Sapadnaia Evropa: classovie boi proletariata, Moskva, Progress, 1978.
[82] S. Biasco, L’inflazione nei paesi capitalistici industrializzati, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 117-20; ma vedi tutto il capitolo «L’ascesa dei salari e la nuova inflazione», pp. 101 ss.
[83] Cfr. le riflessioni di S. Chiamparino, Capitale, lavoro e curva di Phillips, in «Quaderni di Rassegna sindacale», n. 42, maggio-giugno 1973, pp. 77-8.
[84] Questa situazione porta E. Tarantelli, Il ruolo economico del sindacato, cit., pp. 128-30, a parlare di un «non mercato del lavoro».
[85] Il modello delle risorse mobilitabili non è molto diverso da quello classico, salvo per la componente specifica giovanile: cfr. G. D. N. Worswick, in L’economia della piena occupazione, cit., p. 91. Molto simile è il modello proposto da D. M. Gordon nell’«Editor’s Supplement» al volume da lui curato, Problems in Politicai Economy: An Urban Perspective, Lexington (Mass.), D. C. Heath, 1977.
[86] Il dibattito è stato raccolto da P. Leon e M. Marocchi in Sviluppo economico italiano e forza-lavoro, Padova, Marsilio, 1973.
[87] I testi principali: L. Ferrari Bravo, A. Serafini, Stato e sottosviluppo, Milano, Feltrinelli, 1972; G. Mottura, E. Pugliese, Agricoltura, Mezzogiorno e mercato del lavoro, Bologna, Il Mulino, 1975; P. Calza Bini, Economia periferica e classi sociali, Napoli, Liguori, 1976.
[88] Cfr. D. Morse, Il lavoratore periferico, Padova, Marsilio, 1974, pp. 99-120: «Le fonti dell’offerta dei lavoratori marginali».
[89] Sull’andamento di lungo periodo del lavoro nero, precario e discontinuo in Italia cfr. G. Del Bufalo, La struttura dell’occupazione nell’industria e il mercato del lavoro in Italia, in G. Somogy (a cura di), Forze di lavoro, sviluppo economico e occupazione in Italia, Milano, Franco Angeli, 1977.
[90] Si ha l’impressione che la situazione sia rapidamente evoluta rispetto alle stesse tendenze, così come le descriveva E. Sullerot, La donna e il lavoro, Milano, Etas Kompass, 1969. Vedi la bella ricerca di F. Piselli, La donna che lavora, Bari, De Donato, 1976; e anche A. Ardigò, P. Donati, Famiglia e industrializzazione, Milano, Franco Angeli, 1976.
[91] L. Mastronardi, Il calzolaio di Vigevano, Torino, Einaudi, 1962. Ma c’erano già anche i pullulanti «bassi» di Napoli, e le occhialerie alla macchia del Bellunese, e le «boite» torinesi, e gli «stanzoni» di Prato, ecc. ecc.
[92] Forse proprio questo elemento fa affermare a B. Contini, Lo sviluppo di un’economia parallela, Milano, Comunità, 1979, p. 132, che il lavoro irregolare alimenta o salvaguarda il «consenso» sociale; ma forse sarebbe più corretto considerarlo un fattore di stabilizzazione, a breve.
[93] G. Fuà, Occupazione e capacità produttive: il caso dell’Italia, Bologna, Il Mulino, 1976. Le tesi di fondo è che «il lavoro alla macchia, il lavoro imboscato, piuttosto che l’inattività vera e propria, sembra essere l’esito prevalente in Italia» del tentativo «di darsi un sistema di costi del lavoro corrispondente ad un livello di sviluppo superiore» a quello italiano, p. 42. La sensazione è che questa tesi non venga sufficientemente suffragata dai lavori dell’Istao che Fuà dirige: mi riferisco a G. Cantillo, R. Schiattarella, Costo del lavoro e occupazione, Bologna, Il Mulino, 1978.
[94] L’insuccesso registrato nell’organizzazione dei disoccupati, decisa dai congressi del 1977, può aver contribuito ad accentuare la suscettibilità della CGIL-CISL-UIL verso questa rappresentazione.
[95] Censis, L’occupazione occulta, Roma, Tipolitografia Edigraf, 1976.
[96] Sul settimanale della CGIL, «Rassegna sindacale», la discussione è proseguita da giugno a dicembre del 1978 (nn. 27, 30, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42 e 46) scadendo a volte nell’ideologia, come ha notato A. Becchi Collidà nel suo intervento sul n. 42. Nella bella ricerca di G. Barile, L. Zanuso, Lavoro femminile e condizione familiare, Milano, Irer, maggio 1979 (poligrafata) c’è un dato che dovrebbe far riflettere: soltanto 98 donne sulle 2.002 interpellate hanno dichiarato di preferire un lavoro a tempo pieno per tutto l’anno e tutta la vita. Dire che è colpa del capitalismo è come dire che è colpa dell’azoto atmosferico.
[97] Vedine una casistica in Lavorare stanca, cit., p. 11, dove si fa notare che, «sotto la forma di una costante precarietà, si può parlare di un rapporto continuato dei giovani col lavoro». Cfr. anche i risultati della ricerca di A. Palmonari, L. Pombeni, B. Zani, Identità sociale e identità professionale al termine della scuola media superiore, in «Studi di sociologia», n. 1, gennaio-marzo 1978, dove si afferma (p. 122): «Non è vero che i giovani rifiutano il lavoro: lo percepiscono invece sia in modo disincantato e realistico, come il mezzo indispensabile per vivere, sia in modo costruttivo, come il mezzo per definire una propria identità sociale».