Character skills e didattica digitale
DOI: 10.1401/9788815374615/c2
Come abbiamo anticipato, il disegno
della nostra ricerca prevedeva l’approccio a scuole non particolarmente problematiche sotto il
profilo della dotazione tecnologica, essendo l’indagine interessata al nesso tra DAD, SES e
riflessività al netto degli impedimenti legati alla base materiale. Essi avrebbero comunque
potuto palesarsi, ma non avrebbero dovuto costituire il problema principale. È dunque
conseguente che le narrazioni dei dirigenti ci abbiano consegnato
¶{p. 48}la
rappresentazione di una diffusa preparazione sul versante strettamente tecnologico all’interno
della scuola, per cui nelle scuole, indipendentemente dalla filiera, sono presenti le risorse
di base, quali piattaforme, email per gli studenti, registro elettronico, sistemi di
comunicazione online con le famiglie, dispositivi adeguati per la connessione, animatori
digitali di supporto, tecnici informatici:
la scuola era già attiva sull’aspetto tecnologico ante lockdown, era già attiva da tempo la piattaforma di istituto, dove si caricano comunicazioni, a cui tutti accedono, gli studenti hanno la loro mail. Tranne le prime due settimane di attesa in cui era normale stare fermi, siamo partiti (da intervista DS IP).La DAD per noi non ha rappresentato un grosso problema, eravamo attrezzati da anni, io sono qui da sei anni e già si usava la GSuite e si sfruttavano numerose potenzialità. Dal punto di vista tecnico siamo partiti subito e bene (da intervista a DS IT).[...] è tutto molto avanzato sul piano tecnologico. Ben prima della pandemia lavoravamo già così. Per cui siamo partiti avvantaggiati (da intervista a DS liceo).
Le scuole hanno inoltre ricevuto dal
ministero dell’Istruzione, con il lockdown e successivamente a esso, risorse aggiuntive
specifiche per fronteggiare l’emergenza; questa iniezione di liquidità ha consentito
d’intervenire anche all’esterno della scuola per creare le condizioni materiali per dare
continuità agli apprendimenti. Disporre di risorse ha portato le scuole ad allineare gli
studenti con dispositivi idonei alla connessione per fruire della DAD: quindi sia dentro la
scuola sia fuori da essa la dotazione di strutture e infrastrutture è stata garantita ed è
proceduta con rapidità, onde evitare l’aggravarsi delle disuguaglianze tra alunni, già
presenti ante pandemia:
Abbiamo dato 31 tablet ai ragazzi che ne erano sprovvisti. Qui l’utenza è classe media anche con stranieri ben integrati, non ci sono situazioni di disagio forte. Quindi i problemi erano più che altro di tipo tecnico. Il problema era più che legato al «non ho», al «siamo in 4» e dobbiamo fare i turni e siamo troppi. ¶{p. 49}La concomitanza con fratelli e genitori avendo un solo PC (da intervista a DS IT).
Si nota subito, invece, quanto sia
mancato l’aspetto dell’adattamento della tecnologia alle effettive esigenze degli studenti e
alle effettive capacità degli insegnanti; la situazione che si è rapidamente definita
richiedeva un cambio di paradigma nella didattica, nelle valutazioni, nel lavoro del team
docente e nella relazione con gli alunni:
Il trasferimento semplice dalla presenza alla distanza non funzionava. Alcune discipline avevano già una pratica maggiore nella gestione di attività differenti e adatte alla distanza, e anche metodi di valutazione diversi. La DAD tende ad essere applicata dai docenti senza innovare troppo, adattando lo strumento digitale al proprio bagaglio professionale mentre dovrebbe essere il contrario (da intervista a DS liceo).[…] il problema della pandemia ha determinato una svolta epocale, la potrei paragonare all’epopea napoleonica, ci siamo ritrovati in una modalità completamente avulsa dai nostri modelli e sistemi. Uno spiazzamento per tutti (da intervista a DS IT).
Possedere le risorse e gli strumenti non
equivale a possedere la competenza specifica necessaria al loro utilizzo e nemmeno alla
familiarità con un modello educativo che la distanza ha inevitabilmente stravolto. Su questo
fronte, i dirigenti hanno osservato come l’impreparazione dei docenti e la loro avversione al
cambiamento abbia impattato pesantemente sulla qualità della didattica e su aspetti
organizzativi ad essa correlati, con una eterogeneità significativa tra scuole. Questo è un
primo indizio, contenuto in tali narrazioni, per spiegare perché la disponibilità di risorse
non abbia avuto lo stesso esito in tutti i contesti: là dove il fabbisogno di dotazioni era
maggiore, le risorse hanno consentito solo in parte di colmare il divario digitale e di
conseguenza alcuni studenti già fragili hanno visto peggiorare ulteriormente la propria
condizione sia rispetto alle opportunità di apprendimento sia rispetto al mantenimento della
relazione con insegnanti e gruppo classe. È chiaro, insomma, che anche
¶{p. 50}nel caso delle dotazioni agli studenti a fare la differenza nell’uso
delle tecnologie non è soltanto il possesso del dispositivo, ma la competenza nel suo
utilizzo. Alunni di classe sociale svantaggiata, di origine straniera, con nuclei familiari
fragili e con basso capitale culturale, anche se dotati delle apparecchiature necessarie,
hanno incontrato enormi difficoltà nell’utilizzo degli strumenti. A questo si aggiunge poi
spesso l’indisponibilità della connessione o l’appoggio alla connessione con lo smartphone. Il
divario digitale è quindi un fattore ostativo (degli studenti e delle loro famiglie) di grande
rilevanza alla piena partecipazione dei ragazzi alla didattica online.
Altro elemento di criticità che ha
coinvolto i dirigenti è stato costituito dalla sfida degli apprendimenti. Si tratta di un
argomento molto spinoso, aggravato dalla decisione ministeriale di procedere con la promozione
di massa al termine dell’anno scolastico 2019-2020. Questo elemento, secondo i dirigenti
intervistati, ha segnato una cesura nelle biografie scolastiche, perché ha eliminato, seppure
per una ragione fondata, il valore della responsabilità e il merito individuale:
la disgrazia massima è stata la promozione obbligatoria. Gli alunni in difficoltà avrebbero dovuto essere fermati, gli altri si sono sentiti presi in giro perché avevano studiato anche tra mille difficoltà, ma allora che senso ha? (da intervista a DS IT).
I dirigenti sostengono che la decisione
della promozione di massa ha frustrato coloro che avevano continuato il percorso scolastico
con impegno, anche in condizioni di apprendimento più difficili e onerose; e d’altra parte ha
ulteriormente lasciato indietro coloro che presentavano difficoltà non trascurabili per la
prosecuzione nella classe successiva o per la prosecuzione all’interno della stessa filiera,
quando invece sarebbero state necessarie azioni di riorientamento. Questo aspetto è risultato
particolarmente evidente con gli studenti degli IT e IP, in misura minore con i licei. In
questo caso un ruolo cruciale è stato svolto dalle famiglie: quelle maggiormente presenti e
culturalmente ¶{p. 51}attrezzate hanno potuto accompagnare i propri figli in
un percorso didattico maggiormente individuale e coadiuvare i docenti; viceversa famiglie già
assenti o deleganti alla scuola hanno ulteriormente accentuato le condizioni di criticità dei
propri figli, anche sospendendo o allentando in modo significativo le regole della
quotidianità:
L’eredità del lockdown è che si portano dietro dei deficit e si sta faticando per riallinearli e riportarli alla frequenza, ma anche alle regole che proprio non hanno e che le famiglie non danno. Perdendo la presenza si perdono le regole. E per alcuni ragazzi con problemi di comportamento le cose peggiorano ulteriormente (da intervista a DS IP).
Oltre all’effetto diretto, derivante dai
livelli di competenza tecnologica di cui si è detto, il livello di capitale culturale delle
famiglie ha naturalmente influito anche in modo indiretto, per esempio attraverso la mancanza
di regole a casa, di una disciplina rigorosa centrata sull’assunzione delle proprie
responsabilità di studente, indipendentemente dal controllo esercitato attraverso la routine
scolastica. Ciò ha avuto come effetto un peggioramento significativo negli apprendimenti. Qui
si conferma ciò che è stato ampiamente messo in luce nel dibattito pubblico, ossia che la
pandemia ha ampliato le disuguaglianze e in parte vanificato le azioni messe in campo negli
anni precedenti per ridurre le situazioni di svantaggio.
In questo processo, un posto centrale è
occupato dai docenti. La transizione ha avuto un impatto significativo anche su di essi, sia
individualmente sia come team all’interno di una stessa classe. I dirigenti sottolineano in
modo concorde, indipendentemente dalla filiera, la compresenza di due macrocategorie di
docenti: i motivati, resistenti alle situazioni difficili e spiazzanti, e
gli inerziali che si ritraggono dalla sfida. Questa distinzione era del
tutto prevedibile. Per tutti gli insegnanti il periodo del lockdown in particolare ha
costituito un evento spiazzante che ha reso necessario, in modi diversi, rimodulare la
didattica, mutare i metodi di valutazione, ridefinire i rapporti con gli studenti e con i
¶{p. 52}colleghi. L’aspetto tecnico, per quanto più complesso per alcuni, è
stato comunque il meno impattante; si è trattato di prendere confidenza con un metodo di
lavoro diverso rispetto al passato. Ma l’aspetto realmente critico, che ha fatto la differenza
sia per il team docente sia per gli apprendimenti degli studenti, è stato quello relativo alla
più generale capacità di reazione e adattamento a un contesto nuovo. Dopo il primo momento di
disorientamento, infatti, si sono immediatamente definiti i due gruppi:
Gli insegnanti si dividono in due categorie, quelli che sentono il bisogno di fare questo mestiere e acquisiscono le competenze, didattiche, tecniche e relazionali di loro iniziativa, in parte già le possiedono, le sviluppano, ci investono sopra; e quelli che si rifiutano perché il mestiere è uno tra tanti e si sentono al di sopra di ogni intervento o suggerimento; per entrambe la formazione non serve; per i primi è superflua, per i secondi è inutile perché tanto non ascolterebbero e non assimilerebbero nulla (da intervista a DS IT).
Ma che cosa fa sì che un docente sia un
«buon docente» in una situazione di stress? Le parole dei dirigenti vanno concordemente in
direzione delle competenze personali, di tipo extraprofessionale, con cui i singoli docenti
sono equipaggiati:
alcuni docenti riescono a fare presa e ad avere una interazione positiva, fare leva sulla motivazione. C’è una parte dei docenti che già prima aveva problemi su questo punto, la gestione della classe è complicata e non tutti hanno questo bagaglio e hanno anche una personalità che non è una risorsa. Ci sono realtà in cui i docenti fanno molto meno di quello che si potrebbe fare. Devo dire che non siano né l’età né il genere né altro, dipende sempre e solo dalla persona (da intervista a DS di IP).
Questa criticità è motivo di grande
preoccupazione tra i dirigenti: mentre rispetto alla formazione tecnica molto si può fare con
tutti, perché si tratta di insegnare il «come», sugli aspetti caratteriali (le competenze
socio-emozionali degli insegnanti) l’intervento è molto difficile, anzi
per certi versi impossibile, in quanto richiederebbe un’azione sul «chi»,
¶{p. 53}ossia richiama l’attenzione sul chi è l’insegnante. Dunque, se una
competenza tecnica o una procedura o una sequenza di azioni può essere agevolmente e
rapidamente insegnata, non altrettanto si può dire degli aspetti caratteriali. Attraverso le
narrazioni dei dirigenti si coglie una diffusione trasversale del problema: non è la filiera
l’elemento determinante per stabilire le qualità del buon docente. Trasversalmente alle scuole
incluse nella ricerca, i dirigenti hanno riferito di docenti problematici, non collaborativi,
poco attivi sul fronte della rimodulazione della didattica, poco curiosi verso nuovi metodi e
tecniche. La questione sembra tuttavia porsi in termini di particolare gravità all’interno
degli istituti tecnici e professionali, in cui il ricorso alle tecnologie dovrebbe essere già
parte integrante del modus operandi docente in condizioni ordinarie. E
invece è proprio in queste filiere che si segnalano le situazioni di maggiore criticità. Un
elemento che pare avere rilevanza è la fascia di età (più attivi e competenti i giovani; più
resistenti i senior) e la condizione occupazionale (più attivi i precari e i docenti con
incarico annuale rispetto a quelli a tempo indeterminato).