Note
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B. Mussolini, Discorso alle donne fasciste, 20 giugno 1937.
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Per questo, forse, G. Dattino, Il diritto di famiglia e il diritto di proprietà nella legislazione fascista, in Studi d’Amelio, Roma, 1933, I, p. 446, sosteneva che la verginità delle donne ‒ «quasi sempre l’unica risorsa per una conveniente sistemazione» ‒ dovesse essere difesa dalla società anche con il ripristino del reato di stupro semplice. Il passo di G. Dattino è cit. da M. Sesta, Profili di giuristi italiani contemporanei: Antonio Cicu e il diritto di famiglia, in Materiali per una storia della cultura giuridica, raccolti da G. Tarello, VI, Dottrine storiche de! diritto privato, Bologna, 1976, pp. 419 seg., qui 478-79, nell’ambito di una rassegna degli scritti giuridici che più accentuatamente prospettano l’ideologia fascista della famiglia.
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La necessità di periodizzare non si pone solo per la politica economica del fascismo; anche la politica femminile conobbe varie fasi, legate ai diversi andamenti dell’economia del paese e ai diversi interventi dello stato fascista nell’economia. Per la politica femminile, mi pare possa essere accettata la divisione per periodi proposta da E. Santarelli, Il fascismo e le ideologie antifemministe, cit., pp. 75 seg.; l’a. distingue due fasi: una prima (fino all’inizio degli anni ‘30) è caratterizzata dalla flessione dell’occupazione femminile (specialmente industriale), e accompagnata dalla propaganda demografico-ruralista che privilegia la donna madre e la donna di casa; nella seconda fase (gli anni ‘30 maturi), il processo di crescita dell’industria, dell’urbanizzazione, dei flussi migratori, il recupero della flessione dell’occupazione femminile (sia pure con un vistoso spostamento nel terziario) mostrano l’avvenuta apertura della forbice tra sviluppo economico industriale e ruralismo. In questa fase il fascismo non rinunciò alla politica demografico-ruralista, ma si preoccupò di intervenire con una legislazione sul lavoro femminile diretta a «normalizzare» il mercato del lavoro uscito dalla crisi (infra, par. 3).
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B. Mussolini, intervista al «Journal», 12 novembre 1922, cit. da M. A. Macciocchi, La donna ‘nera’, cit., p. 38.
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B. Mussolini, Discorso dell’Ascensione, 26 maggio 1927. Per la cronaca del battage pubblicitario che precedette e seguì il discorso, v. «Il popolo d’Italia», 26, 27, 28 maggio 1927. Curiosamente (non so se si tratti di refuso, o invece di lapsus legato alla tendenza a retrodatare), lo stesso Mussolini, nella prefazione al libro di R. Korherr, Regresso delle nascite: morte dei popoli, Roma, 1928, p. 16, data il suo discorso al 1926
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In pieni anni ‘30, l’«Almanacco della donna italiana», Firenze, Bemporad, 1935, nella rubrica di vita pratica (pp. 403 seg.), consigliava alle sue lettrici piccolo-borghesi come far quadrare i modesti bilanci familiari, limitando al massimo le spese di gestione, e supplendo col proprio lavoro alle limitazioni dei consumi imposte dalla politica salariale del regime. «Un po’ di battista di lino o di organdis morbidetto, un disegno un po’ novecento [...] un po’ di buona volontà e il miracolo è compiuto: il modesto abituccio del 1933-34 diventa un grazioso modellino 1935».
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Su cui v. V. Zamagni, La dinamica dei salari nel settore industriale,in L’economia italiana nel periodo fascista, a cura di P. Ciocca e G. Tomolo, Bologna, 1976, pp. 329 seg. La «spiacevole realtà» della compressione dei salari era così illustrata da Bottai: «noi abbiamo compiuta [...] una meditata azione di arretramento sulle posizioni salariali. Senza l’ordinamento corporativo le classi produttrici avrebbero potuto far arretrare queste posizioni assai più in là. Noi abbiamo difeso il salario attraverso la sua stessa diminuzione [...]. I lavoratori stessi hanno, talora, chiesto alla stessa organizzazione, che resisteva, le diminuzioni salariali» (G. Bottai, Fascismo e capitalismo, Roma, 1931, pp. 77 seg.).
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Qualche citazione può essere illuminante. In un articolo pubblicato dal «Popolo d’Italia», 31 agosto 1934, intitolato Macchina e uomo, B. Mussolini scriveva: «L’esodo delle donne dal campo di lavoro avrebbe senza dubbio una ripercussione economica su molte famiglie, ma una legione di uomini solleverebbe la fronte umiliata e un numero centuplicato di famiglie nuove entrerebbe di colpo nella vita nazionale. Bisogna convincersi che lo stesso lavoro che causa nella donna la perdita degli attributi generativi, porta all’uomo una fortissima virilità fisica e morale». Più chiaramente ancora si esprimevano i teorici del divieto alle donne di lavorare fuori casa e della restaurazione dell’autorità dell’uomo sulla donna e nella famiglia: da M. Palazzi, Autorità dell’uomo, in “Critica fascista», 1933, n. 10, pp. 183 seg., a F. Loffredo, Politica della famiglia, Milano, 1938: ma nei discorsi di questi aa. (pure di un estremismo che rasenta la demenza) si riflette la concezione fascista della famiglia “autoritaria, gerarchica, fondamentalmente chiusa ed autosufficiente», esemplata sul modello della famiglia patriarcale precapitalistica. Così P. Meldini. Sposa e madre esemplare, cit., p. 123.
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A. Treves, Le migrazioni interne nell’Italia fascista, Torino, 1976, p. 68. V. anche P. Corner, Rapporti tra agricoltura e industria durante il fascismo, in Il regime fascista, a cura di A. Aquarone e M. Vernassa, Bologna. 1974, pp. 398 seg.
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Fra le ragioni della scarsa applicazione delle leggi contro l’urbanesimo A. Treves, Le migrazioni interne, cit., pp. 91 seg., individua l’ostilità degli industriali, preoccupati per un orientamento che rischiava di provocare grosse difficoltà sul mercato del lavoro.
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Il tono della propaganda conto l’urbanesimo e per la ruralità era tanto oscurantista da rendere legittimo il giudizio di P. Meldini, Sposa e madre esemplare, cit., pp. 106 seg., che vede nella battaglia ruralista una risposta tutta ideologica e arretrala alla situazione di crisi economica. Prendo (a caso) l’esempio del lavoro (premiato al concorso indetto dalla società italiana di medicina sociale) di S. Diez, Ritorniamo ai campi. Le ragioni di indole medica e sociale che stanno per la ruralizzazione contro l’urbanesimo, in “Archivio fascista di medicina politica», 1931, III; l’a. auspicava tra l’altro il ricorso ad una terapia psicologica, piuttosto che alla coazione, per indurre gli italiani al ritorno alla terra, e raccomandava di puntare sulle donne («come da millenni insegna Santa Romana Chiesa») e di rendere sanamente comoda la vita in campagna, senza dimenticare che «niente vi è di più contrario ai gusti delle nostre popolazioni che la standardizzazione e la meccanizzazione spinta». Nel che vorremmo vedere, commentava G. Betocchi, Recensione, in «Il diritto del lavoro», 1931. I, p. 425, la condanna di quella razionalizzazione che, dimenticando l’uomo, ottiene il risultato di rendere il lavoro più scomodo, noioso ed estraneo di prima. Può essere interessante notare come l’adesione alla campagna per la ruralizzazione poteva portare gli zelanti a polemizzare contro l’organizzazione scientifica del lavoro (industriale), sostenuta invece, nello stesso periodo, e con forza, dagli industriali. e certo non osteggiata dal regime.
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L’aspetto demografico della campagna ruralista aveva una singolarità: secondo le categoriche affermazioni che Mussolini aveva fatto dal discorso dell’Ascensione, alla sterilità delle popolazioni non contribuiva solo l’urbanesimo industriale, ma anche la piccola proprietà contadina. Questo pronunciamento a favore del latifondo venne sviluppato in sede c.d. scientifica da G. Pisenti, Prolificità delle popolazioni rurali e frazionamento della terra, in “Archivio fascista di medicina politica», 1928, V-VI, pp. 347 seg.: Id.. La prolificità dei rurali e il frazionamento della terra, in «Critica fascista», 1929. 2, pp. 38 seg., il quale fu tuttavia costretto, qualche anno dopo, a rivedere le sue tesi.
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Contrariamente alla tendenza (in cui si inserisce anche P. Meldini, op. cit.) a risolvere la vicenda della ruralizzazione nella propaganda contro l’urbanesimo e per il ritorno alla terra, privilegiandone quindi gli aspetti ideologici, P. Corner, Rapporti tra agricoltura e industria durante il fascismo, cit., delinea un preciso rapporto tra la politica agraria del fascismo (anche nella veste di ruralizzazione) e la politica industriale, definendo la prima come direttamente funzionale alla soluzione di due problemi di fondo dello sviluppo industriale del periodo: la scarsità di capitali e la debolezza del mercato interno (conseguente alla politica di bassi salari).
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Agli inizi degli anni ‘30 la disoccupazione aveva assunto livelli preoccupanti; la rivalutazione della lira (la famosa «quota novanta») aveva prodotto ‒ secondo le stime ufficiali ‒ una disoccupazione al 10% delle forze di lavoro; era infatti diminuito il valore delle esportazioni e tale abbassamento, per il ruolo che le esportazioni giocavano nello sviluppo del dopoguerra, portò ad una riduzione del tasso di espansione interna. I gruppi industriali più importanti, pure contrari ad una misura deflazionistica così drastica, erano favorevoli alla deflazione, che riduceva la competitività delle piccole industrie, rapidamente sviluppatesi tra il 1922 e il 1926, agevolando la concentrazione industriale. Cosí J. S. Cohen, La rivalutazione della lira nel 1927: uno studio sulla politica economica fascista, in Lo sviluppo economico italiano, 1861-1940, a cura di G. Toniolo, Bari, 1973, pp. 327 seg.
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Sul decentramento produttivo ed il rapporto fra decentramento della produzione e concentrazione industriale durante il periodo fascista, cfr. G. Tattara e G. Toniolo, L’industria manifatturiera: cicli, politiche e mutamenti di struttura (1921-1937), in L’economia italiana nel periodo fascista, cit., pp. 103 seg.
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La politica agraria del fascismo, specie nei progetti che vanno sotto il nome di «battaglia del grano» (1925) e di «bonifica integrale» (1928), favorì, insieme, le aziende capitalistiche del nord e la conservazione di un’agricoltura precapitalistica nel sud, rispondendo alle esigenze dello sviluppo industriale, contrario ad un’organizzazione efficiente dell’agricoltura, che avrebbe espulso forza lavoro dalle campagne. Cosí P. Corner, op. cit. pp. 402 seg. e ivi riferimenti bibliografici; D. Preti, La politica agraria del fascismo: note introduttive, in «Studi storici», 1973, n. 4; E. Sereni, La politica agraria del regime fascista, in Fascismo e antifascismo. Lezioni e testimonianze, Milano, 5a ed., 1976, pp. 296 seg. Consentendo sulla tesi della subordinazione degli interessi dell’agricoltura a quelli dello sviluppo industriale, J. S. Cohen, Rapporti agricoltura-industria e sviluppo agricolo, in L’economia italiana nel periodo fascista, cit., pp. 379 seg., ritiene tuttavia la politica agraria del fascismo assolutamente inadeguata agli scopi di sostenere i profitti industriali ed assorbire la disoccupazione industriale; tale politica portò infatti alla concentrazione della proprietà terriera: a rallentare, piuttosto che accelerare, l’accumulazione di capitale in agricoltura; a provocare, infine, la caduta della produzione agricola al di sotto del potenziale produttivo.
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Non aumentarono di molto i piccoli proprietari; la flessione nel numero dei braccianti, tra il 1921 e il 1936 (dal 44% al 28%), fu dovuta all’espansione dei coloni e dei mezzadri, espressione della tendenza dei proprietari a ridurre i costi di gestione senza investire, ma affidandosi, per le entrate, agli affitti ed ai profitti a basso costo: P. Corner, op. cit.
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E. Fano Damascelli, La ‘restaurazione antifascista liberista’. Ristagno e sviluppo economico durante il fascismo, in Il regime fascista, cit., pp. 299 seg.
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Così G. Tattara e G. Toniolo, L’industria manifatturiera, cit., pp. 148 seg.
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Cfr. ancora la tabella elaborata da G. Tattara e G. Toniolo, op. cit.,appendice statistica, tab. A.3.
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Tale riduzione conferma il verificarsi, nel corso degli anni ‘30, della proliferazione degli esercizi di piccola e piccolissima dimensione; la proliferazione corrisponde all’andamento di questi settori, che riescono a rimanere sul mercato solo accrescendo la quota di produzione attuata con attività marginali, le quali non garantirebbero la sussistenza se non fossero sostenute da forme di autoconsumo e di intensificazione nell’uso della forza lavoro di tutta la famiglia. Cfr. G. Tattara e G. Toniolo, op. cit., p. 152.
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Lo scarso successo della politica fascista verso il lavoro femminile è frequentemente dedotto dal mero raffronto dei dati sull’occupazione femminile nell’industria nel 1936 (28,4%) e nel 1921 (29,8%), nell’agricoltura (38,1% e 37,7%), nel terziario (34,1% e 28,03%). Così, ad es., E. Santarelli, Il fascismo e le ideologie antifemministe, cit., p. 88; P. Meldini, Sposa e madre esemplare, cit., pp. 76 seg., il quale ultimo, dal dato dell’andamento costante dell’occupazione femminile negli anni ‘30, deduce l’esistenza di un contrasto tra la propaganda fascista per l’espulsione delle donne dal lavoro extra domestico, e gli interessi del padronato, favorevole allo sfruttamento del lavoro femminile sotto remunerato. Come cercherò di dimostrare (infra, parr. 2, 3) queste valutazioni sono insufficienti.
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I due dati (il primo fornito dal ministero delle corporazioni, il secondo dalla società delle nazioni) «costituiscono con ogni probabilità i due limiti (massimo e minimo) entro i quali si colloca il reale andamento dell’occupazione»: G. Tattara e G. Toniolo, op. cit., p. 127.
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V. la valutazione negativa della politica agraria del fascismo di J. S. Cohen, Rapporti agricoltura-industria e sviluppo agricolo, cit., pp. 379 seg., che così conclude: «Sebbene le politiche tendessero a favorire l’industria, i latifondisti se la passarono piuttosto bene sotto il fascismo. Possiamo fare soltanto congetture su come fossero risolti i conflitti, ma gli indizi suggeriscono che si raggiunse un compromesso attraverso l’accumularsi di concessioni fatte ad entrambe le parti, che alla lunga spinsero entrambi i gruppi lontano da qualunque tipo di assetto ottimale» (p. 407).
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Non bisogna trascurare, naturalmente, le venature razziste e colonialiste della propaganda demografica, che coloriscono anche il ruolo della donna, madre di «soldati dell’impero»; cfr. F. Pieroni Bortolotti, Femminismo e partiti politici in Italia, cit., pp. 356 seg.
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V. la rassegna critica che E. Santarelli, Il fascismo e le ideologie antifemministe, cit., pp. 92 seg. (di cui condivido i giudizi) ha dedicato alla recente letteratura sulla politica femminile del fascismo.
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Nel panorama della letteratura sulla politica femminile fascista ha un posto a sé il più recente contributo di F. Pieroni Bortolotti, Femminismo e partiti politici in Italia, cit. Con la pubblicazione di questo nuovo volume, l’a. riannoda i fili del discorso che concludeva l’opera precedente (Socialismo e questione femminile in Italia, 1892-1922, cit.), ricostruendo ora, nei dettagli, le vicende della sconfitta del suffragismo italiano. Al di là dell’importanza che questa parte della ricerca della Pieroni riveste per gli addetti alla storiografia dei movimenti femminili e femministi, mi pare debba interessare tutti coloro che, per qualche ragione, si occupano della «questione femminile» la ricostruzione dei nessi che legano le ideologie e le politiche del periodo tardo liberale al primo fascismo, in un rapporto di relativa continuità.
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Se l’ideologia fascista negava alla questione femminile ogni autonomia e specificità, affermando la preminenza organicista dell’interesse nazionale, la politica fascista si preoccupava di intervenire sui problemi delle masse femminili: «il codice Rocco da un lato e prima ancora, dall’altro, l’opera nazionale maternità e infanzia costituiscono per questo verso il parto più notevole dell’azione ordinatrice del fascismo, il punto più maturo e solido del fascismo al potere, il risultato primo della stabilizzazione conservatrice» (E. Santarelli, op. cit., p. 84). I momenti fondamentali dell’organizzazione delle masse femminili sono documentati da P. Meldini, nella ricca antologia pubblicata in appendice al voi. Sposa e madre esemplare, cit.
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Regresso delle nascite: morte dei popoli, Roma, 1928.
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Secondo dati forniti dallo stesso R. Korherr, op. cit.
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E. Santarelli, op. cit., p. 89.
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Una rassegna in G. Grossi, Legge e potenza del numero, Bologna, 1935, pp. 18 seg., opera dedicata oltre che alla propaganda delle tesi demografiche di regime, alla descrizione apologetica, ma dettagliata, della politica «eugenica» e degli istituti creati dal fascismo per l’incremento e il miglioramento della popolazione nazionale. In questo contesto, l’a. critica violentemente la concezione demografico-razzista di Hitler che «nel suo delirio di intransigenza sulla purezza della razza non risponde affatto ad alcun principio biologico sano» (p. 57). «Con questi concetti di igiene della razza ‒ scriveva Grossi ‒ non si può più parlare di miglioramento e incremento demografico. Meglio varrebbe essere sinceri e chiaramente asserire che si tratta di un fine politico di predominio e di superiorità sugli altri popoli! E se questo ultimo aspetto della demografia tedesca non è delirio, follia, che altro può essere?» (p. 59).
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P. Meldini, op. cit., p. 89.
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Le lesi di O. Spengler erano divulgate dal R. Korherr, il cui saggio porla, nell’edizione italiana, oltre alla prefazione di Mussolini, anche una prelazione di Spengler; quest’ultimo vi ribadisce il legame indissolubile tra la soluzione della questione demografica tedesca e l’avvento di una dittatura fascista in Germania.
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V. infatti, di C. Gini, I fattori demografici dell’evoluzione delle nazioni, Torino, 1912; dopo il discorso dell’Ascensione l’a. pubblicò il saggio Il numero come forza, in «Critica fascista», 1928, 19, pp. 362 seg., divenuto subito notissimo, ed il vol. Le basi scientifiche della politica della popolazione, Catania, 1931. Di Gini segnalo ai colleghi insoddisfatti di sé e del proprio ruolo il breve saggio Nuove osservazioni sui problemi dell’eugenica. La distribuzione dei professori delle università italiane secondo l’ordine di nascita, in «Rivista italiana di sociologia», marzo aprile 1914 (estr.), dove si dimostra come i professori universitari siano più abbondanti tra i primogeniti che tra i cadetti; il che implica ‒ precisa Gini ‒ che sia accolta (anche se con riserva) la tesi della superiorità dei primogeniti. A partire dagli interventi di Mussolini si moltiplicarono le opere dedicate alla questione demografica; molto citati, oltre i lavori di Gini, anche quelli di C. Curcio, La politica demografica del fascismo, Milano, 1938; R. Michels, Il problema della popolazione, Perugia, 1929.
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N. Pende, Bonifica umana, Bologna, 1934; l’a. sosteneva fra l’altro la lesi che il lavoro industriale fosse un fattore di iponatalità; tesi condivisa da G. Tesauro, Influenza demografica del lavoro industriale femminile, in Scritti in onore del prof. G. Miranda, Napoli, 1939, pp. 18 seg. Di N. Pende può vedersi anche il breve saggio Femminilità e cultura femminile, in «Gerarchia», maggio 1941 (riportato in appendice da P. Meldini, Sposa e madre esemplare, cit. pp. 276 seg.), dove l’illustre clinico affermava che la cultura della donna non potesse e non dovesse essere pari a quella maschile, e che pertanto dovesse essere impedito alle donne l’esercizio di quelle professioni cui il cervello femminile non è per natura preparato; come le scienze, le matematiche, la filosofia, la storia, l’ingegneria, l’architettura.
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P. Meldini, op. cit., p. 95.
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Ma l’antifemminismo fascista aveva anche altre matrici culturali; secondo E. Santarelli, op. cit., pp. 77 seg., si ritrovano in esso, specificamente, le radici della concezione futurista della donna oggetto di piacere e mezzo di riproduzione.
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La grande influenza esercitata da C. Lombroso e dai positivisti (con la dimostrazione scientifica che essi fornivano dell’inferiorità fisica e soprattutto cerebrale della donna) sulla concezione fascista della donna e della famiglia, è sottolineata da P. Meldini, op. cit., p. 37.
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Nel quadro di un orientamento di regime generalmente sfavorevole al lavoro extra domestico delle donne, delle quali si privilegiavano le funzioni familiari e riproduttive, le posizioni erano tuttavia articolate; dall’estremismo di F. Loffredo, Politica della famiglia, cit., al buon senso di G. Bottai, Presentazione a F. Loffredo, op. cit.
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Ma le organizzazioni femminili fasciste chiedevano che non si ponessero limiti nell’accesso delle donne all’istruzione superiore. V., in tal senso, F. Catasta, Studentesse d’Italia. G.U.F. femminile e orientamento professionale, in «Almanacco della donna italiana», 1935, pp. 155 seg.; l’a. si affanna a dimostrare che l’aumento delle studentesse e delle laureate non doveva preoccupare; «quelle che si formano una famiglia sono le vere compagne del marito e, oltre a badare alla casa, lo aiutano spesso nel lavoro; tutte poi, indistintamente, contribuiscono col loro studio ad elevare il livello spirituale e culturale della nazione».
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Uso qui l’espressione «lavoro domestico» nel significato totale che le attribuiscono le femministe: cfr. Aa. V.„ Dentro lo specchio. Lavoro domestico, riproduzione del ruolo e autonomia delle donne, Milano, 1978.
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Nell’enciclica Casti connubii (1930), Pio XI riaffermava l’indissolubilità del matrimonio, la superiorità dell’uomo, la subordinazione civile e patrimoniale della donna, la condanna di ogni pratica antigenerativa, compreso l’aborto terapeutico. Quanto al lavoro extra domestico, il pontefice riteneva fosse una corruzione dell’indole muliebre e della dignità materna, una perversione di tutta la famiglia. Per il caso in cui la maternità mettesse in pericolo la vita della donna, la risposta dei cattolici era: continenza e fede nella provvidenza (G. Tredici, I doveri della paternità, in La famiglia cristiana,Settimane sociali d’Italia, XII sessione, 1926, Genova, Milano 1927, pp. 144 seg.).
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Così A. Bernareggi, Il matrimonio e la famiglia nei loro fondamenti naturali, in La famiglia cristiana, cit., pp. 61 seg. Sulla ideologia clerico fascista, v. per tutti F. Pieroni Bortolotti, Femminismo e partiti politici in Italia, cit., pp. 352 seg.
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Gli assegni familiari furono introdotti con l’accordo 11 ottobre 1934 per l’industria, in concomitanza con la riduzione della settimana lavorativa da 48 a 40 ore, cui conseguiva una riduzione più che proporzionale del salario; con R.D.L. 21 giugno 1936, n. 1632 e successive modifiche, gli assegni familiari vennero resi obbligatori per tutti i lavoratori dell’industria, indipendentemente dall’orario settimanale di lavoro. Cfr. L. Levi, Gli assegni familiari ai lavoratori, in Trattato di diritto del lavoro, diretto da U. Borsi e F. Pergolesi, vol. II, Padova, 1939, pp. 333 seg.
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Ampie informazioni in P. Benedettini Alferazzi, La donna in regime fascista. L’assistenza e i fasci femminili, in «Almanacco della donna italiana», 1935, pp. 137 seg. Un estratto da I fasci femminili, Milano, 1929, dove il partito delineava i compiti di queste organizzazioni, è riportato in appendice da P. Meldini, op. cit., pp. 155 seg.
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Sull’organizzazione e i compiti dell’O.N.M.I, v. G. Grossi, Legge e potenza del numero, cit., pp. 283 seg.
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1 commi 8° e 9° dell’art. 6 R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825 («per i casi di interruzione del servizio per gravidanza o puerperio il principale conserverà il posto per il periodo di tre mesi, corrispondendo la retribuzione per il primo mese e la metà per gli altri due. Se l’interruzione di servizio [...] dura più dei termini massimi [...] indicati, e il principale licenzi l’impiegato, saranno dovute le indennità di licenziamento di cui all’art. 10») si applicavano alle sole impiegate.
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La legge 22 marzo 1934, n. 1347 sulle lavoratrici madri è stata abrogata dalla legge n. 860/1950, a sua volta sostituita dalla legge n. 1204/1971. La legge 26 aprile 1934, n. 653 è stata abrogata (per incompatibilità) dalla legge 9 dicembre 1977, n. 903 sulla parità uomo donna nei rapporti di lavoro. Per quanto riguarda il lavoro dei fanciulli, la legge del 1934 è stata sostituita dalla legge n. 977/1967.
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Infra, cap. VI.
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Le cit. relazioni sono riportate in «Le leggi», 1934, rispettivamente alle pp. 679 seg., 683 seg.
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Mi riferisco al divieto di adibire le donne e i minori ai lavori insalubri, pericolosi, faticosi, e al divieto di lavoro notturno per le donne di qualsiasi età e per i minori di 18 anni (nel solo settore industriale, e per i minori di 16 anni nelle lavorazioni a ciclo continuo).
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De Michelis, relazione cit. Sono della stessa opinione anche A. Grechi e V. Barile, Istituzioni di legislazione sociale, Empoli, 2a ed., 1942, pp. 229 seg.
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In base all’art. 7. L. n. 653, il ministro per le corporazioni poteva autorizzare l’occupazione in determinati lavori di fanciulli di età non inferiore ai 12 anni compiuti, sempre che tali lavori fossero compatibili con le esigenze di tutela della salute e della moralità del fanciullo, e quando fosse richiesto da particolari condizioni aziendali, da speciali esigenze tecniche del lavoro, o fosse necessario per la formazione delle maestranze. Le ipotesi di deroga erano dunque formulate con tanta studiata genericità, da consentire l’uso elastico del divieto.
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Il R.D.L. 15 marzo 1923, n. 692, fissa in 8 ore giornaliere o 48 settimanali l’orario normale di lavoro, prevedendo casi in cui è consentito superare tale limite e casi in cui non è fissato alcun limite. La legge del 1934 prescriveva, per casi cui non si applicasse il decreto del 1923, che l’orario di lavoro delle donne e dei fanciulli non potesse eccedere rispettivamente le 11 e le 10 ore giornaliere (art. 17; l’art. 18 regolava i riposi intermedi).
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La subordinazione, nella gerarchia delle fonti, del contratto collettivo corporativo alle leggi e ai regolamenti, rendeva anomala la previsione della deroga (per contratto) ad una norma di legge che, per il suo contenuto, avrebbe dovuto essere classificata tra le norme inderogabili. Tale anomalia si riproduce, per certi aspetti, nella nuova legge n. 903/1977: infra, cap. VI.
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V., per tutti, F. Guidotti, Il lavoro delle donne e dei fanciulli e la tutela della maternità delle lavoratrici, in Trattato di diritto del lavoro, cit., II, pp. 369 seg.
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G. Caravaggi, La lavoratrice madre, in La donna e il diritto, cit., p. 128.
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Su cui, per qualche considerazione, infra, par. 4.
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E. Santarelli, Il fascismo e le ideologie antifemministe, cit., p. 89.
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Così W. Gorjux, La festa del popolo che si eterna, riportato in antologia da P. Meldini, Sposa e madre esemplare, cit., pp. 225 seg.
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B. Biagi, Scritti di politica corporativa, Bologna, 1934, pp. 201 seg.
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Con decreto 30 giugno 1933 in Germania si era provveduto a licenziare le donne sposate ed a vietare l’accesso nella pubblica amministrazione alle donne di età inferiore ai 35 anni. Per qualche riferimento: M. A. Macciocchi, La donna ‘nera’, cit., pp. 66 seg.
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Questo sistema sarebbe stato modificato nel 1939 con l’istituzione dell’assicurazione obbligatoria di nuzialità e natalità, di cui beneficiavano tutti i lavoratori (in occasione del matrimonio e della nascita di figli) maschi e femmine, esclusi gli stranieri e gli italiani di razza «non ariana».
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La qualità dell’intervento protettivo rispecchiava l’opinione, allora accreditata da studiosi autorevoli, come Nicola Pende e Corrado Gini, che il lavoro industriale fosse una delle cause maggiori di iponatalità; secondo G. Grossi, La protezione e la difesa sociale della maternità in regime fascista, Milano, 1930, il lavoro delle operaie avrebbe non solo raddoppiato le malattie da gravidanza, ma avrebbe reso di sette volte maggiore il numero degli aborti e quintuplicato il numero dei parti prematuri.
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La preferenza accordata dagli industriali alle nubili non era certo un fatto nuovo: cfr. G. Vicarelli, Lavoro e maternità. Studio etnico, clinico e sociale, Torino, 1914, pp. 30 seg.
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Sui limiti e le insufficienze del T.U. del 1907 v. le precise osservazioni di A. Lo Monaco-Aprile, La protezione sociale della madre e del fanciullo in Italia e all’estero, Bologna, 1923, pp. 5 seg.
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V. tuttavia quanto detto (retro, cap. I, par. 3) a proposito della riforma attuala nel 1907 e del suo intento promozionale.
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G. M. Rey, Una sintesi dell’economia italiana durante il fascismo,in G. Toniolo (a cura di), L’economia italiana 1861-1940, Torino, 2a ed., 1978, p. 299.
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II distacco fra salari maschili e femminili era molto alto; secondo i dati contrattuali riferiti da C. Ravera, Breve storia del movimento femminile,cit., pp. 134 seg., tale distacco si aggirava intorno al 50%.
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Secondo E. Sullerot, La donna e il lavoro, cit., p. 159, il regime fascista circondò l’inserimento delle donne nelle diverse attività con un numero così grande di divieti particolari, «per proteggere le lavoratrici», che giunse a far nascere nei datori di lavoro una psicosi da paura. Tanto che, dove fu possibile (e persino nell’industria tessile), le donne furono sostituite da manodopera maschile.
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L’esclusione era assai importante, per l’alto numero di donne addette all’agricoltura. Molte donne erano occupate inoltre nell’affittanza e mezzadria: nei contratti del periodo riapparvero le clausole che richiedevano il permesso del padrone per il matrimonio dei componenti la famiglia colonica, e permettevano lo sfratto della famiglia colonica in cui si fosse verificato un aumento o una diminuzione del numero dei componenti. I patti agrari impedivano una serie di attività e di colture affidate essenzialmente alle donne: «si toglie cioè alle contadine ogni possibilità di guadagno, mentre si riconsacra il ritorno nelle campagne a forme di servitù che gravano nel modo più umiliante soprattutto sulle donne» (C. Ravera, loc. ult. cit.). Le condizioni di miseria facilitavano l’arruolamento delle donne nei lavori stagionali (vendemmia, monda del riso ecc.) privi di garanzie e con salari di fame.
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Ambedue le leggi del 1934 escludevano inoltre dalla propria sfera di applicabilità gli uffici dello stato, delle province e dei comuni.
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Le poche opere, in cui è dedicato qualche cenno alla politica legislativa del fascismo, si occupano pressoché esclusivamente della legislazione che ho chiamato «espulsiva»: v. M. Natoli, Dall’incapacità giuridica al nuovo diritto di famiglia, in La donna e il diritto, cit., p. 44; M. A. Macciocchi, La donna ‘nera’, cit.. pp. 62 seg.; E. Santarelli, Il fascismo e le ideologie antifemministe, cit., pp. 90 seg.
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Di «super protezione» come ho cercato di chiarire (retro, par. 3) si può parlare solo facendo preciso riferimento alla legislazione sul lavoro del tempo, che non offriva ai lavoratori alcuna garanzia contro licenziamenti, trasferimenti, retrocessioni, sanzioni disciplinari e, più in generale, contro l’autorità padronale in fabbrica. Anche all’interno di quel contesto, tuttavia, le leggi sul lavoro femminile (e segnatamente la legge n. 653), che pure rendevano onerosa l’occupazione di donne, non avevano sempre e necessariamente quel valore iperprotettivo che si tende ad attribuire loro oggi: è caratteristica di quelle leggi, infatti, la presenza di una larga serie di divieti elastici, cioè derogabili «per esigenze dell’impresa». Questo implicava che gli imprenditori (industriali, destinatari della maggior parte dei divieti) potevano temperare, ove ne avessero interesse, le rigidità di utilizzo della manodopera femminile imposte dalla legge.
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La legge codificava prassi amministrative per larga parte già autorizzate dal consiglio di stato: retro, cap. I, par. 5, sull’interpretazione dell’art. 7 L. n. 1176/1919.
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V. la ricostruzione dei sistemi di classificazione dei lavoratori di G. Veneto, Contrattazione e prassi nei rapporti di lavoro, Bologna, 1974, p. 67 seg.; per qualche chiarimento ulteriore rinvio a quanto ho scritto nella voce Operaio, in Enciclopedia del diritto, Milano (in corso di stampa).
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Al lavoro a domicilio si applicavano solo l’art. 5 L. 26 aprile 1934, n. 653. tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli (divieto di adibire al lavoro i minori di 14 anni), e l’art. 18 L. 5 luglio 1934, n. 1347, tutela della maternità delle lavoratrici (obbligo di assicurare per la maternità le donne dai 15 ai 50 anni).
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Dal 1935 in poi, i testi legislativi sostituirono la parola «lavoranti» con «lavoratori». Sul significato e le implicazioni di questa variazione terminologica v. M. De Cristofaro, Il lavoro a domicilio, Padova, 1978, pp. 15 seg.
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Scriveva P. Greco, Il lavoro a domicilio nell’ordinamento corporativo, in «Il diritto del lavoro», 1928, I, p. 298, che il lavoro a domicilio, dal punto di vista morale, presentava il vantaggio, di grande rilievo per lo spirito del fascismo «di favorire la permanenza della donna lavoratrice nell’ambiente cui essa è destinata, se madre, a regnare ed a profondere la sua preziosa opera di allevamento e di educazione della prole, se figlia, a formarsi la mente e il cuore in quella purezza di affetti e di costumi che solo la famiglia, se decorosamente mantenuta, può garantire».
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Ancora P. Greco, Il lavoro a domicilio, cit., p. 291, affermava che assoggettando il lavoro a domicilio alla disciplina del lavoro subordinato si sarebbe ottenuto il risultato di «dissuadere gli industriali dal ricorrere a quella forma di lavoro, già che questo mentre li aggraverebbe degli stessi oneri del lavoro in fabbrica, non ne presenterebbe però i vantaggi dati dalla possibilità di dirigere, sorvegliare e assicurare la buona riuscita del prodotto».
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Per la situazione prebellica, ampi ragguagli in F. Chessa, L’industria a domicilio nella costituzione economica odierna, Milano, 1918; sul disegno di legge n. 196, presentato alla camera il 20 giugno 1921, v. ora M. De Cristofaro, Il lavoro a domicilio, cit., pp. 5 seg.; v. anche M. Bellano, Il lavoro a domicilio dall’art. I R. D. 30 dicembre 1923, n. 3184 alla L. 13 marzo 1958, n. 264, in «Rivista di diritto del lavoro», 1962, I, pp. 68 seg.
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Così il divieto di lavoro domenicale (art. 1, n. 3, L. 22 febbraio 1934, n. 370); il limite dell’erario di lavoro giornaliero o settimanale (R.D. 15 marzo 1923, n. 692); l’assicurazione contro la disoccupazione (art. 40, n. 3, R.D. L. 4 ottobre 1935, n. 1827); l’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali (art. 18, n. 1, R.D.L. 17 agosto 1935, n. 1756); gli assegni familiari (art. I, lett. d), R.D.L. 17 giugno 1937, n. 1084).
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Oltre alle norme già cit. alla nota 78, l’assicurazione di invalidità, vecchiaia e tubercolosi (art. 37 R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827).
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Esprime un apprezzamento positivo sulla definizione M. De Cristofaro, op. cit., p. 13. Sottolinea che la definizione era utile anche a distinguere i lavoratori a domicilio dagli artigiani G. Mazzoni, Manuale di diritto del lavoro, vol. I, Milano, 5a ed., 1977, pp. 799 seg.
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M. De Cristofaro, loc. ult. cit.
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L. Barassi, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, Milano, 1a ed., 1901, ma specialmente id., Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, vol. I, Milano, 2a ed., 1915, pp. 617 seg. da cui cito. Lo stesso Barassi mostrò poi di avere mutato opinione, ritenendo il lavoro a domicilio quale fattispecie marginale del lavoro subordinato: cfr. Id., Diritto corporativo e diritto del lavoro, vol. II, Milano, 1942, pp. 20 seg.
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Il rischio era inteso come rischio economico relativo al risultato della produzione, e non invece come rischio inerente alla perdita, al deterioramento o all’inesatta esecuzione dell’opera, connaturato al sistema del cottimo (tipico del lavoro a domicilio) e pienamente compatibile con il rapporto di lavoro subordinato: v. A. d’Harmant François, voce Lavoro a domicilio,in Enciclopedia del diritto, vol. XXIII, Milano, 1973, p. 444.
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P. Greco, Il lavoro a domicilio, cit., p. 291.
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L’assimilazione doveva riguardare il trattamento normativo; forti dubbi permanevano invece sull’applicazione delle tariffe di cottimo; tuttavia, secondo P. Greco, op. cit., p. 292, le preoccupazioni erano ingiustificate, poiché l’eventuale livellamento delle retribuzioni non avrebbe eliminato gli altri vantaggi (risparmio di spese, rischi e oneri) del ricorso al lavoro a domicilio.
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P. Greco, op. cit., p. 285.
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P. Greco, op. cit., p. 289.
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Cfr. M. De Cristofaro, Il lavoro a domicilio, cit., p. 14.
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L. Riva Sanseverino, La tutela dei lavoratori nella carta corporativa. Studio per la celebrazione del decennale della c.d.l., in «Il diritto del lavoro», 1937, I, p. 369.
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L’estensione dei contratti collettivi di categoria non implicava il riconoscimento della natura (giuridica) subordinata del lavoro a domicilio; aveva infatti insegnato L. Barassi, Il contratto di lavoro, I, cit., pp. 618 seg., che l’autonomia non doveva considerarsi incompatibile né con la presenza di un vincolo di subordinazione economica, né col carattere stabile e duraturo del rapporto di lavoro fra creditore e debitore dell’opera. D’altra parte, era opinione generalmente condivisa che anche il lavoro autonomo potesse essere oggetto di disciplina collettiva: l’art. 2 L. 3 aprile 1926, n. 563 aveva già previsto le associazioni sindacali dei liberi professionisti e degli artigiani, anche se le prestazioni di queste categorie di «lavoratori» non erano assoggettate alla disciplina di un contratto collettivo.
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L. Riva Sanseverino, loc. ult. cit. Per qualche riferimento alla normativa in materia di inquadramento sindacale, v. P. Cipressi, La nuova nozione di lavoratore a domicilio, in «Il diritto del lavoro», 1974, I, pp. 172 seg.
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Ancora L. Riva Sanseverino, loc. ult. cit.; sulle ordinanze 1° giugno 1935 e 11 gennaio 1936 v. G. Mazzoni, Manuale di diritto del lavoro, I, cit., p. 801.
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Così M. De Cristofaro, Il lavoro a domicilio, cit., p. 18; Petraccone, Il lavoro a domicilio e la nuova legge 13 marzo 1958, n. 264 perla sua disciplina in «Rivista giuridica del lavoro», 1959. I. pp. 157 seg.
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L. Mariucci, I limiti legali del decentramento produttivo, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1976, p. 1497; l’a. ha ora dato ampio sviluppo all’argomento nel vol. Il lavoro decentrato. Discipline legislative e contrattuali, Milano, 1979.
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G. Pera, Lezioni di diritto del lavoro, 3a ed., Roma, 1977, p. 377.
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G. Pera, op. cit., p. 378.
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G. Rabaglietti, Mania e fobia nel diritto corporativo, in «Giustizia del lavoro», 1930, pp. 300 seg. Lo scritto di Rabaglietti è recensito con molta acredine sul «Diritto del lavoro», 1931, I, p. 90; l’anonimo recensore così conclude: «Il dir male degli studiosi di diritto corporativo sta diventando una moda! [...] Passatempi... Ma non di eccessivo buon gusto: specie da parte di chi stia sui margini dell’arena e non abbia ancora dato eccelsi contributi alla tenzone e neppure tangibili prove di serie qualità scientifiche». Tuttavia Rabaglietti non era il solo classificatore; v., del ben più autorevole G. Chiarelli, I semplicisti del diritto corporativo, in «Giustizia del lavoro», 1930.
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Cfr. U. Romagnoli, Il diritto sindacale corporativo ed i suoi interpreti, in «Storia contemporanea», 1970, pp. 105 seg., e ora in U. Romagnoli, Lavoratori e sindacali tra vecchio e nuovo diritto, Bologna, 1974, pp. 187 seg., da cui cito. Condivido la tesi di Romagnoli sulla continuità tra l’ideologia giuridica del tardo liberismo e l’ideologia giuridica corporativa: la continuità non esclude però che gli operatori giuridici si fossero tempestivamente inseriti nella dialettica dei rapporti di potere, «assecondandone la mistificazione ideologica con l’apporto della loro tecnica interpretativa [...] abbastanza smaliziata e disinvolta per fondare le premesse di un sostegno organizzato ad una politica del diritto adeguata ai tempi» (U. Romagnoli, op. cit., p. 211).
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Per «decoro» intendo non solo lo stile non pienamente «fascistizzato» (cioè ‒ come ha scritto N. Bobbio, Profilo ideologico del novecento, in Storia della letteratura italiana, a cura di N. Sapegno, vol. IX, Milano, 1969, p. 208 ‒ ridotto a formule rituali, a dommatica, oppure a sfoghi sentimentali, tra il mistico e l’apologetico), ma il maggior acume politico di quei giuristi che manifestavano la tendenza ad interpretare la legislazione sindacale corporativa alla stregua dei principi generali del passato, conservando tutto quanto era possibile conservare del patrimonio accumulato dalla scienza del diritto. Sulle opere di questi giuristi dovevano appuntarsi le violente critiche del gentiliano A. Volpiceli, Corporativismo e scienza giuridica, Firenze, 1934, che se la prendeva con Carnelutti, Santi Romano, Cesarini Sforza, Paolo Greco, e persino col «disagitato» Carlo Costamagna, lutti colpevoli di aver dato del corporativismo un’interpretazione tradizionalistica, «pedissequamente aggirantesi nell’orbita dei vecchi presupposti e schemi scientifici» (p. 26), di aver conservato l’antiquato concetto individualistico del diritto, di avere riproposto «l’assurdo dualismo fra società (popolo, istituzioni sociali) e stato». Per questo teorico dello stato corporativo, immanente agli individui e con essi coincidente, «chi vinca il più legittimo senso di repulsione e scenda ad esaminare quelle trattazioni, ha la prova provata di questo asserto: che esse rinvergano di tutto punto con le concezioni scientifiche verbalisticamente aborrite e solo immaginariamente scrollate» (p. 24).
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Benché Bollai stesso giudicasse controproducenti gli estremismi dei giuristi-politici la sua posizione mediana a proposito della scienza giuridica è espressa con chiarezza nel discorso dell’inaugurazione del corso di legislazione corporativa presso l’Università di Pisa (13 novembre 1928), negli articoli pubblicati (specialmente su «Il diritto del lavoro») negli anni tra il ‘27 e il ‘32, e soprattutto nella relazione al 2° convegno di studi sindacali e corporativi (Ferrara, 5-8 maggio 1932, in Atti, Roma, 1932), quando il trenta- seienne ministro delle corporazioni, al massimo della potenza e del prestigio, chiese alla scienza giuridica di «congiungere e contemperare le indagini de lege condita con quelle de lege condenda, di tenere presenti il senso della continuità del diritto col senso della sua progressività, di congiungere considerazioni di carattere politico a quelle di ordine tecnico». Sul convegno di Ferrara, importante per lo scandalo suscitato dalla relazione di U. Spirito (ma il c.d. corporativismo di sinistra della «corporazione proprietaria» doveva avere vita breve: il suo ideatore proponeva poco dopo il convegno di lasciarla da parte e non pensarci più), cfr. S. Cassese, Un programmatore degli anni trenta: Giuseppe Bottai, in «Politica del diritto», 1970, pp. 415 seg.; G. B. Guerri, Giuseppe Bottai un fascista critico, Milano, 1976, pp. 106 seg., cui rinvio per la bibliografia di e su Bottai: qualche cenno anche in C. Schwarzenberg, Il sindacalismo fascista, Milano, 1973, pp. 61 seg. L’opinione del «critico» Bottai che il diritto non dovesse piegarsi alla ragione politica, bensì interpretarsi secondo questa; che il giurista non dovesse far politica ma semplicemente farsi una sensibilità politica (G. Bottai, editoriale Bilancio, in « Il diritto del lavoro», 1931) trova qualche riscontro negli scritti di diritto sindacale e corporativo pubblicati nelle riviste da lui dirette. Quegli scritti mostrano, peraltro, la corda della «libera discussione» promossa dal ministro, rendendo evidente quanto esiguo fosse il limite di tolleranza al non-allineamento dei giuristi, e quanto rapida la piena fascistizzazione di questo settore della cultura. Cosí U. Romagnoli, op. cit., p. 196.
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Tra le opere dedicate alla legislazione sociale in generale, possono ricordarsi: G. Balella, Lezioni di legislazione del lavoro, I, Roma, 192; L. Barassi, Diritto del lavoro e assicurazioni sociali, Milano, 1930; U. Borsi, Elementi di legislazione sociale e del lavoro, Bologna, 1936; G. D’Eufemia, Diritto del lavoro (Legislazione, Dottrina, Giurisprudenza), Milano, 1937; D. O. Fantini, Politica economica e legislazione del lavoro in Italia,prefazione di A. Rocco, Firenze, 1927; Id., Corso completo di legislazione sociale e del lavoro, Perugia, 1930; M. Franchini, La disciplina del lavoro,prefazione di G. Bottai, Firenze, 1928; M. Fossati, Corso di legislazione del lavoro, Firenze, 1928; P. Greco, Lezioni di legislazione del lavoro, Torino, 1937; A. Grechi e V. Barile, Istituzioni di legislazione sociale, cit.; G. Landi. Elementi di legislazione del lavoro, Genova 1929; G. Mazzoni, Corso di legislazione comparata del lavoro, Milano, 1936; N. Palopoli, Legislazione del lavoro, Padova, 1930; L. Riva Sanseverino, Lezioni di legislazione del lavoro, Padova 1934; Ead., Corso di diritto del lavoro, Padova, 1937; F. Santoro Passarelli, Legislazione del lavoro, Padova, 1936.Sulla tutela delle lavoratrici le monografie di un certo rilievo sono poche; poiché non mi è stato possibile reperire parte del materiale, e quindi controllare di persona, cito senza pretese di completezza e perfetta omogeneità tecnica: S. Baravalle, Maternità ed infanzia e previdenza sociale, Vercelli, 1931; G. Barnabò-Siloratta, Assicurazione per la maternità, Torino, 1928; O. Di Marco, La legislazione fascista per l’incremento demografico e l’assistenza sociale, Campobasso, 1938; E. Giordano, Norme sul lavoro delle donne e dei fanciulli, Modena, 1934; F. Guidotti, Il lavoro delle donne e dei fanciulli e la tutela della maternità delle lavoratrici, cit.; A. Lo Monaco-Aprile, La protezione sociale della madre e del fanciullo in Italia e all’estero, Bologna, 1923; L. Riva Sanseverino, Legislazione fascista del lavoro femminile, Napoli, 1933.Di un certo interesse qualche articolo, per lo più breve: C. Alessandri, La tutela igienico sanitaria della donna e del fanciullo sul lavoro, in «Maternità e infanzia»), 1927, II, pp. 57 seg.: Id., La legislazione per l’assistenza nella maternità e nel puerperio, ivi, febbraio 1931; G. Gini Alessandri, Il lavoro della donna e il sindacalismo fascista, In «Il diritto del lavoro», 1927, pp. 933 seg.; A. Anselmi, La nuova tutela giuridica del lavoro delle donne e dei fanciulli, in « Politica sociale», 1933, n. 12; G. Bottai, La madre e il fanciullo nella previdenza sociale, in «Politica sociale», 1933, pp. 842 seg.; R. Del Giudice, Legislazione sociale e incremento demografico, in «Critica fascista», 1934, pp. 18 seg.; G. D’Eufemia, Il lavoro delle donne nelle legislazioni germanica, francese e russa, in «Giustizia del lavoro», 1933, pp. 471 seg.; E. Fodale, La famiglia e le leggi del lavoro, in «Rivista del lavoro», 1938; M. Guy, La maternità nel lavoro, in « Il lavoro fascista», 28.2.1929; A. Maroi, Lo sviluppo d’una politica familiare nelle assicurazioni sociali, in Atti del convegno di studi sindacali e corporativi, Ferrara, 5-8 maggio 1932, Roma, 1932.
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V. per tutti F. Guidoni, Il lavoro delle donne e dei fanciulli e la tutela della maternità delle lavoratrici, cit.; il lungo saggio di Guidotti costituisce la trattazione più completa ed organica dedicata da un giurista, durante il periodo fascista, alle leggi allora vigenti sul lavoro femminile.
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Così A. Toffoletto, nota a Pret. Salò, 20 maggio 1930, in «Il diritto del lavoro», 1930, II, pp. 499 seg., qui 500.
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L’esempio più clamoroso di asservimento degli esponenti del mondo scientifico ed accademico alle direttive del regime veniva dagli statistici, dai demografi e dai medici, responsabili di falsificazioni grossolane a sostegno della «battaglia demografica»; cfr. P. Meldini, Sposa e madre esemplare,cit.. pp. 84 seg.
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In un articolo pubblicato su «Lo stato operaio», marzo 1928, in Lo stato operaio. 1927-1939, antologia a cura di F. Ferri, vol. I, Roma, 1964, pp. 170 seg., e dedicato alla recensione dei primi dieci numeri di «Critica fascista», i comunisti italiani davano del diciannovismo questa definizione: movimento di piccola borghesia venuta a galla nel corso della guerra, reazionario in un duplice senso: di fronte al grande capitalismo e di fronte al proletariato. Diffidenti verso il sindacalismo fascista (e di qui il latente contrasto fra «Critica fascista» e «Il lavoro d’Italia»), secondo i comunisti i diciannovisti conservavano rancore e odio anti operaio, e continuavano a servire il capitalismo nei quadri del partito, come prima lo avevano servito nelle squadre d’azione.
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Per gli anni in cui sorse la questione di cui mi occupo nel testo, l’eventuale spettanza dell’indennità di anzianità (detta, più frequentemente, di licenziamento) non poteva che riguardare l’impiegata privata. L’istituto dell’indennità era stato introdotto con il R.D. 9 febbraio 1919, n. 112 per gli impiegati privati, e poi nuovamente con il R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825, sempre per i soli impiegati. La carta del lavoro (dich. XVII) prevedeva l’attribuzione dell’indennità ai «lavoratori», mentre il R.D. 1° luglio 1926, n. 1130 considerava la regolamentazione del diritto all’indennità come elemento necessario del contratto collettivo corporativo. In ossequio a questi principi, la contrattazione collettiva corporativa antecedente l’entrata in vigore del cod. civ. (che estese agli operai l’indennità, e generalizzò i risultati contrattuali) diede sviluppo alla disciplina dell’indennità di anzianità, prevedendone la (parziale) corresponsione anche in caso di dimissioni volontarie dell’impiegato, ed estendendola, ma in limiti quantitativi modesti, ad alcune categorie operaie. Sull’evoluzione storica della normativa in materia v., per tutti, C. Smuraglia, Riflessioni sull’indennità di anzianità, in «Rivista giuridica del lavoro», 1977, I, pp. 253 seg.
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La doppia esclusione delle dimissioni volontarie e del licenziamento per mancanze illuminavano la funzione allora prevalentemente assegnata all’indennità di anzianità; funzione di cui la dottrina recente ha dato versioni diverse: v. ancora C. Smuraglia, op. cit., e ivi riepilogo del dibattito. Non entro nel merito; mi pare tuttavia interessante richiamare un intervento di G. Landi, Tutela e previdenza sociale. Discorso pronunciato alla camera dei deputati. 7 marzo 1933, in «Il diritto del lavoro », 1933, I, pp. 147 seg., il quale, al fine di tranquillizzare gli industriali, che lamentavano l’eccessivo costo degli accantonamenti in una fase di crisi economica (sempre uguali, questi industriali!), ricordava come l’indennità di licenziamento, consolidando un premio a favore degli impiegati che avessero maturato una lunga anzianità, consacrasse un principio di previdenza «tipica della collaborazione di classe». Nello stesso intervento alla camera, Landi esprimeva anche l’opinione che sarebbe stato opportuno estendere il diritto all’indennità agli impiegati anziani dimissionari: per incoraggiarli ad andarsene, lasciando il posto ai giovani.
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A quanto riferisce la dottrina del tempo, erano frequenti nei regolamenti interni delle aziende clausole del tipo: «le impiegate che contraggono matrimonio non possono conservare il loro posto, e dovranno presentare le dimissioni con preavviso di un mese» (reg. soc. telefonica salentina, cit. da A. Cavallo), nota a Pret. Taranto, 3 dicembre 1929, in «Il diritto del lavoro», 1930, II, p. 673). Sempre secondo quella dottrina, in ottemperanza alle direttive demografiche del regime, molti contratti collettivi contenenti clausole analoghe erano stati modificati; può darsi: ma la sopravvivenza, nei regolamenti delle aziende e degli enti pubblici, delle clausole di nubilato è documentata dalla necessità (che il nostro legislatore ha avvertito solo nel 1963: infra, cap. IV, par. 3) di vietare per legge il licenziamento (o le dimissioni forzate) per causa di matrimonio.
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Commissioni arbitrali provinciali per l’impiego privato e commissione centrale per l’impiego privato, soppresse (insieme ai collegi dei probiviri) con il R.D. 26 febbraio 1928, n. 471, che devolvette la competenza sulle controversie individuali di lavoro, in 1° grado, ai pretori e ai tribunali, nei limiti della rispettiva competenza per valore. Sul R.D. n. 471/1928, v. D. Preti, La regolamentazione delle controversie «individuali» di lavoro in regime fascista, in «Studi storici» aprile-giugno 1977, pp. 125 seg., e ivi ampi riferimenti bibliografici.
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Coll. arb. imp. priv. Torino, 5 marzo 1927, in «Foro italiano». Repertorio 1927, voce «Impiego privato», nn. 299-300; Comm. centr. imp. priv., 27 agosto 1927, ivi, nn. 297-298; Comm. centr. imp. priv., 27 dicembre 1927, ivi, 1928, voce «Impiego privato», n. 234.
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Comm. centr. imp. priv., 17 dicembre 1927, in «Il diritto del lavoro», 1928, II, p. 215; Comm. centr. imp. priv., 15 febbraio 1929, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1928, p. 248; App. Bari, 5 febbraio 1930, in «Foro italiano», 1930, I, c. 639; Pret. Taranto, 3 dicembre 1929, in «Il diritto del lavoro». 1930, II, p. 672.
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A Toffoletto, nota a Pret. Salò, 20 maggio 1930, cit., p. 500.
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Pret. Padova, 23 agosto 1929, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1929, p. 514.
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Nel R.D.L. n. 1825/1924, la disdetta data dal principale era denominata «licenziamento»; quella data dall’impiegato «dimissioni dal servizio». Nella dich. XVII della carta del lavoro, l’indennità di anzianità era genericamente attribuita ai «lavoratori » (ma per legge competeva solo agli impiegati) in caso di «licenziamento senza colpa».
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L’unica legge che avesse dato attuazione alla politica demografica (nell’ambito dei rapporti di lavoro) era la L. 6 giugno 1929, n. 1204, il cui art. 1 disponeva che «in nessun caso lo stato di celibe e di nubile ovvero la conservazione dello stato stesso può costituire titolo di preferenza per gli impiegati dello stato»; l’art. 2 della legge estendeva tale disposizione ai contralti di impiego privato. In applicazione delle suddette disposizioni, v. App. Genova, 27 febbraio 1931, in «Foro italiano», Repertorio 1931, voce «Impiego privato», n. 484, secondo cui doveva ritenersi illegittimo il licenziamento di un impiegato ammogliato con prole, quando risultassero dipendenti della stessa azienda impiegati celibi e di pari merito. Anche in questo caso la politica demografica non portava a conseguenze troppo sgradite ai datori di lavoro: la corte genovese escludeva infatti che si potesse ordinare la riassunzione in servizio dell’impiegato licenziato, riconoscendogli solo il diritto al risarcimento del danno.
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C. Alessandri, Nuzialità e maternità nel diritto corporativo, in «Maternità e infanzia », 1930, pp. 915 seg. L’a., capo dell’ufficio tecnico dei sindacati nazionali fascisti, commentando favorevolmente la sentenza del pretore di Padova, osservava: «Si comprende che l’indennità non spetti a chi si dimetta per correre l’alea di un miglioramento o di un avanzamento, giacché è evidente che debba farlo a suo rischio e pericolo. Ma non si comprende che l’indennità non sia accordata alla dipendente, la quale non cambia di posto o di azienda, ma rinunzia allo stipendio od al salario per compiere nella famiglia la sua missione di donna».
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A. Cattaneo, Il matrimonio dell’impiegata e il caso di forza maggiore, in «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 1929, pp. 514 seg.
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A. Cattaneo, op. cit., p. 515. Questi, affermazione, che Cattaneo faceva in tono paradossale, doveva essere ripresa ‒ e non più come paradosso ‒ da altri autori, per affermare la volontarietà delle dimissioni per causa di matrimonio.
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Soprattutto nella parte relativa alla disciplina delle condizioni di lavoro, il testo definitivo della carta del lavoro (titoli II, III) mostra «il progressivo accentuarsi dell’intonazione inconfondibilmente propria delle espressioni di credo politico: il che costituisce un’innovazione di tendenza rispetto al primo progetto i cui paragrafi ‒ segnatamente quelli afferenti alle condizioni di lavoro e al collocamento ‒ sono formulati in modo da prefigurare una compiuta disciplina giuridica. Naturalmente, i modi stilistici non sono fini a se stessi, ma esprimono una scelta politica» (così U. Romagnoli, op. cit., p. 206, e ivi brani di documenti inediti che si aggiungono a quelli già pubblicati da R. De Felice, Mussolini, il fascista, vol. II, L’organizzazione dello stato fascista, 1925-29, Torino, 1968, pp. 269 seg.; Appendice n. 5, pp. 525 seg., sulla formazione della carta del lavoro). La scelta politica cui allude Romagnoli, cioè l’adozione del metodo della formulazione per principi ‒ talvolta ambigui ‒ era il frutto di un compromesso, fortemente sbilanciato dalla parte degli industriali, fra le posizioni dei sindacalisti di Rossoni (posizioni espresse nel progetto di «carta» elaborato dalla confederazione nazionale dei sindacati fascisti, quasi un codice del lavoro), e le contrastanti posizioni della confederazione nazionale dell’industria, contraria alla «codificazione» (cioè alla generalizzazione di istituti quali l’indennità di anzianità, le ferie, il limite delle otto ore, il salario «minimo » contrattuale, ecc.). Anche il declassamento della carta del lavoro da atto giuridico ad atto meramente politico (fino alla tardiva trasformazione nella legge 30 gennaio 1941, n. 14) può considerarsi una manifestazione di debolezza del regime di fronte alle oligarchie economiche. Per le vicende della laboriosa elaborazione della carta del lavoro v., per tutti, R. De Felice, op. cit., pp. 222 seg.; attribuisce un ruolo determinante alla mediazione di Bottai, anziché di A. Rocco, G. B. Guerri, Giuseppe Bottai un fascista critico, cit., pp. 94 seg. Utile mi pare il confronto con la dettagliata lettura a caldo che della carta, «documento di classe, della classe contro cui il proletariato italiano è in lotta», diedero i comunisti italiani: La carta del lavoro, in «Lo stato operaio», 3 maggio 1927, riportato nell’antologia Lo stato operaio 1927-1939, I, cit., pp. 67 seg.
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Le già cit. decisioni della Comm. centr. imp. priv., 15 febbraio 1929; Pret. Taranto, 27 novembre 1929; Pret. Padova, 23 agosto 1929 vennero pubblicate ne «Il diritto del lavoro», 1930, II, pp. 259 seg., con nota contraria di A. Cavallo. Nello stesso anno la rivista pubblicò le seguenti sentenze: Pret. Salò, 20 maggio 1930, ivi, p. 498; Mag. Lavoro Venezia, 23 dicembre 1929; Pret. Siena, 7 marzo 1930; Pret. Firenze, 28 febbraio 1930; Pret. Biella, 24 ottobre 1930; Pret. Prato, 22 dicembre 1930, ivi, pp. 665 seg., tutte contrarie all’attribuzione dell’indennità all’impiegata dimissionaria per causa di matrimonio. La rivista ripubblicò anche la sentenza Pret. Taranto, 27 novembre 1929, ivi, p. 672, con una nuova nota contraria di A. Cavallo).
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A. Toffoletto, nota a Pret. Salò, cit.; A. Cavallo, note cit.; E. Fidale, nota a Pret. Prato, 22 dicembre 1930, in «Il diritto del lavoro», 1930, II, pp. 671 seg. Anche il «Massimario di giurisprudenza del lavoro» aveva continuato ad interessarsi della questione, pubblicando un intervento di A. Rossini, All’impiegata che si dimette in occasione del matrimonio non spettano le indennità di legge, nota a Pret. Siena, 7 marzo 1930, ivi, 1930, pp. 339 seg.
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Cass. Regno, 10 febbraio 1934, in «Il diritto del lavoro», 1934, II, p. 515. Secondo la cassazione, il matrimonio della donna non costituiva ostacolo alla continuazione del rapporto: tuttavia, ove nel regolamento dell’azienda fossero previste le dimissioni per seri motivi, e si accordasse nel caso l’indennità di anzianità, fra tali motivi si sarebbe dovuto comprendere il matrimonio. La cassazione censurava quindi la tesi della forza maggiore (sostenuta ancora da Pret. Milano, 1° maggio 1933, in «Il diritto del lavoro», 1933. II, p. 353, secondo il quale il matrimonio era «sano motivo di dimissioni» con nota contraria di A. Toffoletto, che vi ribadiva le sue critiche contro i richiami retorici alla campagna demografica); la cassazione correggeva invece a favore dell’impiegata l’interpretazione delle clausole contrattuali o regolamentali, che prevedessero casi di dimissioni con indennità. Tali clausole erano state infatti intese ancora in senso restrittivo da: Mag. Lavoro Milano, 31 dicembre 1912, in «Il diritto del lavoro», 1933, II, p. 354: Pret. Pavia, 17 febbraio 1933, in «Foro italiano», Repertorio 1933, voce «Impiego privato», n. 512.
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A. Cavallo, nota a Pret. Padova, 23 agosto 1929, cit.
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Può sorprendere tale atteggiamento verso la carta del lavoro; infatti i giuristi si erano affrettati, sulla scorta della famosa sentenza Cass. S.U., 28 luglio 1928, in Il diritto del lavoro», 1928, II, p. 251, a riconoscere alla carta, pure priva di qualsiasi valore giuridico, il carattere di «documento interpretativo dello spirito giuridico e della concezione sociale del regolamento dei rapporti di lavoro» (cosí L. Riva Sanseverino, La tutela dei lavoratori nella carta corporativa, cit., pp. 366 seg.). L’atteggiamento di ostilità, riscontrabile nel caso di cui ho riferito nel testo, si spiega però con l’uso vantaggioso per i lavoratori che i giudici avevano fatto della carta del lavoro.
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E. Fodale, nota cit., p. 671.
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A. Toffoletto, nota cit., p. 500.
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A. Toffoletto, nota cit., p. 501.
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Un ricco panorama del dibattito fra giuristi c.d. puri e giuristi c.d. politici lo offre il vol. La concezione fascista del diritto di proprietà, a cura della con federazione fascista dei lavoratori dell’agricoltura, Roma, 1939.
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Benché il R.D.L. n. 1825/1924 segnasse un arretramento, a svantaggio degli impiegati, rispetto al D.LGT. del 1919, «pur all’interno di una determinata linea politica di netto stampo autoritario e conservatore, la distribuzione relativa dei vantaggi e svantaggi fra impiegati ed operai si è sempre chiusa a favore dei primi»: cosí F. Carinci, Alle origini di una storica divisione: impiego pubblico-impiego privato, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1974, pp. 1907 seg., qui 1145, cui rinvio per l’analisi della formazione della legge sull’impiego privato.
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Rinunciando all’emanazione di un codice del lavoro, nella redazione della carta del lavoro si era anche evitato di «generalizzare», cioè di estendere agli operai, alcuni dei trattamenti di cui già godevano gli impiegati (come l’indennità di licenziamento e le ferie). Destinatari principali della carta divenivano cosí i sindacati fascisti; ed è infatti alla contrattazione collettiva corporativa che si deve la realizzazione di quella progressiva omogeneizzazione normativa fra impiegati e operai, che troverà poi riscontro nel cod. civ. del 1942. L’omogeneità raggiunta nel periodo corporativo era però relativa: non solo perché compensata dalla enucleazione, fino dal 1926, della figura del dirigente, ma perché, al di là della disciplina generale delle condizioni di lavoro comune ad impiegati e operai, resistevano nella contrattazione trattamenti fortemente sperequati fra le due categorie di «collaboratori». Cfr. U. Romagnoli, Principio d’uguaglianza e inquadramento unico operai-impiegati, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1973, pp. 1102 seg., e ora in Lavoratori e sindacati tra vecchio e nuovo diritto,cit., p. 93 seg.
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A. Toffoletto, nota cit., p. 501.
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La frase è del Pret. Salò, nella cit. sentenza 20 maggio 1930.