Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c2
Il riferimento solo occasionale alle esigenze
degli imprenditori e l’enfatizzazione, invece, del carattere «fascista» (nella specie
demografico e corporativo) della legge n. 653 emergono chiaramente nelle giustificazioni
fornite a proposito di due particolari disposizioni. In primo luogo, la previsione
dell’abbassamento del limite minimo di età per l’ammissione al lavoro da quattordici a
dodici anni
[54]
, che era spiegata con l’opportunità (a fini educativi e di
sorveglianza) di far lavorare i fanciulli, specie nei periodi delle vacanze scolastiche,
in cui sarebbero rimasti abbandonati a se stessi. In secondo luogo, per i riposi
intermedi, la possibilità che i contratti collettivi prevedessero una riduzione del
riposo legale
[55]
; la singolare disposizione
[56]
era spiegata da Mussolini in questi termini: la norma ha un interessante
aspetto innovativo, perché la legge precedente, pur consentendo la stessa possibilità di
ridurre la durata dei riposi, prescriveva una «complicata procedura di marca prettamente
democratica, basata sulla votazione degli operai della fabbrica; la nuova legge
sostituisce il principio, ben più efficace, della rappresentanza
giuri
¶{p. 67}dica degli interessi di categoria».
Rispetto alla disciplina del lavoro delle donne
contenuta nella legge n. 653 del 1934, era separato il trattamento delle lavoratrici
madri, tutelate da una legge essa pure definita di ordine pubblico (L. 5 luglio 1934, n.
1347). La separazione serviva ad isolare il tema della maternità ed a sottolinearne la
centralità nella politica anche legislativa del fascismo; la legge sulle lavoratrici
madri si riallacciava però strettamente, nell’ispirazione, alla contemporanea legge sul
lavoro delle donne e dei fanciulli, tanto da essere considerata, dal governo e dai
giuristi che la commentavano
[57]
, la naturale integrazione di quella.
Peraltro, la speciale tutela delle lavoratrici
madri non costituiva una novità nell’esperienza legislativa del periodo: la L. n.
1347/1934 era stata preceduta dal R.D.L. 13 maggio 1929, n. 850, con il quale era stato
già ampliato il periodo di congedo obbligatorio ed esteso l’ambito dell’assicurazione
per la maternità. Come già gli interventi legislativi sul lavoro delle donne e dei
fanciulli anche, e a maggior ragione, le norme sulla maternità delle lavoratrici, erano
considerate parte delle varie misure demografiche che il regime era venuto adottando:
prima fra tutte la legge 10 dicembre 1925 con cui era stata istituita l’O.N.M.I, ente
con finalità assistenziali, con ampie competenze, molto potere e larghi finanziamenti,
dotato di strutture tali da consentire un’utilizzazione privatistico-clientelare
dell’assistenza, «ispirata da una concezione [...] a metà tra tutela e controllo
poliziesco»
[58]
. Ancora, la legge del 1929 contro il celibato
[59]
e, infine, la «campagna propagandistica altrettanto
strisciante quanto totalizzante»
[60]
che doveva sfociare, nel 1933, nella prima giornata nazionale della madre e
del fanciullo, «ordinata [...] allo scopo di suscitare nei giovani, uomini e donne,
questo forte sentimento, questo nuovo senso storico della stirpe che deve ridare al
cittadino fascista l’orgoglio del civis romano»
[61]
.
3. Significato ed implicazioni della «protezione» nelle leggi del 1934.
L’alto valore delle leggi sul lavoro delle donne
come¶{p. 68} strumenti di politica demografica era ossessivamente
affermato dai commentatori (giuristi e non). Ma, al di là delle ragioni della propaganda
demografica, premeva evidentemente al regime raggiungere, con queste leggi, anche
l’obbiettivo di regolare compiutamente il lavoro femminile.
Secondo l’opinione di uno studioso allora
reputato, Bruno Biagi
[62]
, «una politica demografica diretta al potenziamento
numerico della stirpe, deve preoccuparsi di tutti i problemi inerenti al lavoro delle
madri operaie [...]. In questo campo la politica sociale può fare molto, là ove i
rapporti di lavoro possono essere tutelati e la donna operaia venire particolarmente
protetta. Non sembra infatti che il sistema migliore sia quello di licenziare l’operaia
madre provvedendo ai suoi bisogni con premi e sussidi»; al contrario, le lavoratrici
devono essere tutelate, ma la tutela deve «assumere un carattere assistenziale,
igienico-sanitario, in vista della loro funzione di madri ». Aggiungeva poi Biagi, a
titolo di chiarimento e per sottolineare (lo scritto che cito è del 1933) le differenze
tra la politica fascista e la drastica politica di espulsione già attuata in Germania
[63]
: «prescindendo dalle conseguenze che derivano dal più largo impiego di
maestranze femminili per quanto attiene alla disoccupazione [...] l’occupazione delle
donne nei lavori, specie industriali, può avere e spesso ha gravi ripercussioni di
carattere igienico e sociale [...]. È anche dimostrato che l’impiego di donne
nell’industria è causa di denatalità, di dannose conseguenze sulla salute dei fanciulli,
di peggioramento della razza». Ciò nonostante, «un provvedimento che vieti l’assunzione
al lavoro delle donne non sarebbe né utile né giusto: il divieto sussiste solo [...] ove
vi sia un interesse più generale da tutelare». Il regime fascista, insomma, «applica un
criterio di provvida tutela e di ampia assistenza, che deriva dal concetto che esso ha
del lavoro come dovere sociale».
L’autore concludeva, quindi, osservando che, data
l’impossibilità di eliminare (con i licenziamenti) le conseguenze «lamentate ovunque»
dell’occupazione delle donne ‒ specie madri ‒ nel lavoro extra domestico, sarebbe
spettato ai sindacati fascisti influire sulla situazione, e convincere le donne della
necessità di far lavorare gli uomini: «vi sono¶{p. 69} molti modi di
utilizzare, nel lavoro a domicilio, nelle piccole industrie casalinghe, la capacità di
lavoro delle donne. Una ripresa di queste attività familiari potrebbe giovare
all’economia del paese e alla sanità della razza».
Le parole di Bruno Biagi illustrano, con rara
chiarezza, quali intenzioni e preoccupazioni dovessero ispirare la legislazione fascista
sul lavoro delle donne (e madri in particolare). Premesse dell’intervento legislativo
erano le seguenti direttive: lo stato deve tutelare le donne come madri o future madri;
nello stato fascista le donne devono lavorare, ma possibilmente non devono lavorare
fuori casa. Gli obbiettivi conseguentemente assegnati alle leggi sul lavoro delle donne
erano essenzialmente due: a) la protezione delle lavoratrici
occupate (quindi la tutela dell’integrità fisica e morale delle donne occupate nei
lavori considerati meno favorevoli alla loro prolificità; la salvaguardia del posto di
lavoro per le lavoratrici incinte); b) la predisposizione degli
strumenti necessari a prevenire lo stesso insorgere del problema della protezione delle
donne contro i rischi fisici e morali del lavoro extra domestico.
Sotto il profilo della tutela delle lavoratrici
le leggi del 1934 erano adeguate agli obbiettivi che il regime si era posto. Soprattutto
la legge sulle lavoratrici madri, che aveva un carattere fortemente protettivo (almeno
se comparata alla legislazione sul lavoro del tempo): la legge estendeva infatti il
periodo di assenza obbligatoria dal lavoro (dall’ultimo mese di gravidanza a sei
settimane dopo il parto); stabiliva il diritto alla conservazione del posto di lavoro
durante la gravidanza (a partire dal sesto mese); garantiva alla madre due periodi
giornalieri di riposo per l’allattamento (fino al compimento di un anno di età del
bambino); obbligava i datori di lavoro che impiegassero più di cinquanta donne
all’istituzione delle camere di allattamento. Ancora, la legge aboliva il sussidio che,
a norma della legge precedente, era ancora dato durante il congedo a titolo di
disoccupazione, sostituendolo con un «sussidio di maternità»
[64]
.
Finalizzate all’affermazione dell’essenziale
funzione familiare e materna delle donne, le leggi del 1934 accordavano a queste «mezze
forze» lavorative assistenza e tutela igieni¶{p. 70}co-sanitaria
[65]
. Nessuna norma garantiva invece le lavoratrici contro i licenziamenti (cui,
da sempre, le ha esposte la condizione di coniugate
[66]
); nessuna norma sanciva il diritto delle lavoratrici ad essere qualificate e
retribuite come gli uomini. La disciplina giuridica del lavoro delle donne non
contemplava, per esse, alcuna affermazione del diritto al lavoro: così che la protezione
doveva risultare accentuatamente come protezione «dal lavoro» piuttosto che «nel
lavoro». Entro questi (pesanti) limiti, sia la legge n. 653 sul lavoro delle donne e dei
fanciulli, per la maggiore rigidità di utilizzo della manodopera femminile che aveva
imposto, sia la contemporanea legge n. 1347 sulle lavoratrici madri, apportavano però
notevoli miglioramenti alle leggi precedenti (retro, cap.
I).
L’una e l’altra legge portavano avanti,
perfezionandola, l’esperienza della legislazione protettiva prefascista, della quale
ripetevano, per certa parte, struttura e contenuti.
I fascisti potevano allora affermare di aver dato
alle lavoratrici più tutela di quanta ne avesse mai offerta loro lo stato liberale
[67]
. L’affermazione era legittima, ma solo in parte: invero, l’intento di
scoraggiare l’occupazione extra domestica delle donne che, come dirò subito, emergeva
chiaramente dalle scelte operate in sede legislativa, modificava sensibilmente il
significato dell’intervento c.d. protettivo
[68]
.
Ricordiamo che la legislazione (protettiva) sul
lavoro femminile era nata come tentativo di normalizzare l’occupazione degli operai
nell’industria (retro, cap. I), ponendo un freno (con i limiti agli
eccessi dello sfruttamento) all’impiego di donne, troppo massicciamente utilizzate
nell’industria tessile, allora dominante, e preferite agli uomini perché meno costose,
più diligenti e tranquille. Da tempo però (per la perdita di importanza del settore
tessile, e anche per l’intervento delle prime leggi di tutela) le donne avevano cessato
di essere la parte maggiore della classe operaia. Ciò non significa che avessero cessato
anche di essere supersfruttate: ma, una volta modificatasi la struttura industriale e
una volta sancite dalle leggi condizioni che avevano reso un po’ meno conveniente che
nel passato l’utilizzazione delle donne, i problemi delle lavoratrici ancora occupate
nell’industria erano dive¶{p. 71}nuti, per buona parte, comuni a quelli
degli uomini. Di fronte ad una composizione della forza lavoro che, a partire dal
dopoguerra, registrava la stagnazione (ed anche il regresso) della percentuale di donne
occupate, la conclamata sensibilità del regime verso le esigenze delle lavoratrici non
poteva da sola giustificare la scelta di circondare di norme protettive il lavoro
femminile, lasciando invece gli uomini privi di garanzie legali di fronte ad un potere
padronale che conosceva, nel periodo, ben pochi limiti.
Fin dalle prime battute della campagna
demografica e ruralista, il fascismo aveva mostrata chiara [‘intenzione di privilegiare
l’occupazione maschile (ovvero la preoccupazione per l’aumento della disoccupazione
maschile, più pesante politicamente e socialmente). Nel 1934, in piena autarchia, e
quando già il regime aveva stabilito «che per gestire la crisi economica occorreva
delegare ai grandi gruppi industriali la responsabilità di guidare l’economia anche a
costo di subirne un onere in termini di una inefficiente allocazione delle risorse e
soprattutto senza riguardi per l’occupazione»
[69]
, le leggi sul lavoro delle donne non potevano che ribadire
le scelte già compiute.
La rigidità del lavoro femminile, notevolmente
accentuata dalle leggi del 1934, segnalava in sostanza l’opportunità di non occupare
massicciamente le donne nel lavoro extradomestico: per mantenere il favorevole clima
politico e sociale, senza turbare il precario equilibrio del mercato del lavoro, che non
avrebbe sopportato la pressione di una nuova disoccupazione maschile, e senza
sconvolgere l’assetto autoritario della famiglia, fondato sulla rassegnata subalternità
delle donne inoccupate. La segnalazione non era inutile: in anni di relativa ripresa
economica, qualche tentazione poteva essere incoraggiata, tra i piccoli e medi
imprenditori, dalla politica salariale dei sindacati fascisti
[70]
.
Non richiede particolari sforzi di fantasia
interpretativa capire che leggi del 1934 si inserivano, senza contraddizioni, nel
disegno di scoraggiare gli imprenditori (industriali e commerciali) dall’occupare donne
anziché uomini. Basta fermare l’attenzione sulla definizione della sfera di
applicabilità di ambedue le leggi. Le disposizioni che
imponevano
¶{p. 72} nuovi e più pesanti oneri (intesi come rigidità del
lavoro femminile, contributi assicurativi, restrizioni ai licenziamenti) agli
imprenditori che avessero alle proprie dipendenze donne (madri e possibili madri)
[71]
erano accompagnate da una serie notevole di eccezioni: il
lavoro domestico, familiare, a domicilio, e agricolo
[72]
risultavano pressoché esclusi dall’applicazione di quelle
disposizioni.
Note
[54] In base all’art. 7. L. n. 653, il ministro per le corporazioni poteva autorizzare l’occupazione in determinati lavori di fanciulli di età non inferiore ai 12 anni compiuti, sempre che tali lavori fossero compatibili con le esigenze di tutela della salute e della moralità del fanciullo, e quando fosse richiesto da particolari condizioni aziendali, da speciali esigenze tecniche del lavoro, o fosse necessario per la formazione delle maestranze. Le ipotesi di deroga erano dunque formulate con tanta studiata genericità, da consentire l’uso elastico del divieto.
[55] Il R.D.L. 15 marzo 1923, n. 692, fissa in 8 ore giornaliere o 48 settimanali l’orario normale di lavoro, prevedendo casi in cui è consentito superare tale limite e casi in cui non è fissato alcun limite. La legge del 1934 prescriveva, per casi cui non si applicasse il decreto del 1923, che l’orario di lavoro delle donne e dei fanciulli non potesse eccedere rispettivamente le 11 e le 10 ore giornaliere (art. 17; l’art. 18 regolava i riposi intermedi).
[56] La subordinazione, nella gerarchia delle fonti, del contratto collettivo corporativo alle leggi e ai regolamenti, rendeva anomala la previsione della deroga (per contratto) ad una norma di legge che, per il suo contenuto, avrebbe dovuto essere classificata tra le norme inderogabili. Tale anomalia si riproduce, per certi aspetti, nella nuova legge n. 903/1977: infra, cap. VI.
[57] V., per tutti, F. Guidotti, Il lavoro delle donne e dei fanciulli e la tutela della maternità delle lavoratrici, in Trattato di diritto del lavoro, cit., II, pp. 369 seg.
[59] Su cui, per qualche considerazione, infra, par. 4.
[60] E. Santarelli, Il fascismo e le ideologie antifemministe, cit., p. 89.
[61] Così W. Gorjux, La festa del popolo che si eterna, riportato in antologia da P. Meldini, Sposa e madre esemplare, cit., pp. 225 seg.
[62] B. Biagi, Scritti di politica corporativa, Bologna, 1934, pp. 201 seg.
[63] Con decreto 30 giugno 1933 in Germania si era provveduto a licenziare le donne sposate ed a vietare l’accesso nella pubblica amministrazione alle donne di età inferiore ai 35 anni. Per qualche riferimento: M. A. Macciocchi, La donna ‘nera’, cit., pp. 66 seg.
[64] Questo sistema sarebbe stato modificato nel 1939 con l’istituzione dell’assicurazione obbligatoria di nuzialità e natalità, di cui beneficiavano tutti i lavoratori (in occasione del matrimonio e della nascita di figli) maschi e femmine, esclusi gli stranieri e gli italiani di razza «non ariana».
[65] La qualità dell’intervento protettivo rispecchiava l’opinione, allora accreditata da studiosi autorevoli, come Nicola Pende e Corrado Gini, che il lavoro industriale fosse una delle cause maggiori di iponatalità; secondo G. Grossi, La protezione e la difesa sociale della maternità in regime fascista, Milano, 1930, il lavoro delle operaie avrebbe non solo raddoppiato le malattie da gravidanza, ma avrebbe reso di sette volte maggiore il numero degli aborti e quintuplicato il numero dei parti prematuri.
[66] La preferenza accordata dagli industriali alle nubili non era certo un fatto nuovo: cfr. G. Vicarelli, Lavoro e maternità. Studio etnico, clinico e sociale, Torino, 1914, pp. 30 seg.
[67] Sui limiti e le insufficienze del T.U. del 1907 v. le precise osservazioni di A. Lo Monaco-Aprile, La protezione sociale della madre e del fanciullo in Italia e all’estero, Bologna, 1923, pp. 5 seg.
[68] V. tuttavia quanto detto (retro, cap. I, par. 3) a proposito della riforma attuala nel 1907 e del suo intento promozionale.
[69] G. M. Rey, Una sintesi dell’economia italiana durante il fascismo, in G. Toniolo (a cura di), L’economia italiana 1861-1940, Torino, 2a ed., 1978, p. 299.
[70] II distacco fra salari maschili e femminili era molto alto; secondo i dati contrattuali riferiti da C. Ravera, Breve storia del movimento femminile, cit., pp. 134 seg., tale distacco si aggirava intorno al 50%.
[71] Secondo E. Sullerot, La donna e il lavoro, cit., p. 159, il regime fascista circondò l’inserimento delle donne nelle diverse attività con un numero così grande di divieti particolari, «per proteggere le lavoratrici», che giunse a far nascere nei datori di lavoro una psicosi da paura. Tanto che, dove fu possibile (e persino nell’industria tessile), le donne furono sostituite da manodopera maschile.
[72] L’esclusione era assai importante, per l’alto numero di donne addette all’agricoltura. Molte donne erano occupate inoltre nell’affittanza e mezzadria: nei contratti del periodo riapparvero le clausole che richiedevano il permesso del padrone per il matrimonio dei componenti la famiglia colonica, e permettevano lo sfratto della famiglia colonica in cui si fosse verificato un aumento o una diminuzione del numero dei componenti. I patti agrari impedivano una serie di attività e di colture affidate essenzialmente alle donne: «si toglie cioè alle contadine ogni possibilità di guadagno, mentre si riconsacra il ritorno nelle campagne a forme di servitù che gravano nel modo più umiliante soprattutto sulle donne» (C. Ravera, loc. ult. cit.). Le condizioni di miseria facilitavano l’arruolamento delle donne nei lavori stagionali (vendemmia, monda del riso ecc.) privi di garanzie e con salari di fame.