Maria Vittoria Ballestrero
Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c2
Non rischia certo l’originalità chi afferma che la propaganda demografica esprime, in sintesi, l’ideologia antifemminista del fascismo. Ma né la propensione all’espansione demografica, né l’antifemminismo dei fascisti nascevano dal nulla. Quanto alla prima, le linee della c.d. battaglia demografica furono enunciate nello «storico discorso» dell’Ascensione (1927) da Mussolini, che ne approfondì poi l’elaborazione teorica (se così si possono chiamare le falsificazioni sulla denatalità in Italia, e le farneticazioni sulla potenza del
{p. 62} numero e sul «pericolo» giallo e nero) nella prefazione al libro di Korherr (1928) [29]
. Da quel momento, e fino alla fine, la difesa della stirpe (poi della razza) e l’incremento demografico della nazione diventavano punti essenziali della politica interna del regime. Alle spalle della campagna demografica fascista stava un generale allarme per il decremento della natalità nei paesi industrializzati d’Europa (in Italia, però, essendo la denatalità superiore a quella della Spagna e della Romania, ma largamente inferiore a quella degli altri paesi europei [30]
, il fenomeno non avrebbe dovuto destare preoccupazioni); un allarme «in cui le voci di un vario e insistente tradizionalismo eversivo tendevano a inquadrare il declino dell’occidente nei confronti di altri popoli» [31]
.
Provvedimenti demografici erano stati presi, a partire dal 1920, in molti paesi europei [32]
; ma pure inserendosi nella generale tendenza europea (nella quale confluivano «temi, suggestioni, pregiudizi, paure delle varie correnti irrazionalistiche e reazionarie» [33]
), Mussolini, ancora malthusiano nel 1913, dimostrava, fino dalla «digressione» demografica del discorso dell’Ascensione, di subire fortemente l’influenza della scuola di Oswald Spengler [34]
.
L’impostazione catastrofica data alla campagna demografica doveva trovare l’avallo della scienza italiana: che l’Italia fosse investita da una grave crisi delle nascite era dimostrato dagli statistici, primo fra tutti Corrado Gini, il quale da anni predicava la denatalità come fattore determinante la decadenza delle nazioni e delle classi dominanti [35]
; ai medici spettava invece dimostrare come le numerose, ripetute maternità fossero fonte di bellezza e salute per le donne, e come fossero più sani di corpo e di mente i figli di queste madri prolifiche ed estenuate (e qui la citazione di Nicola Pende è doverosa) [36]
. Ma l’approvazione più entusiastica e l’appoggio più incondizionato alla battaglia demografica dovevano venire dalla chiesa e dal mondo cattolico: si inaugurava così ‒ sono parole di Piero Meldini ‒ quella linea politico-culturale «clerico-fascista», il cui progetto era la costruzione di uno stato confessionale autoritario [37]
.
Non può sorprendere che la campagna demografica piacesse ai cattolici; al di là delle implicazioni razziste e colonia{p. 63}liste, la campagna demografica recuperava infatti larga parte del pensiero cattolico tradizionale (ma ribadito, nel 1930, da Pio XI con l’enciclica Casti connubii), saldamente ancorando gli enunciati più brutalmente antifemministi all’ideologia cattolica della donna e della famiglia [38]
. Se nelle premesse (la concezione dell’inferiorità naturale della donna) l’antifemminismo fascista era tributario all’oscurantismo cattolico, ma ancor di più ad altre correnti di pensiero (sociologico, antropologico, medico e psichiatrico [39]
), la donna che i fascisti concretamente eleggevano a protagonista (passiva e coatta) della politica d’incremento demografico era, senza residui, la donna pensata e voluta dai cattolici: spogliata di ogni velleità di emancipazione e privata del lavoro extra domestico [40]
, poco e male istruita [41]
, rinchiusa nel ghetto della famiglia, assoggettata all’uomo che le avrebbe imposto, nel privato, il «dovere sociale» della maternità, carica di figli e oppressa dal lavoro domestico massacrante, obbligatorio e gratuito [42]
. Questa donna è la paziente e rassegnata regina del focolare, la sposa-madre proposta dai cattolici: il sesso, per lei è la procreazione nel matrimonio (da perseguire anche col sacrificio della vita: le negano persino l’aborto terapeutico [43]
); la famiglia, che espropria tutte le sue energie fisiche e intellettuali, è un ordinamento gerarchico in cui il suo ruolo deve essere subordinato; il lavoro è la fatica di servire, senza ricompense [44]
.
Propensione demografica e antifemminismo non erano dunque tutta farina del sacco fascista; i fascisti avevano rimesso insieme, con qualche disordine, e riproposto nel loro stile insieme becero e retorico, suggestioni e idee elaborate altrove. Tuttavia, l’impostazione che la questione femminile subiva con l’apertura ufficiale della campagna demografica, doveva trovare uno svolgimento specificamente fascista.
Come avvenne per la contemporanea (e connessa) campagna ruralista, dove la ruralizzazione privilegiò il latifondo e le leggi contro l’urbanesimo restarono disapplicate, anche le concrete misure demografiche furono scarse e di scarso peso: a parte l’istituzione degli assegni familiari, che introducevano una rilevante modificazione della struttura del salario [45]
, i provvedimenti « sociali » si risolsero in poche provvi{p. 64}denze (quali esenzioni fiscali e ferroviarie) a favore delle famiglie numerose, e nei premi di nuzialità e natalità. E questa era una conseguenza scontata: dato che dalla campagna demografica emergeva, come unica parola d’ordine suscettibile di concreti sviluppi, «rimandare le donne a casa». Su questa parola d’ordine, che imponeva di affrontare il problema economico e politico del lavoro extra domestico delle donne, sul quale confluivano una pluralità di interessi talvolta divergenti, il regime impegnò la sua capacità di mediazione, muovendosi su tutti i piani di intervento che il problema coinvolgeva. Ne venne fuori quella complessa politica che si suole chiamare la soluzione fascista della questione femminile. Di tale politica i momenti fondamentali sono: l’organizzazione di massa delle donne (specialmente i fasci femminili [46]
); le istituzioni assistenziali (specialmente l’O.N.M.I. [47]
); la legislazione (del lavoro e della famiglia). Benché i primi due momenti assumano importanza decisiva per chi voglia studiare il rapporto donne-fascismo (ovvero la questione del consenso femminile al fascismo), i limiti di questo lavoro impongono di trascurarne qui la considerazione: mi limiterò dunque ad esaminare la legislazione del lavoro, cercando di riannodare, nell’analisi delle leggi, i fili di quel disegno di politica economica del quale ho dato all’inizio sintetica descrizione, ed entro il quale ho inserito ‒ credo non arbitrariamente ‒ anche la campagna demografica.

2. Le leggi sul lavoro delle donne e dei fanciulli e sulle lavoratrici madri.

La disciplina giuridica del lavoro femminile venne realizzata dal fascismo con una serie così numerosa di interventi legislativi, da dimostrare quanta importanza il regime annettesse al problema.
Le leggi fasciste sul lavoro delle donne possono essere divise in due categorie ‒ protettive ed espulsive ‒ orientate in direzioni solo apparentemente contrastanti. Vediamo anzitutto le leggi protettive. Nel corso del ventennio vennero emanati: 1) provvedimenti sul lavoro delle donne e dei fan{p. 65}ciulli (R.D.L. 15 marzo 1923, n. 748, convertito nella legge 17 aprile 1925, n. 437; legge 26 aprile 1934, n. 653, entrata in vigore nel 1936); 2) provvedimenti per la tutela delle lavoratrici madri (oltre all’art. 6, 8° comma, del R.D.L. n. 1825 del 1924 sull’impiego privato, il cui contenuto fu poi trasferito in parte nell’art. 2110 c.c. ed esteso di conseguenza alle operaie [48]
; il R.D.L. 13 maggio 1929, n. 850, convertito nella L. 2 luglio 1929, n. 1289; il R.D. 28 agosto 1930, n. 1358, norme di attuazione della legge del 1929; il R.D.L. 22 marzo 1934, n. 654, convertito nella L. 5 luglio 1934, n. 1347; il R.D. 12 marzo 1938, n. 2237, norme di attuazione della legge del 1934; il R.D. 14 aprile 1939, n. 636, sostituzione dell’assicurazione obbligatoria per la maternità con l’assicurazione obbligatoria di nuzialità e natalità).
Per l’importanza che hanno assunto (anche perché sono state leggi vigenti per molto tempo dopo la caduta del fascismo [49]
), per l’organicità del disegno che le sorreggeva, si può tenere conto in questa sede delle sole due leggi del 1934, che rimettevano ordine nella normativa precedente, parzialmente modificandola ed adeguandola alle esigenze politiche ed economiche del momento.
Tratto caratteristico della legge 26 aprile 1934, n. 653 (sui contenuti e sul valore della quale tornerò più avanti [50]
) è l’accomunamento delle donne e dei fanciulli in una normativa di ordine pubblico. Con questa legge, il fascismo portava avanti la linea di politica legislativa già tracciata dalle precedenti leggi sul lavoro delle donne e dei fanciulli (retro, cap. I). Rappresentava una novità, invece, l’estensione dell’applicabilità della legge n. 653 a tutti i luoghi di lavoro (con alcune rilevanti esclusioni: tra cui il lavoro familiare e a domicilio). Presentando la legge al senato, Mussolini dichiarava che tale estensione trovava fondamento in una esigenza basilare di ordine pubblico «fortemente intesa ed auspicata, riannodantesi alla conservazione della stirpe». E aggiungeva: «la tutela delle deboli forze del minore e della donna [...] è una forma [...] di tutela demografica diretta alla potenza non soltanto numerica, ma qualitativa della nazione, e per tale suo carattere rientra nei fini essenziali dello stato fascista». Ribadiva il sen. De Michelis [51]
che la legge era una pie{p. 66}tra miliare nel programma perseguito dal regime fascista per la difesa della stirpe, difesa «giustificante anche la tutela coattiva dei lavoratori».
C’è da rilevare che, mentre la tradizione prebellica (tutela della stirpe nazionale) era ripresa, in quest’occasione, in chiave demografico-razziale, secondo gli indirizzi della propaganda, gli aspetti salienti della legge, e cioè le (molte) eccezioni al campo di applicazione e la stessa elasticità dei divieti [52]
, erano spiegati ancora in chiave propagandistica, quali «dimostrazioni della progredita innovazione operata dal fascismo a tutela delle donne e dei fanciulli». Con la consueta disinvoltura si sosteneva, infatti, che l’applicazione non rigida e meccanica della legge avrebbe consentito di salvaguardare le «legittime esigenze» dell’apparato economico e produttivo; e si osservava [53]
come ciò rispondesse alle idee di base che dovevano sorreggere la legislazione del lavoro, la quale, avulsa da finalità dirette o indirette di difesa di classe (agli interessi di «categoria» provvedevano gli istituti corporativi), doveva rispondere a finalità di ordine superiore, come l’integrità della stirpe e il potenziamento della nazione.
Il riferimento solo occasionale alle esigenze degli imprenditori e l’enfatizzazione, invece, del carattere «fascista» (nella specie demografico e corporativo) della legge n. 653 emergono chiaramente nelle giustificazioni fornite a proposito di due particolari disposizioni. In primo luogo, la previsione dell’abbassamento del limite minimo di età per l’ammissione al lavoro da quattordici a dodici anni [54]
, che era spiegata con l’opportunità (a fini educativi e di sorveglianza) di far lavorare i fanciulli, specie nei periodi delle vacanze scolastiche, in cui sarebbero rimasti abbandonati a se stessi. In secondo luogo, per i riposi intermedi, la possibilità che i contratti collettivi prevedessero una riduzione del riposo legale [55]
; la singolare disposizione   [56]
era spiegata da Mussolini in questi termini: la norma ha un interessante aspetto innovativo, perché la legge precedente, pur consentendo la stessa possibilità di ridurre la durata dei riposi, prescriveva una «complicata procedura di marca prettamente democratica, basata sulla votazione degli operai della fabbrica; la nuova legge sostituisce il principio, ben più efficace, della rappresentanza giuri
{p. 67}dica degli interessi di categoria».
Note
[29] Regresso delle nascite: morte dei popoli, Roma, 1928.
[30]Secondo dati forniti dallo stesso R. Korherr, op. cit.
[31] E. Santarelli, op. cit., p. 89.
[32] Una rassegna in G. Grossi, Legge e potenza del numero, Bologna, 1935, pp. 18 seg., opera dedicata oltre che alla propaganda delle tesi demografiche di regime, alla descrizione apologetica, ma dettagliata, della politica «eugenica» e degli istituti creati dal fascismo per l’incremento e il miglioramento della popolazione nazionale. In questo contesto, l’a. critica violentemente la concezione demografico-razzista di Hitler che «nel suo delirio di intransigenza sulla purezza della razza non risponde affatto ad alcun principio biologico sano» (p. 57). «Con questi concetti di igiene della razza ‒ scriveva Grossi ‒ non si può più parlare di miglioramento e incremento demografico. Meglio varrebbe essere sinceri e chiaramente asserire che si tratta di un fine politico di predominio e di superiorità sugli altri popoli! E se questo ultimo aspetto della demografia tedesca non è delirio, follia, che altro può essere?» (p. 59).
[33] P. Meldini, op. cit., p. 89.
[34] Le lesi di O. Spengler erano divulgate dal R. Korherr, il cui saggio porla, nell’edizione italiana, oltre alla prefazione di Mussolini, anche una prelazione di Spengler; quest’ultimo vi ribadisce il legame indissolubile tra la soluzione della questione demografica tedesca e l’avvento di una dittatura fascista in Germania.
[35] V. infatti, di C. Gini, I fattori demografici dell’evoluzione delle nazioni, Torino, 1912; dopo il discorso dell’Ascensione l’a. pubblicò il saggio Il numero come forza, in «Critica fascista», 1928, 19, pp. 362 seg., divenuto subito notissimo, ed il vol. Le basi scientifiche della politica della popolazione, Catania, 1931. Di Gini segnalo ai colleghi insoddisfatti di sé e del proprio ruolo il breve saggio Nuove osservazioni sui problemi dell’eugenica. La distribuzione dei professori delle università italiane secondo l’ordine di nascita, in «Rivista italiana di sociologia», marzo aprile 1914 (estr.), dove si dimostra come i professori universitari siano più abbondanti tra i primogeniti che tra i cadetti; il che implica ‒ precisa Gini ‒ che sia accolta (anche se con riserva) la tesi della superiorità dei primogeniti. A partire dagli interventi di Mussolini si moltiplicarono le opere dedicate alla questione demografica; molto citati, oltre i lavori di Gini, anche quelli di C. Curcio, La politica demografica del fascismo, Milano, 1938; R. Michels, Il problema della popolazione, Perugia, 1929.
[36] N. Pende, Bonifica umana, Bologna, 1934; l’a. sosteneva fra l’altro la lesi che il lavoro industriale fosse un fattore di iponatalità; tesi condivisa da G. Tesauro, Influenza demografica del lavoro industriale femminile, in Scritti in onore del prof. G. Miranda, Napoli, 1939, pp. 18 seg. Di N. Pende può vedersi anche il breve saggio Femminilità e cultura femminile, in «Gerarchia», maggio 1941 (riportato in appendice da P. Meldini, Sposa e madre esemplare, cit. pp. 276 seg.), dove l’illustre clinico affermava che la cultura della donna non potesse e non dovesse essere pari a quella maschile, e che pertanto dovesse essere impedito alle donne l’esercizio di quelle professioni cui il cervello femminile non è per natura preparato; come le scienze, le matematiche, la filosofia, la storia, l’ingegneria, l’architettura.
[37] P. Meldini, op. cit., p. 95.
[38] Ma l’antifemminismo fascista aveva anche altre matrici culturali; secondo E. Santarelli, op. cit., pp. 77 seg., si ritrovano in esso, specificamente, le radici della concezione futurista della donna oggetto di piacere e mezzo di riproduzione.
[39] La grande influenza esercitata da C. Lombroso e dai positivisti (con la dimostrazione scientifica che essi fornivano dell’inferiorità fisica e soprattutto cerebrale della donna) sulla concezione fascista della donna e della famiglia, è sottolineata da P. Meldini, op. cit., p. 37.
[40] Nel quadro di un orientamento di regime generalmente sfavorevole al lavoro extra domestico delle donne, delle quali si privilegiavano le funzioni familiari e riproduttive, le posizioni erano tuttavia articolate; dall’estremismo di F. Loffredo, Politica della famiglia, cit., al buon senso di G. Bottai, Presentazione a F. Loffredo, op. cit.
[41] Ma le organizzazioni femminili fasciste chiedevano che non si ponessero limiti nell’accesso delle donne all’istruzione superiore. V., in tal senso, F. Catasta, Studentesse d’Italia. G.U.F. femminile e orientamento professionale, in «Almanacco della donna italiana», 1935, pp. 155 seg.; l’a. si affanna a dimostrare che l’aumento delle studentesse e delle laureate non doveva preoccupare; «quelle che si formano una famiglia sono le vere compagne del marito e, oltre a badare alla casa, lo aiutano spesso nel lavoro; tutte poi, indistintamente, contribuiscono col loro studio ad elevare il livello spirituale e culturale della nazione».
[42] Uso qui l’espressione «lavoro domestico» nel significato totale che le attribuiscono le femministe: cfr. Aa. V.„ Dentro lo specchio. Lavoro domestico, riproduzione del ruolo e autonomia delle donne, Milano, 1978.
[43] Nell’enciclica Casti connubii (1930), Pio XI riaffermava l’indissolubilità del matrimonio, la superiorità dell’uomo, la subordinazione civile e patrimoniale della donna, la condanna di ogni pratica antigenerativa, compreso l’aborto terapeutico. Quanto al lavoro extra domestico, il pontefice riteneva fosse una corruzione dell’indole muliebre e della dignità materna, una perversione di tutta la famiglia. Per il caso in cui la maternità mettesse in pericolo la vita della donna, la risposta dei cattolici era: continenza e fede nella provvidenza (G. Tredici, I doveri della paternità, in La famiglia cristiana, Settimane sociali d’Italia, XII sessione, 1926, Genova, Milano 1927, pp. 144 seg.).
[44] Così A. Bernareggi, Il matrimonio e la famiglia nei loro fondamenti naturali, in La famiglia cristiana, cit., pp. 61 seg. Sulla ideologia clerico fascista, v. per tutti F. Pieroni Bortolotti, Femminismo e partiti politici in Italia, cit., pp. 352 seg.
[45] Gli assegni familiari furono introdotti con l’accordo 11 ottobre 1934 per l’industria, in concomitanza con la riduzione della settimana lavorativa da 48 a 40 ore, cui conseguiva una riduzione più che proporzionale del salario; con R.D.L. 21 giugno 1936, n. 1632 e successive modifiche, gli assegni familiari vennero resi obbligatori per tutti i lavoratori dell’industria, indipendentemente dall’orario settimanale di lavoro. Cfr. L. Levi, Gli assegni familiari ai lavoratori, in Trattato di diritto del lavoro, diretto da U. Borsi e F. Pergolesi, vol. II, Padova, 1939, pp. 333 seg.
[46] Ampie informazioni in P. Benedettini Alferazzi, La donna in regime fascista. L’assistenza e i fasci femminili, in «Almanacco della donna italiana», 1935, pp. 137 seg. Un estratto da I fasci femminili, Milano, 1929, dove il partito delineava i compiti di queste organizzazioni, è riportato in appendice da P. Meldini, op. cit., pp. 155 seg.
[47] Sull’organizzazione e i compiti dell’O.N.M.I, v. G. Grossi, Legge e potenza del numero, cit., pp. 283 seg.
[48] 1 commi 8° e 9° dell’art. 6 R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825 («per i casi di interruzione del servizio per gravidanza o puerperio il principale conserverà il posto per il periodo di tre mesi, corrispondendo la retribuzione per il primo mese e la metà per gli altri due. Se l’interruzione di servizio [...] dura più dei termini massimi [...] indicati, e il principale licenzi l’impiegato, saranno dovute le indennità di licenziamento di cui all’art. 10») si applicavano alle sole impiegate.
[49] La legge 22 marzo 1934, n. 1347 sulle lavoratrici madri è stata abrogata dalla legge n. 860/1950, a sua volta sostituita dalla legge n. 1204/1971. La legge 26 aprile 1934, n. 653 è stata abrogata (per incompatibilità) dalla legge 9 dicembre 1977, n. 903 sulla parità uomo donna nei rapporti di lavoro. Per quanto riguarda il lavoro dei fanciulli, la legge del 1934 è stata sostituita dalla legge n. 977/1967.
[50] Infra, cap. VI.
[51] Le cit. relazioni sono riportate in «Le leggi», 1934, rispettivamente alle pp. 679 seg., 683 seg.
[52] Mi riferisco al divieto di adibire le donne e i minori ai lavori insalubri, pericolosi, faticosi, e al divieto di lavoro notturno per le donne di qualsiasi età e per i minori di 18 anni (nel solo settore industriale, e per i minori di 16 anni nelle lavorazioni a ciclo continuo).
[53] De Michelis, relazione cit. Sono della stessa opinione anche A. Grechi e V. Barile, Istituzioni di legislazione sociale, Empoli, 2a ed., 1942, pp. 229 seg.
[54] In base all’art. 7. L. n. 653, il ministro per le corporazioni poteva autorizzare l’occupazione in determinati lavori di fanciulli di età non inferiore ai 12 anni compiuti, sempre che tali lavori fossero compatibili con le esigenze di tutela della salute e della moralità del fanciullo, e quando fosse richiesto da particolari condizioni aziendali, da speciali esigenze tecniche del lavoro, o fosse necessario per la formazione delle maestranze. Le ipotesi di deroga erano dunque formulate con tanta studiata genericità, da consentire l’uso elastico del divieto.
[55] Il R.D.L. 15 marzo 1923, n. 692, fissa in 8 ore giornaliere o 48 settimanali l’orario normale di lavoro, prevedendo casi in cui è consentito superare tale limite e casi in cui non è fissato alcun limite. La legge del 1934 prescriveva, per casi cui non si applicasse il decreto del 1923, che l’orario di lavoro delle donne e dei fanciulli non potesse eccedere rispettivamente le 11 e le 10 ore giornaliere (art. 17; l’art. 18 regolava i riposi intermedi).
[56] La subordinazione, nella gerarchia delle fonti, del contratto collettivo corporativo alle leggi e ai regolamenti, rendeva anomala la previsione della deroga (per contratto) ad una norma di legge che, per il suo contenuto, avrebbe dovuto essere classificata tra le norme inderogabili. Tale anomalia si riproduce, per certi aspetti, nella nuova legge n. 903/1977: infra, cap. VI.