Dalla tutela alla parità
DOI: 10.1401/9788815374257/c2
Non richiede particolari sforzi di fantasia
interpretativa capire che leggi del 1934 si inserivano, senza contraddizioni, nel
disegno di scoraggiare gli imprenditori (industriali e commerciali) dall’occupare donne
anziché uomini. Basta fermare l’attenzione sulla definizione della sfera di
applicabilità di ambedue le leggi. Le disposizioni che
imponevano
¶{p. 72} nuovi e più pesanti oneri (intesi come rigidità del
lavoro femminile, contributi assicurativi, restrizioni ai licenziamenti) agli
imprenditori che avessero alle proprie dipendenze donne (madri e possibili madri)
[71]
erano accompagnate da una serie notevole di eccezioni: il
lavoro domestico, familiare, a domicilio, e agricolo
[72]
risultavano pressoché esclusi dall’applicazione di quelle
disposizioni.
Fatta eccezione per il lavoro agricolo delle
braccianti, le altre forme di lavoro femminile sottratte all’applicazione delle norme
protettive erano quelle nelle quali le donne svolgevano (e svolgono) un’attività
lavorativa precaria e/o marginale e generalmente nell’ambito familiare
[73]
: elementi questi che non giustificavano certo la mancata tutela di
lavoratrici esposte, come e più delle altre, alla fatica e alla nocività del lavoro. Le
idee che circolavano intorno al lavoro delle donne e il favore con cui era visto il loro
ritorno alle occupazioni domestiche e alle piccole attività a domicilio
(retro, par. 1), sono la base ideologica
della scelta di lasciare priva di protezione un’ampia fascia dell’occupazione femminile.
Scelta che doveva servire, come ho detto, a disincentivare l’occupazione stabile delle
donne nei settori principali dell’economia, senza tuttavia imporre ai datori di lavoro
soluzioni eventualmente non gradite. Induceva a tener ferma una politica del lavoro
femminile elaborata negli anni della crisi, la propensione del regime ad agevolare una
razionalizzazione del sistema produttivo che non contemplava espansioni dell’occupazione
rilevanti e comunque sufficienti a consentire il recupero della flessione, che
l’occupazione femminile aveva subito durante la crisi.
Se lo sviluppo industriale era al centro degli
interventi di politica economica e del mercato del lavoro, si può dire che il regime
fascista prestò alla ristrutturazione industriale tra gli altri strumenti anche la sua
politica femminile, fatta di disincentivazione dell’occupazione più che di repressione
(ma sarà usata anche quella: infra, par. 4), di sostegno alla
riduzione dei costi del lavoro (tramite il consenso dei sindacati fascisti al
sottosalario delle maestranze femminili), di propaganda demografica e
antifemminista.¶{p. 73}
4. «Tornare a casa»: espulsione e lavoro a domicilio.
Durante l’intero ventennio fascista, i ripetuti
interventi legislativi di carattere «protettivo» (che culminarono nell’emanazione delle
leggi del 1934 sul lavoro delle donne e dei fanciulli e sulle lavoratrici madri) vennero
accompagnati da uno stillicidio di provvedimenti di carattere «espulsivo», aventi ad
oggetto l’estromissione delle donne prima dal pubblico impiego, poi anche dal lavoro
privato.
Questi provvedimenti, che costituiscono l’altra
faccia, la più brutale e anche la più nota
[74]
, della politica del regime verso (contro) le donne, con decisione
perseguivano quell’obbiettivo di limitare l’occupazione femminile extradomestica, che la
legislazione di tutela si proponeva di raggiungere per la via mediata della
superprotezione delle lavoratrici occupate
[75]
. Certo, le norme espulsive si ponevano ogni volta un obbiettivo dichiarato,
e lo realizzavano utilizzando gli strumenti immediatamente efficaci del divieto e
dell’esclusione. La finalità di queste norme era dunque assolutamente esplicita; decreto
dopo decreto, il disegno di espulsione si venne componendo organicamente: partendo dalle
prime limitazioni di accesso ad attività giudicate «non adatte» alle donne, si arrivò
alla limitazione assoluta delle donne occupate nella pubblica amministrazione e nei
settori privati.
I principali provvedimenti di carattere espulsivo
furono diretti a limitare (e marginalizzare) l’occupazione femminile nella pubblica
amministrazione, settore nel quale erano largamente confluite le donne della piccola e
media borghesia. Obbiettivo privilegiato degli interventi governativi risultò, fin
dall’inizio ‒ e non a caso ‒, la scuola, che di tutto il pubblico impiego era da sempre
(per ragioni facilmente comprensibili) il settore a più alta occupazione femminile (R.D.
6 maggio 1923, n. 1054, e R.D. 1 luglio 1940, n. 899, che impedivano alle donne di
essere presidi di scuole o istituti di istruzione media; R.D. 9 dicembre 1926, n. 2480,
che escludeva le donne dall’insegnamento della storia, filosofia, economia nei licei
classici e scientifici e negli istituti tecnici). Dalla scuola, l’attenzione si spostò
progressivamente sull’intera pubblica amministrazione: il R.D. 28 novembre
1933,¶{p. 74} n. 1554 convertito in legge 18 gennaio 1934, n. 221,
autorizzava le amministrazioni dello stato a stabilire, nei bandi di concorso,
l’esclusione delle donne ovvero i limiti entro cui contenere l’assunzione di personale
femminile
[76]
; il R.D. 3 marzo 1934, n. 383, escludeva le donne da una serie di pubblici
uffici.
Solo più tardi il regime impose anche agli
imprenditori privati la stessa politica di estromissione delle lavoratrici (fino ad
allora solo suggerita): il R.D.L. 15 ottobre 1938, n. 1514, limitava l’assunzione delle
donne negli impieghi pubblici e privati al massimo del dieci per cento dei posti; le
lavoratrici in soprannumero dovevano essere collocate a riposo: nel settore pubblico, al
compimento del minimo di anzianità pensionabile; nel settore privato dovevano essere
sostituite, entro tre anni, da uomini. La disposizione limitativa non si applicava agli
impieghi pubblici e privati che i fascisti consideravano «particolarmente adatti alle
donne» (specificati nel R.D.L. 20 giugno 1939, n. 898: lavori manuali e/o mansioni
meramente esecutive).
Mentre la più complessa e duratura normativa per
il pubblico impiego doveva produrre notevoli conseguenze sulla distribuzione del
personale (specie nella scuola), il provvedimento relativo alle assunzioni (di indubbio
valore propagandistico) era destinato ad avere minore rilevanza: la guerra avrebbe
infatti riproposto, a breve scadenza, la necessità di utilizzare massicciamente le donne
nella produzione e nei servizi, portando, prima ancora dell’abrogazione, alla pratica
disapplicazione del decreto.
Ben altro dunque che la tardiva limitazione delle
assunzioni o la specificazione delle mansioni adatte alle donne aveva influito sui
livelli e sulla qualità dell’occupazione femminile durante il periodo fascista. Se la
politica economica del regime aveva favorito la marginalizzazione del lavoro delle donne
e la eliminazione della loro presenza nell’industria, i sindacati fascisti avevano
provveduto a mantenere i salari delle donne più bassi di quelli maschili del cinquanta
per cento, e avevano concordato la sottoclassificazione del lavoro femminile. Nella
categoria operaia, le donne, inquadrate separatamente, erano divise in tre livelli
(qualificate,¶{p. 75} manovali specializzate, manovali), il più alto dei
quali era più basso del più alto livello dell’inquadramento maschile (operaio specializzato)
[77]
: così, anche nel caso di un lavoro eguale a quello degli
uomini, per contratto non doveva essere corrisposto alle donne un salario
eguale.
Per concludere finalmente il discorso sulle leggi
fasciste, si può dire che il legislatore dell’epoca, il quale si preoccupava assai più
della disoccupazione maschile che dell’eccesso di sfruttamento delle donne, aveva posto
in essere una legislazione complessivamente restrittiva, destinata a scoraggiare (e poi
addirittura ad impedire) la tendenza ad utilizzare categorie di lavoratori poco
qualificati e pochissimo esigenti (le c.d. mezze forze), e destinata a favorire il
passaggio delle donne da occupate a casalinghe (inoccupate) e, con ciò, la sparizione
dal mercato ufficiale del lavoro di un numero cospicuo di disoccupati.
Sotto il profilo legislativo, questa politica
dell’occupazione femminile trovò il proprio completamento nella mancata disciplina
(protettiva) del lavoro a domicilio: da intendersi, come chiarirò tra breve, sia nel
senso del troppo frammentario, parziale, ambiguo intervento di regolamentazione del
lavoro a domicilio, sia come esclusione espressa del lavoro a domicilio dalla sfera di
applicabilità delle norme di tutela del lavoro femminile
[78]
. Due ragioni legittimano l’inserimento della politica legislativa verso il
lavoro a domicilio all’interno della politica del fascismo verso il lavoro femminile:
a) il fatto che le donne erano la stragrande maggioranza dei
lavoranti (detti poi lavoratori
[79]
) a domicilio; b) il fatto che, a
causa delle particolari caratteristiche del lavoro a domicilio, le addette tendevano ad
essere considerate piuttosto «casalinghe» che salariate, anche quando il lavoro le
occupava per otto o dieci ore al giorno; il fatto cioè che l’attività delle lavoratrici
a domicilio era vista come un’integrazione, opportuna se necessaria, delle loro funzioni
domestiche.
Le correnti ideologie antifemministe del tempo
spiegano perché il regime considerasse con favore l’occupazione delle donne nel lavoro a
domicilio: essendo il lavoro extra domestico delle donne tollerato solo se determinato
dalla necessità economica di integrare il bilancio familiare,
doveva¶{p. 76} essere agevolato, per le donne, lo svolgimento di
un’attività che non le portasse fuori casa; che consentisse loro (specie se mogli e
madri) di adempiere, grazie all’elasticità degli orari, ai «doveri» domestici; che si
conciliasse con il ruolo cui erano destinate nella famiglia; che, alla fine, non ponesse
alla collettività il problema della creazione di servizi sociali sostitutivi della loro
presenza in casa
[80]
.
Ma il favore verso questo tipo di occupazione
femminile marginale non era tutto ideologico: se non fosse stato motivato anche e
soprattutto ‒ come peraltro si ammetteva senza preoccupazioni
[81]
‒ dalla considerazione dei notevoli vantaggi che il lavoro
a domicilio presentava per larghi settori della produzione, non si sarebbe spiegata in
alcun modo la scelta di lasciare prive di protezione legale proprio le donne occupate in
attività ben viste e approvate dal regime.
I vantaggi che gli industriali potevano trarre
dal lavoro a domicilio erano strettamente legati alla disponibilità di una manodopera
scarsamente qualificata, disposta a lavorare in condizioni di alto sfruttamento e senza
potere sollevare pretese in ordine alla copertura contrattuale e previdenziale del
rapporto di lavoro, per l’oggettiva debolezza della sua posizione sul mercato del
lavoro, e per l’affluenza sul mercato di persone (altre donne) disposte a svolgere
questo tipo di lavoro a condizioni anche peggiori.
Perché il ricorso al lavoro a domicilio
risultasse vantaggioso per gli industriali, erano allora necessari almeno due
presupposti: l’ampia disponibilità di manodopera femminile disoccupata (e/o inoccupata);
l’assenza di norme che limitassero l’utilizzazione del lavoro a domicilio o comunque
garantissero gli addetti contro l’eccesso di sfruttamento.
Il regime fascista si preoccupò di realizzare
ambedue questi presupposti: il primo, con quella politica economica diretta a
scoraggiare l’occupazione femminile e a comprimere l’affluenza delle donne sul mercato
ufficiale del lavoro, di cui ho parlato nei paragrafi precedenti. Il secondo presupposto
venne realizzato mediante strumenti giuridici, ai quali vale la pena di fare un cenno in
questa sede.
Pressato dalle lotte sociali e dalle
rivendicazioni dei lavoratori, nel primo dopoguerra lo stato liberale aveva
tentato
¶{p. 77} di dare una soluzione ai problemi del lavoro a
domicilio, progettandone una prima disciplina giuridica
[82]
. Con l’insuccesso del tentativo, l’eredità passò nelle mani dei fascisti
che, nel corso del ventennio, affrontarono in più occasioni la questione, evitando
tuttavia accuratamente di dare ai lavoratori a domicilio una disciplina giuridica chiara
e certa dei rapporti con i propri datori di lavoro.
Note
[71] Secondo E. Sullerot, La donna e il lavoro, cit., p. 159, il regime fascista circondò l’inserimento delle donne nelle diverse attività con un numero così grande di divieti particolari, «per proteggere le lavoratrici», che giunse a far nascere nei datori di lavoro una psicosi da paura. Tanto che, dove fu possibile (e persino nell’industria tessile), le donne furono sostituite da manodopera maschile.
[72] L’esclusione era assai importante, per l’alto numero di donne addette all’agricoltura. Molte donne erano occupate inoltre nell’affittanza e mezzadria: nei contratti del periodo riapparvero le clausole che richiedevano il permesso del padrone per il matrimonio dei componenti la famiglia colonica, e permettevano lo sfratto della famiglia colonica in cui si fosse verificato un aumento o una diminuzione del numero dei componenti. I patti agrari impedivano una serie di attività e di colture affidate essenzialmente alle donne: «si toglie cioè alle contadine ogni possibilità di guadagno, mentre si riconsacra il ritorno nelle campagne a forme di servitù che gravano nel modo più umiliante soprattutto sulle donne» (C. Ravera, loc. ult. cit.). Le condizioni di miseria facilitavano l’arruolamento delle donne nei lavori stagionali (vendemmia, monda del riso ecc.) privi di garanzie e con salari di fame.
[73] Ambedue le leggi del 1934 escludevano inoltre dalla propria sfera di applicabilità gli uffici dello stato, delle province e dei comuni.
[74] Le poche opere, in cui è dedicato qualche cenno alla politica legislativa del fascismo, si occupano pressoché esclusivamente della legislazione che ho chiamato «espulsiva»: v. M. Natoli, Dall’incapacità giuridica al nuovo diritto di famiglia, in La donna e il diritto, cit., p. 44; M. A. Macciocchi, La donna ‘nera’, cit.. pp. 62 seg.; E. Santarelli, Il fascismo e le ideologie antifemministe, cit., pp. 90 seg.
[75] Di «super protezione» come ho cercato di chiarire (retro, par. 3) si può parlare solo facendo preciso riferimento alla legislazione sul lavoro del tempo, che non offriva ai lavoratori alcuna garanzia contro licenziamenti, trasferimenti, retrocessioni, sanzioni disciplinari e, più in generale, contro l’autorità padronale in fabbrica. Anche all’interno di quel contesto, tuttavia, le leggi sul lavoro femminile (e segnatamente la legge n. 653), che pure rendevano onerosa l’occupazione di donne, non avevano sempre e necessariamente quel valore iperprotettivo che si tende ad attribuire loro oggi: è caratteristica di quelle leggi, infatti, la presenza di una larga serie di divieti elastici, cioè derogabili «per esigenze dell’impresa». Questo implicava che gli imprenditori (industriali, destinatari della maggior parte dei divieti) potevano temperare, ove ne avessero interesse, le rigidità di utilizzo della manodopera femminile imposte dalla legge.
[76] La legge codificava prassi amministrative per larga parte già autorizzate dal consiglio di stato: retro, cap. I, par. 5, sull’interpretazione dell’art. 7 L. n. 1176/1919.
[77] V. la ricostruzione dei sistemi di classificazione dei lavoratori di G. Veneto, Contrattazione e prassi nei rapporti di lavoro, Bologna, 1974, p. 67 seg.; per qualche chiarimento ulteriore rinvio a quanto ho scritto nella voce Operaio, in Enciclopedia del diritto, Milano (in corso di stampa).
[78] Al lavoro a domicilio si applicavano solo l’art. 5 L. 26 aprile 1934, n. 653. tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli (divieto di adibire al lavoro i minori di 14 anni), e l’art. 18 L. 5 luglio 1934, n. 1347, tutela della maternità delle lavoratrici (obbligo di assicurare per la maternità le donne dai 15 ai 50 anni).
[79] Dal 1935 in poi, i testi legislativi sostituirono la parola «lavoranti» con «lavoratori». Sul significato e le implicazioni di questa variazione terminologica v. M. De Cristofaro, Il lavoro a domicilio, Padova, 1978, pp. 15 seg.
[80] Scriveva P. Greco, Il lavoro a domicilio nell’ordinamento corporativo, in «Il diritto del lavoro», 1928, I, p. 298, che il lavoro a domicilio, dal punto di vista morale, presentava il vantaggio, di grande rilievo per lo spirito del fascismo «di favorire la permanenza della donna lavoratrice nell’ambiente cui essa è destinata, se madre, a regnare ed a profondere la sua preziosa opera di allevamento e di educazione della prole, se figlia, a formarsi la mente e il cuore in quella purezza di affetti e di costumi che solo la famiglia, se decorosamente mantenuta, può garantire».
[81] Ancora P. Greco, Il lavoro a domicilio, cit., p. 291, affermava che assoggettando il lavoro a domicilio alla disciplina del lavoro subordinato si sarebbe ottenuto il risultato di «dissuadere gli industriali dal ricorrere a quella forma di lavoro, già che questo mentre li aggraverebbe degli stessi oneri del lavoro in fabbrica, non ne presenterebbe però i vantaggi dati dalla possibilità di dirigere, sorvegliare e assicurare la buona riuscita del prodotto».
[82] Per la situazione prebellica, ampi ragguagli in F. Chessa, L’industria a domicilio nella costituzione economica odierna, Milano, 1918; sul disegno di legge n. 196, presentato alla camera il 20 giugno 1921, v. ora M. De Cristofaro, Il lavoro a domicilio, cit., pp. 5 seg.; v. anche M. Bellano, Il lavoro a domicilio dall’art. I R. D. 30 dicembre 1923, n. 3184 alla L. 13 marzo 1958, n. 264, in «Rivista di diritto del lavoro», 1962, I, pp. 68 seg.