Diritto e valori
DOI: 10.1401/9788815413499/c7
VII
La partecipazione del sindacato al potere politico dello Stato
Da «Rivista delle società», 1971, pp. 1-30
1. La crisi del sistema elettivo-rappresentativo e il problema di nuove forme di partecipazione politica dei cittadini mediante le organizzazioni sociali di interessi.
Il tema di questo studio si inquadra nella complessa problematica, di ordine politico-costituzionale, collegata alla crisi del sistema elettivo-rappresentativo che regge la nostra costituzione politica formale: crisi prodotta dallo sviluppo della società in senso pluralistico, con una serie di conseguenze e di reazioni che oltrepassano i limiti in cui la struttura pluralistica trova riconoscimento nella carta costituzionale. Tale sviluppo è determinato, a sua volta, dall’avvento, in misura e con ritmi di crescenza imprevedibili nel 1947, della società tecnologica di massa, caratterizzata dall’organizzazione degli interessi in gruppi dotati di forza politica in proporzione alla loro grandezza. Si assiste a un fenomeno di decentramento del potere politico parallelo al fenomeno inverso della concentrazione del potere economico, ed entrambi in antitesi a due presupposti fondamentali del modello costituzionale classico: il quale, da un lato, postula l’appartenenza del potere economico ai singoli individui (cioè a tutti, e quindi a nessuno), dall’altro, postula l’appartenenza del potere politico esclusivamente allo Stato.
La Costituzione del 1947 riconosce il pluralismo della società italiana, contiene anzi, all’art. 2, una professione di fede nella concezione dei corpi intermedi. Di questa concezione proprio l’art. 39, che sancisce la libertà di organizzazione sindacale e l’autonomia collettiva delle professioni, è una delle applicazioni più significative; e al ¶{p. 178}riconoscimento del pluralismo sociale fondato sulle solidarietà professionali si accompagna il riconoscimento del pluralismo fondato sulle solidarietà geografiche articolate nell’ordinamento regionale. Ma la costituzione scritta coglie solo marginalmente, e in una forma inadeguata quale il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, l’intima essenza del pluralismo, secondo la quale esso si definisce come il potere dei gruppi sociali organizzati sulla formazione della volontà dello Stato
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. Le norme organizzative della rappresentanza politica sono ancora ispirate al modello classico, che contrappone la sfera sociale alla sfera politica in funzione dell’accentramento nello Stato del potere politico, e promuove l’integrazione della società nello Stato attraverso il sistema rappresentativo-elettivo, tradizionalmente noto come sistema o regime parlamentare. Certo, come in altre costituzioni moderne, questo modello subisce una vistosa modificazione, destinata ad adattarlo all’ipotesi pluralistica. Nel primo costituzionalismo, proprio dello Stato liberale ottocentesco, il compito di mediazione tra il popolo e l’autorità politica era affidato direttamente al parlamento, inteso come la sede politica in cui gli eletti dal popolo formulano collegialmente la volontà generale mediante una discussione razionale e astratta, libera da influenze o pressioni di interessi particolari e a tale scopo garantita dal divieto del mandato imperativo. Al governo, e all’apparato amministrativo da esso diretto, era poi commesso il compito di attuare imparzialmente questa volontà ipotetica e di promuoverne periodicamente la verifica mediante il confronto con la volontà empirica del corpo elettorale. Nel sistema attuale, invece, la mediazione tra il corpo sociale e lo Stato assume la forma del partito, così che il presente ordinamento deve essere designato non tanto come regime parlamentare, quanto come regime di partiti
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. I partiti non
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sono più, come all’origine, semplici comitati elettorali che esauriscono la loro funzione nell’ambito delle elezioni, ma sono gruppi sociali stabili, fortemente organizzati e costituzionalmente investiti della funzione di integrazione della comunità nello Stato. Attraverso i partiti si esercita la sovranità popolare, si attua il concorso permanente dei cittadini alla determinazione della politica nazionale (art. 49 Cost.). Con questa innovazione il costituente pensava di impedire lo sbocco monistico del sistema parlamentare, ritenuto incompatibile con la riconosciuta struttura pluralistica della società. È abbandonato il postulato della concentrazione del potere politico nell’organizzazione dello Stato, e vengono istituzionalizzati come fattori fondamentali del processo di formazione della volontà politica gruppi sociali – quali i partiti – che non appartengono all’apparato dello Stato, non sono organi dello Stato, ma «nascono e vivono in seno alla comunità civile» e sono regolati dal diritto privato
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. Sono dunque una forma di autogoverno dei cittadini
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: nel disegno del costituente l’affidamento ai partiti della funzione di rappresentanza politica assume, in definitiva, il significato di un avvicinamento del sistema rappresentativo-elettivo all’ideale della democrazia diretta
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Ma è un disegno intimamente minato da un germe di contraddizione. Il sistema rappresentativo, secondo il suo tipo ideale, muove dalla tesi, di origine giusnaturalistica, dell’esistenza di un interesse generale come dato a priori oggettivamente determinabile, e dall’ipotesi che la volontà del popolo sia diretta a promuovere tale interesse (volontà generale o volontà ipotetica, distinta e contrap¶{p. 180}posta alle volontà empiriche particolari)
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. Una volontà, dunque, che deve essere cercata e scoperta con i metodi della ragione, con l’ausilio dei quali è possibile conoscere ciò che il popolo vuole
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. Simili premesse giustificano ancora, nel regime costituzionale vigente, il privilegio conferito ai partiti, nel senso che essi soli, tra i gruppi sociali, sono formalmente riconosciuti come centri di potere politico. Questo privilegio è legato alla valutazione dei partiti quali gruppi sociali costituiti non sulla base di interessi particolari, bensì sulla base di determinate concezioni dell’interesse generale.
In pratica, l’accennata investitura di potere politico ha operato come polo di attrazione dei partiti nell’apparato autoritario dello Stato, del quale sono divenuti le strutture portanti, e quindi li ha spinti ad assumere funzioni di governo. Ne è conseguito, anzitutto, un progressivo esautoramento della loro qualità rappresentativa. Sempre la qualità rappresentativa di un gruppo sociale diventa problematica quando il gruppo si stabilisce come istituzione munita di autorità: perché allora la sua natura originaria di forma di autogoverno viene alterata dall’in¶{p. 181}staurarsi di un rapporto di dominazione, caratterizzato dalla tensione tra dominanti e dominati. Le elezioni tendono a tramutarsi in un fatto puramente plebiscitario, incapace di vitalizzare quella reciproca influenza tra partito e corpo elettorale che dovrebbe costantemente sorreggere e alimentare l’attività del primo come mediatore tra cittadini e pubblico potere
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. In secondo luogo, l’assunzione di funzioni di governo espone il partito alla pressione degli interessi particolari che prorompono dalla sfera sociale nella forma dei gruppi organizzati, e dai quali invece, secondo un postulato del modello costituzionale classico, il partito dovrebbe prendere le maggiori distanze. Di qui il frazionamento dei partiti in «correnti», le quali si fanno esponenti all’interno di essi di determinati interessi di gruppo, che il partito non è poi in grado di comporre in una sintesi unitaria. Di qui, ancora, il declino delle ideologie dei partiti
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. L’ideologia è un metodo
¶{p. 182}di ricerca razionale
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e astratta della volontà generale, intesa secondo il concetto sopra accennato. L’essere condizionato da questo concetto, che contrappone rigidamente l’interesse generale agli interessi particolari, la «volonté generale» alla «volonté de tous», senza lasciare spazio agli interessi intermediari di gruppo, è il difetto cardinale del modello costituzionale classico, confrontato con la realtà della società pluralistica
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. Non esiste una volontà generale precostituita, che si imponga dal di fuori: la volontà generale non è un concetto ontologico, bensì dinamico-funzionale, cioè non può esprimersi se non come risultato finale di un processo di confronto e di bilanciamento, e quindi di sintesi dialettica, di tutti gli interessi particolari, più o meno organizzati, in cui si articola la società
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.{p. 183}
Note
[1] Cfr. Schmitt, Der Hüter der Verfassung, Tübingen, 1931, p. 71.
[2] Mortati, La comunità statale, in Persona, società intermedie e Stato (Quad, di «Iustitia», n. 10), Roma, 1958, p. 108.
[3] Sandulli, Società pluralistica e rinnovamento dello Stato, in «Iustitia», 1968, p. 14.
[4] Crisafulli, Partiti, parlamento e governo, in La funzionalità dei partiti nello Stato democratico, Milano, 1967, p. 96.
[5] Secondo Leibholz, Strukturprohleme der modernen Demokratie, Karlsruhe, 1958, p. 93, «il moderno Stato di partiti (Parteienstaat)... non è altro che una forma empirica razionalizzata della democrazia plebiscitaria o, se si vuole, un surrogato della democrazia diretta».
[6] Fraenkel, Die repräsentative und die plebizitäre Komponente im demokratischen Verfassungsstaat (nella raccolta «Recht und Staat», H. 219-220), Tübingen, 1958, pp. 5, 7. Tradotte in termini di realismo politico, tali premesse postulano l’esistenza di un popolo omogeneo formante un’entità spirituale identificata da un blocco di valori assunti come elementi incontestati e incontestabili dell’ordine sociale, e quindi legata da un complesso di sentimenti e di aspirazioni comuni. Le decisioni della maggioranza non appaiono allora una vittoria riportata sulla minoranza, «ma il voto permette semplicemente di mettere in evidenza un accordo e un’armonia preesistenti, ma rimasti allo stato latente» (Schmitt, Légalité-Légitimité, Paris, 1936, pp. 73 s.). In una società eterogenea, invece, la decisione della maggioranza non è più in grado di legittimarsi da se stessa, sulla base della sua legalità formale, ma può legittimarsi soltanto come forma di integrazione funzionale (nel senso di Smend, Verfassung und Verfassungsrecht, München-Leipzig, 1928, pp. 32 ss.), cioè come forma di legalizzazione di un compromesso tra le forze sociali in conflitto, raggiunto attraverso processi di partecipazione dei gruppi organizzati alla formazione della volontà politica dello Stato.
[7] Si ricordi Rousseau, Le contrat social, liv. II, chap. VI (in Oeuvres complètes, Pléiade, vol. III, Paris, 1966, p. 380): «Les particuliers voyent le bien qu’ils rejettent; le public veut le bien qu’il ne voit pas..: il faut obliger les uns à conformer leurs volontés à leur raison; il faut apprendre à l’autre à connaître ce qu’il veut».
[8] Nella democrazia di massa la componente plebiscitaria è inevitabile, e anzi necessaria (cfr. Smend, op. cit., p. 42; Fraenkel, op. cit., spec. pp. 56 ss.), onde la tendenza dei partiti (di massa) ad operare come fattori di un sistema di governo plebiscitario non sarebbe patologica, se i cittadini sentissero il partito come forma di partecipazione effettiva. Ma proprio perché l’esperienza scoraggia questa convinzione, la società cerca nuovi modelli di partecipazione nelle organizzazioni di interessi, dotate di strumenti più efficaci di collegamento dei dirigenti con la base, e quindi in migliore condizione di liberare l’individuo dal senso frustrante di «non contare nulla», che genera il senso di «anomia». In questo senso si possono comprendere valutazioni del tipo di quella di Rivero, La convention collective et le droit public français, in «Rev. économique», 1951, p. 22, secondo cui «l’identification des gouvernants et des gouvernés est plus exacte avec la représentation syndicale qu’avec la représentation politique».
[9] L’affermazione va intesa nel senso strettamente relativo del testo. Non sono in declino le ideologie, ché, anzi, questa è l’ora delle ideologie («appartiene all’ironia della nostra epoca che essa dimostri ovunque un sospetto di ideologia nella medesima misura in cui essa stessa produce ideologie»: Hoffmann, Wissenschaft und Ideologie, in «Ar. f. Rechts u. Sozialphil.», 1957, p. 197. Sono in declino le ideologie tradizionali dei partiti (proposte come teorie della società), dal momento che l’accelerazione del progresso scientifico e tecnologico, incessante e incalcolabile nei suoi sviluppi, ha messo in evidenza l’impossibilità di prevedere l’evoluzione dei rapporti sociali per lunghi periodi, e quindi l’inidoneità delle ideologie a fornire modelli di impostazione dell’azione politica, la quale deve fondarsi su elementi calcolabili. Oggi i principali produttori di ideologie non sono i partiti, ma i gruppi sodali, ai quali le ideologie forniscono non tanto principi operativi, quanto gli argomenti della polemica reciproca e soprattutto della polemica contro i partiti: argomenti destinati a suscitare nelle masse quelle che Pascal chiama le «cordes d’immagination». Le responsabilità connesse alle funzioni di governo spingono piuttosto i partiti ad opporre alle ideologie dei gruppi sociali l’antiideologia del «piano», che a sua volta è un’ideologia, ma di nuovo stampo (sul quale i gruppi tecnocratici, in polemica con i partiti e in funzione di una «spoliticizzazione» delle masse, tentano di rimodellare l’utopia saint-simoniana).
[10] O pseudorazionale, se è vero che le ideologie politiche cercano di trasferire i metodi del calcolo scientifico nella sfera dei valori, ammantandosi di una «razionalizzazione contraffatta» (Freund, Das Utopische in den gegenwärtigen politischen Ideologien, in Säkularisation und Utopie, Stuttgart, 1967, pp. 103 s.).
[11] «L’errore fondamentale della rivoluzione francese», secondo il giudizio di E. Ollivier, Rapport sur la liberté des coalitions de patrons et d’ouvriers (discorso pronunciato all’Assemblea francese il 22 aprile 1864, in Ollivier, Démocratie et liberté, Paris, 1867, p. 152), con riferimento alle premesse ideologiche della legge Le Chapelier del 14-17 giugno 1791.
[12] Cfr. Mortati, Sindacati e partiti politici, in L’organizzazione professionale (Atti della XXIV Settimana sociale dei Cattolici italiani), Roma, 1952, p. 216; Burdeau, Traité de science politique, vol. VI, Paris, 1956, n. 50, pp. 147 ss.; Huber, Staat und Verbände (nella raccolta «Staat und Recht», H. 218), Tübingen, 1958, p. 17; Hirsch. Die öffentlichen Funktionen der Gewerkschaften, Stuttgart, 1966, pp. 16 ss., 68. Anche a questo proposito B. Constant si rivela uno dei pochi scrittori politici il cui pensiero è sopravvissuto alla loro epoca. Cfr. i Principes de politique, chap. V (in Oeuvres, Pleiade, Paris, 1957, p. 1137): «Qu’est-ce que l’intérêt général, sinon la transaction qui s’opère entre les intérêts particuliers?... L’intérêt général est distinct sans doute des intérêts particuliers, mais il ne leur est point contraire».